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RUSSIA 1941 - 1943 CSIR e ARMIR sul Fronte Orientale
di Bruno Lancellotti

Sintesi di Maria Teresa Buccino

armir

1. Costituzione dell'8ª Armata

 

Al generale Messe che, in base alle esperienze acquisite in un anno di comando del C.S.I.R. e di contatti diretti coi vari Comandi germanici, cercava di convincere Mussolini della inopportunità di un maggior impegno militare sul Fronte Orientale, consigliando invece un avvicendamento degli uomini ed un miglioramento dell’armamento e dell’equipaggiamento del Corpo di Spedizione, il Duce non trovava migliore motivazione - per ribadire la propria decisione - che osservare come al tavolo delle trattative che sarebbero seguite alla immancabile vittoria di Hitler (della quale rimaneva convinto), i duecentomila uomini dell’ARM.I.R. avrebbero certamente pesato più dei sessantamila del C.S.I.R.

Duecentomila uomini scarsamente armati, non meglio equipaggiati, erano perciò la posta che egli gettava nel conflitto con la convinzione di ritrovarsi tra i vincitori, in un ruolo da protagonista.

A ritardare la formazione e l’invio di questo nuovo contingente italiano risultò determinante la difficoltà di reperire gli automezzi necessari, che nemmeno l’alleato tedesco si dimostrò in grado (o disposto) a fornire; né poteva bastare a colmare la lacuna la decisione presa dal Capo di Stato Maggiore italiano, generale Cavallero, di portare la tappa quotidiana di marcia della fanteria da “diciotto a quaranta chilometri”.

Da parte sua Hitler, comunicando al generale von Kleist il suo piano per l’occupazione della zona petrolifera caucasica, di fronte alla obiezione che un’azione del genere avrebbe lasciato sguarnito un fianco estremamente lungo delle forze tedesche, rispondeva che si sarebbe fatto dare nuove truppe dalla Romania, dall’Ungheria e dall’Italia “per presidiare un tratto di fronte facile da tenere”.

 

Lo Stato Maggiore dell’Esercito italiano portava perciò a termine la formazione organica di questa nuova Grande Unità destinata a chiamarsi “8ª Armata” e composta da tre Corpi d’Armata:

  • il II (Divisioni Ravenna, Cosseria e Sforzesca)

  • il XXXV – C.S.I.R. (Divisioni Celere, Pasubio e Torino)

  • l’Alpino (Divisioni Tridentina, Julia e Cuneense)

oltre alle altre Unità direttamente alle dipendenze del Comando d’Armata.

Questo Comando si costituiva il 1º maggio 1942 a Bologna e la Grande Unità ai suoi ordini presentava una forza di 229.000 uomini (di cui circa 7.000 ufficiali). Poteva contare su 16.700 automezzi, 4.470 motomezzi e 25.000 quadrupedi; disponeva di 2.657 fucili mitragliatori, 1.724 mitragliatrici, 1.297 mortai da 45 e 81 mm, 278 cannoni controcarro e semoventi 47/32, 977 pezzi d’artiglieria di vario calibro, 31 carri leggeri “L/6”, 23 aerei da ricognizione e 41 da caccia.

I Reggimenti Savoia Cavalleria e Lancieri di Novara, col Reggimento Artiglieria a Cavallo, rimanevano alle dirette dipendenze del Comando dell’8ª Armata, così come il Battaglione sciatori alpino Monte Cervino, la Legione Croata e, più tardi, la Divisione di fanteria Vicenza.

Anche la presenza del partito fascista risultò più massiccia con la costituzione di due Raggruppamenti di Camicie Nere: il 3 Gennaio, con i Gruppi Tagliamento e Montebello, posti alle dipendenze tattiche del XXXV Corpo d’Armata; il 23 Marzo, con i Gruppi Valle Scrivia e Leonessa, posti alle dipendenze tattiche del II Corpo d’Armata.

Mancava, invece, qualsiasi importante apporto di reparti corazzati ed era diminuita la disponibilità di aerei. La dotazione di artiglieria aveva subito importanti modifiche ma risultava non equamente ripartita fra le Unità e risentiva di una eccessiva diversificazione nel suo munizionamento.

Inoltre rimaneva la pericolosa inadeguatezza, nel numero e nella potenza, dei cannoni anticarro, incapaci di perforare la corazzatura dei “T/34” sovietici e - per questo - spesso definiti come cannoni “ping-pong” per l’attitudine dei loro proiettili a schizzar via una volta battuto sulla corazza del carro armato nemico.

Se vi era stato un forte incremento come forza in uomini, non altrettanto si poteva dire dell’armamento che, in percentuale, risultava inferiore a quello in dotazione allo stesso C.S.I.R..

La procedura seguita per la designazione del comandante della 8ª Armata risultò particolarmente laboriosa, influenzata come sempre dal concetto di anzianità di grado quale fattore determinante.

