Si alza una voce in dialetto siciliano.
"Al mio paese", dice "a Palermo, la vigilia di Natale si mangia la zuppa di ceci, poi stufato di tonno coi piselli, oppure sarda diliscata, passata nell'aceto, infarinata a fritta. Per frutta, fichi ripieni di mandorle cotti al forno. Dopo cena si gioca a tombola in attesa della mezzanotte, per andare ad ascoltare la Santa Messa alla cattedrale della Martorana."
"I che tu dici...", interviene un toscano "la vostra zuppa di ceci sarà buona, ma non come la nostra torta coi porri!"
"Bella roba..." incalza un bolognese "altro che ceci, sarde e cipolle! Ci vogliono i tortellini ripieni di buona carne, prosciutto e parmigiano, cotti poi in brodo di cappone, lo zampone portato in tavola su un letto di puré di patate e lenticchie e una buona bottiglia di lambrusco per aiutare la digestione."
I più tacciono. Con lo sguardo fisso in un punto della disadorna parete che lentamente perde per loro la scabrosità della malta data frettolosamente per mutarsi in una visione che loro solo scorgono, pensano forse alla casa così lontana nel tempo e nello spazio; al ceppo che con allegra fiamma brucia nel camino – e qui fa tanto freddo! –, ai loro cari, alla vita trascorsa, allietata da tante piccole gioiose serenità, che non sapevano neppure di possedere e che han dovuto perdere irrimediabilmente per comprenderne l'immenso reale valore.
Piano piano il cerchio si dirada. Anche l'incerta fiamma del lumino, che spande più fumo che luce, si è spenta.
Ancora nel buio, prima di addomentarsi, si ode una voce rivolgersi a un invisibile interlocutore:
"Ma di' ben su, Tognon, è proprio vero che in Italia si mangiava di quella roba così buona e non contavamo le cucchiaiate di minestra e non tenevamo uno straccio sulle ginocchia per accogliervi le briciole del pane, come facciamo qui?"