Da Né vivi né morti – Guerra e prigionia dell'Arm.I.R. in Russia – 1942-1945, Fidia Gambetti, Mursia, Milano, 1972

 

Né vivi né morti copertinaMolti hanno dimenticato i tratti del proprio viso. Né sanno dove potrebbero cercarli.

Talvolta, quando il primo rancio arriva nei bunker con un raggio di sole, riescono a scoprire – senza riconoscerli – i loro occhi febbrili che li guardano, riflessi, dal fondo della bianca zuppa di miglio.

Due occhi, cento occhi, mille occhi diversi.

Ma tutti i volti sono uguali intorno a quegli occhi, si somigliano come quelli delle bestie affamate, braccate, ferite.

All’infuori della zuppa, tutto il resto del mondo è opaco.

Hanno dimenticato anche il viso della madre, quello della moglie e dei figli.

Alcuni si sforzano tanto e inutilmente a pensarci, finché non ce la fanno più a muoversi.

E poi magari muoiono per lo sforzo. [...]

I morti, spesso, rimangono coricati al nostro fianco per giorni e notti; è come se dormissero.

Prendiamo il pane e il rancio anche per loro.

Grazie alla loro generosità e al loro complice silenzio, qualcuno vive meglio, qualcuno vive. [...]

Non c’è nessun orario. Il giorno finisce, senza essere mai cominciato, quando – dopo aver mangiato tutto il pane fino all’ultimo boccone, senza tirare il fiato e guardandosi sospettosamente intorno – ci si addormenta pensando al pane che arriverà ventiquattr’ore dopo.

Il ricordo delle settimane senza pane, senz’acqua, senza nulla, soltanto cielo e neve e carogne per terra, non consente più di sentirsi sazi.

Quelli che hanno dimenticato il viso della madre, della moglie, dei figli e ne hanno anche perduto le fotografie, per anni custodite fra le maglie e la pelle, quelli guardano le fotografie degli altri.

E sembrano ricordarsi.

Le madri, le mogli, i figli dei soldati si somigliano un po’ tutti.

Se però hanno intenzione di vivere non ci pensano troppo.

Coloro che ci pensano troppo, infatti, un giorno o l’altro muoiono senza accorgersene, magari con il boccone di pane nella ganascia, con la cicca di foglie secche penzoloni all’angolo della bocca.

Capisci subito come andrà a finire quando li vedi farsi lentamente d’appresso alla stufa, insensibili ai calci e alle spinte.

Nessuno riuscirà più a spostarli di lì prima che siano crepati.

Dieci minuti prima avranno avuto uno sprazzo di vita, si saranno messi a parlare di uva e di pastasciutta, di arance e di bistecche, di ricotta e di vino, come se già si affacciassero alla soglia di una vita nuova, tutta da vivere, una vita piena di uva e di vino, di arance, di bistecche e di ricotta.

Sono i sintomi dell’agonia.

Così morivano durante le marce [del davai], così morivano in treno.

Come in treno, si divide la roba del morente e forse non manca chi adocchia la cicca e l’ultimo boccone di pane stretto nel pugno.

Chi vuole fermamente sopravvivere non pensa a niente e a nessuno.

Pensa appena a se stesso e a come arrivare a domani. [...]

Più diventa bestia, più uccide dentro si sé ogni rispetto, ogni sentimento, ogni debolezza umana, più sicuramente salva il suo amore e la sua vita di domani.

Per conservarsi alla madre, alla moglie, ai figli che lo piangono morto, che lo piangono semivivo, egli deve escluderli inesorabilmente dai suoi pensieri, deve estirparli dal suo cuore.

 

 

La parola Военнопленные – che dà il titolo alla lettura di questa settimana – è in cirillco e significa prigionieri di guerra.

 

 

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