Mussolini stesso riconobbe nella sua Storia di un anno che “fu un errore” non lasciare il generale Messe al comando anche dell’ARM.I.R. E Ciano insinuò nel suo Diario che lo stesso Capo di Stato Maggiore, generale Cavallero, non gradisse troppo l’eventuale designazione di Messe per la popolarità che questi godeva nell’Esercito e nello stesso Paese.

Si ripiegò quindi burocraticamente sul generale Gariboldi, un vecchio ufficiale che aveva dato ottime prove nella prima guerra mondiale ma che non sembrava essere stato altrettanto deciso, soprattutto nei rapporti con i Tedeschi, in Libia.

La sfiducia che spesso vi fu da parte del soldato nei confronti degli ufficiali superiori si rivolgeva più alla competenza ed alla capacità operativa che al personale coraggio.

Nel confronto con gli ufficiali tedeschi, paradossalmente si poteva dire che gli ufficiali italiani abbondavano di coraggio ma difettavano di professionalità; ed ogni combattente sapeva, per diretta esperienza, quanto risultasse più utile in battaglia condurre un reparto al successo con il minimo delle perdite che saper morire da eroe. Lo stesso Alto Comando tedesco rilevava che l’Armata italiana combatteva in modo troppo “oneroso”: i contrattacchi erano sempre portati avanti “con bravura” ma anche con troppe perdite.

 

2. Situazione all’inizio dell’offensiva primaverile

 

All’inizio della ripresa delle operazioni, nella primavera del 1942, lo schieramento alleato comprendeva:

  • 178 Divisioni tedesche

  •   31 Divisioni romene

  •   17 Divisioni ungheresi

  •     3 Divisioni italiane (che saliranno a 9)

  •     2 Divisioni slovacche

  •     1 Legione di volontari spagnoli

Queste forze erano dislocate lungo un fronte che andava da Leningrado al Mar d’Azov, con una lunghezza di circa duemila chilometri, attraverso un territorio prevalentemente piatto e pressoché privo di ostacoli naturali.

La priorità del Comando tedesco si orientò sul settore meridionale del fronte, dove esistevano le maggiori riserve petrolifere sovietiche ed i suoi più importanti complessi industriali.

Una volta che si fosse riusciti ad impadronirsi della grande ansa che il fiume Don formava in direzione del fiume Volga, sarebbe stato possibile facilitare la conquista della città di Stalingrado, bloccando così i collegamenti tra le regioni industrializzate del Sud, ricche di materie prime e di petrolio, e le regioni del Centro e del Nord, prevalentemente agricole.

In questa manovra l’8ª Armata italiana avrebbe fatto parte del Gruppo di Armate “A” che, sotto il comando del feldmaresciallo von List, si trovava schierato tra le città di Char'kov ed il Mar Nero.

 

3. La manovra di Krasnyi Luč

 

Così come era accaduto per il C.S.I.R., anche per l’8ª Armata il concentramento delle Unità risultò scaglionato nel tempo, ed il loro impiego non potè avvenire che in fasi diverse. Una volta ripresa l’offensiva tedesca, il contributo italiano risultò inizialmente limitato al XXXV Corpo d’Armata (ex-C.S.I.R.), a cui si erano aggiunte la appena arrivata Divisione Sforzesca, la 111ª Divisione tedesca ed un certo numero di pezzi d’artiglieria di media gittata.

L’offensiva tedesca ebbe inizio in luglio con una manovra messa in atto da due Armate che, dopo avere occupato Char'kov e Kursk, raggiunsero il Don fra Voronež e Bogučar. In correlazione con questa manovra anche il settore italiano riprendeva il movimento in avanti, secondo uno schieramento che vedeva la Divisione Sforzesca al centro, con la Divisione Pasubio sulla sinistra e la Divisione Celere sulla destra, mentre la Divisione Torino rimaneva a disposizione.

Pur se ostacolato da un violento temporale che rendeva quasi impraticabili le strade, il 12 luglio il colonnello Caretto portava il suo 3° Reggimento bersaglieri a prendere contatto col nemico alle prime isbe di Krugli, riuscendo dopo una breve quanto cruenta lotta ad occupare anche l’abitato di Fatsceva. Qui veniva raggiunto dal VI Battaglione del 6° Bersaglieri al comando del colonnello Salvatores, che proseguiva nell’azione raggiungendo il quadrivio di Artena dove il sopravvenire dell’oscurità consigliava di sospendere ogni ostilità.

Nella notte del 13 i bersaglieri del VI Battaglione respingevano contrattacchi da parte della Cavalleria sovietica, lanciandosi poi all’attacco di una importante quota tenacemente difesa dai Russi. Si rinnovavano aspri combattimenti, spesso all’arma bianca, che si protraevano sino alle prime isbe di Ivanovka, obiettivo finale dell’azione.

