Da Il LXXIII Gruppo Artiglieria d'Armata nella Campagna di Russia

Dino Benacci, Tipografia Stimmatini, Verona, 1974?

 

Il grande disco del sole era già tramontato laggiù, oltre l'immensa distesa dei girasoli, e le varie attività si stavano esaurendo ormai nei residui preliminari per la notte.

Quasi tutti eravamo presso i nostri giacigli e qualcuno già dormiva.

Le conversazioni si erano fatte bisbigli e, uno solo, alla luce tremolante di un mozzicone di candela, terminava di scrivere la lettera a casa.

Improvvisamente, nel silenzio quasi completo, il grido di una nostra sentinella: Allarmi! Allarmi! subito seguito dal furioso abbaiare di una mitragliatrice.

Ci guardammo l'un l'altro annichiliti dalla sorpresa e, per qualche momento, come colpiti da uno shock collettivo, restammo come inchiodati ai nostri posti.

Il prolungato gracchiare della mitraglia, che l'eco della sera ingrandiva, rimbombava dentro di noi infondendoci una sensazione di indefinito malessere.

Ma non era paura.

Non era paura perché non avevamo corso fino ad allora dei seri pericoli e la nostra conoscenza della guerra era limitata alla vista dei soli segni, sia pure evidenti, rimasti lungo i margini delle strade percorse.

Soltanto non eravamo abituati all'idea di un attacco improvviso e ravvicinato; all'idea di doverci difendere, magari all'arma bianca, contro un nemico che in quei brevi istanti poteva assumere forme diverse e che nessuno ci aveva insegnato a riconoscere e a combattere.

Pensavamo alla nostra guerra e ai pericoli che essa rappresentava, ma sempre nell'ambito della nostra arma, impiegata tradizionalmente a una certa distanza dal fronte.

L'esitazione fu breve ma quelle grida di allarmi, quelle raffiche di mitragliatrice che ci prendevano così alla sprovvista, suscitarono in noi una serie di impulsi imprevisti e incontrollabili, che invece di far scattare i nervi a una reazione ordinata e tempestiva, rendevano più lenti e impacciati i nostri movimenti con un senso di confusione e disagio.

Arrivammo comunque alle nostre armi e fu un insieme di scatti metallici per l'entrata dei caricatori nei serbatoi dei moschetti.

Chi senza scarpe, chi senza elmetto, altri con giubba infilata a torso nudo, chi addirittura in mutandine (nella fretta ognuno aveva perduto o dimenticato qualcosa)... pallottola in canna e fuori... ma dove andare? Dove era il nemico? Contro chi o che cosa si doveva combattere?

Nelle altre isbe le cose non erano andate diversamente. Tutti si erano precipitati e avevano preso posizione...così, a caso: dietro gli angoli delle isbe, fra gli automezzi, a ridosso di un muretto, ovunque c'era un riparo.

Intanto alla prima mitragliatrice se n'era aggiunta una seconda. Tutti vedevano ombre sospette...  e tutti sparavano.

Al crepitio dei moschetti si aggiunse, qua e là, il fragore di qualche bomba a mano e, purtroppo, anche il lamento di qualche ferito.

Ovviamente, l'improvviso trambusto notturno aveva messo in allarme anche altri reparti che, come noi in marcia verso il fronte, stazionavano acquartierati in località poco lontane.

È facile immaginare il ripetersi di analoga scena in campo opposto, all'arrivo delle nostre fucilate.

A un tratto sentimmo fischiare sopra le nostre teste, in rapida successione, pallottole in arrivo, e per qualche minuto fu il caos.

Soltanto il deciso intervento del nostro Comandante e degli altri ufficiali, che alla sparatoria si erano precipitati fuori dai propri alloggiamenti, e che si erano immediatamente resi conto della situazione, riuscì a ristabilire la calma e... il cessate il fuoco.

Tutto si era svolto così, come una spontanea reazione a catena, nel breve spazio di una quindicina di minuti, col magro bilancio di cinque feriti, di cui uno piuttosto seriamente, e qualche migliaia di colpi sprecati.

Fu interrogata la sentinella che per prima aveva cominciato a sparare: "Mi è parso di vedere delle ombre avvicinarsi agli automezzi e pensando a una possibile azione di sabotaggio ho dato il Chi va là! Non avendo ottenuto risposta, ho cominciato a sparare e a gridare allarmi."

Una pattuglia, al comando del sottotenente Monaco, perlustrò per ore, palmo a palmo, tutta la zona circostante, senza però nulla rilevare che testimoniasse la presenza di supposti nemici.

Salvo i feriti, tutto si era risolto in una bolla di sapone, ma l'avvenimento rivelò in tutti, dal Comandante all'ultimo soldato, una profonda morale. [...]

Tutti si resero conto che la guerra era sempre stata ed era una cosa seria, che poteva riservare in ogni luogo e in ogni momento delle spiacevoli sorprese.

Nulla poteva più essere trascurato.

La disciplina fu rafforzata.

Furono impartiti ordini dettagliati e precisi e da quel momento ognuno ebbe il suo carico di responsabilità.

Non vi fu più tempo per le partite a carte o per altre futili cose. Ognuno di noi doveva pensare solo e unicamente alla guerra.

 

 

 

 

 


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