Qualche automezzo, infatti, il battaglione lo aveva ancora e serviva a trasportare le cucine, le salmerie, le carte del Comando.
Naturalmente non erano muniti di catene né di pneumatici adatti e perciò slittavano allegramente nel fango e, non appena la pista presentava qualche ondulazione, rimanevano impantanati.
E allora, a turno, un reparto di fanti veniva comandato per l’operazione di spantanamento e recupero. Significava riunire una trentina di poveri diavoli, appena arrivati – stanchi morti alla fine dell’ennesima tappa giornaliera e già sparpagliati nel villaggio in vari stadi di sbracamento – e rimetterli in marcia notturna, sul cammino già percorso.
Fino a trovare quel dannato autocarro impantanato, fermo di traverso nella cunetta vigliacca, le ruote affondate nella melma fino al mozzo.
Rimetterlo in sesto, a forza di braccia, di gambe, di urla e parolacce e insulti all’autiere e a sua madre, e infine aiutarlo a procedere, lentamente, a passo d’uomo, mantenendolo sempre al centro della schiena d’asino della pista, assicurato a due funi tirate dai fanti annaspanti sui sue lati.
E così fino al campo, dove oramai chi aveva più la forza di pulire gli scarponi? O la voglia di mangiare un rancio raffreddato?
Niente: giù come sacchi di patate, a dormire qualche ora con l’unico conforto di pensare che il giorno seguente lo spantanamento sarebbe toccato a qualcun altro.