Lo schieramento nemico disponeva però di trincee, reticolati, campi minati e fossati anticarro, e l’azione tendeva a farsi particolarmente sanguinosa. Veniva richiesto l’appoggio dell’aviazione tedesca che, a causa di un malaugurato equivoco, mitragliava però le posizioni avanzate dei bersaglieri, provocando alcune perdite.

Nei due giorni successivi il grosso delle forze sovietiche, incalzate dalle Armate tedesche, ripiegava verso il Donetz abbandonando l’importante centro di Vorošilovgrad. Una notizia che sembrava consolidare la sensazione di un fronte sovietico ormai irrimediabilmente in rotta.

Al XXXV Corpo d’Armata veniva ordinato di puntare su Krasnaja Poljana e Rykovo. La sera del 18 le avanguardie delle Divisioni Celere e Pasubio si riunivano nell’abitato di Krasnyj Luč, dove convergeva anche il Raggruppamento a cavallo “Barbò”, attardato da una pioggia battente che ostacolava di molto il movimento dei cavalieri e delle artiglierie.

Portato a termine il rastrellamento della intera zona mineraria, le truppe italiane si concentravano nella zona di Luganskaja, nei pressi di Vorošilovgrad.

Qui il Comando dell’8ª Armata, ormai entrato pienamente nelle sue funzioni, procedeva ad alcune varianti nell’inquadramento delle proprie Unità, provocando perplessità fra gli appartenenti all’ex-C.S.I.R. Abituati nei lunghi mesi di lotta a trovare nel fraterno affiatamento fra le Unità l’elemento del loro successo, non apprezzavano i “rimescolamenti” tra “vecchi” e “nuovi” appena arrivati al fronte, avendo la sensazione che si volessero attenuare certi loro privilegi di esperienze e ricordi accumulati durante lunghi mesi di manovre e di combattimenti comuni.

 

4. Lo schieramento sul Don

 

La forte pressione esercitata dalle Armate tedesche aveva costretto le Unità russe ad un vasto ripiegamento, e queste erano riuscite a pilotarlo con un certo ordine facendo ricorso come sempre alla manovra ed allo spazio, lasciando dietro di sé il vuoto attraverso la completa distruzione di quanto potesse presentare qualche utilità per il nemico. Obiettivo rimaneva ora il Don, uno dei maggiori fiumi russi, dietro il quale il Comando russo sembrava ritenere possibile disporre una nuova e più valida linea di resistenza.

La disponibilità pressoché illimitata di spazio giocò un ruolo determinante a favore dell’Unione Sovietica: fra la seconda metà del 1941 e gli inizi del 1942, le fu possibile, infatti, trasferire l’intero apparato industriale lontanissimo dal fronte, in zone quasi invulnerabili e particolarmente ricche di materie prime. Un’operazione che una volta portata a compimento e messa in grado di funzionare permetterà ai Russi, sul finire del 1942, di raggiungere una produzione bellica di parecchio superiore a quella tedesca.

Ai primi di luglio 1942 il Gruppo di Armate “B” raggiunse il Don, dove incontrò una accanita quanto imprevista resistenza da parte dei Sovietici, che lo costrinsero a segnare il passo.

Più a sud, invece, la 6ª Armata germanica aveva raggiunto il vertice della grande ansa protesa nella sua parte meridionale verso il Volga e la città di Stalingrado.

Intanto anche le Divisioni italiane si erano messe in movimento per contribuire alla copertura delle Unità tedesche impegnate ad assicurarsi il possesso della sponda destra del Don.

Primi ad intervenire furono i pontieri del I Battaglione, rinforzati da una Compagnia del IX Battaglione pontieri e una del XV Battaglione artieri. Dopo una marcia di oltre duecento chilometri, il 23 luglio raggiungevano il Donetz e provvedevano a gettare un ponte di centoquaranta metri in sole tre ore, dimostrando ancora una volta il loro alto grado di addestramento.

Il 13 agosto 1942 le truppe italiane erano sul Don ed il Comando dell’8ª Armata assumeva la responsabilità del settore assegnato lungo la riva destra del fiume per una lunghezza totale, lungo la riva, di 270 chilometri.

 

Le Unità risultavano così disposte, da sinistra a destra, secondo questo schieramento:

  • la 294ª Divisione tedesca, da Chos. Bugilovka alla confluenza del Kalitva nel Don;

  • il II Corpo d’Armata (Divisioni Cosseria e Ravenna), dal Kalitva alla confluenza del Bogučar nel Don;

  • il XXIX Corpo d’Armata germanico (Divisione autotrasportabile Torino e la 62ª Divisione tedesca), tra il fiume Bogučar e la località di Merkulov;

  • il XXXV Corpo d’Armata-C.S.I.R. (Divisione autotrasportabile Pasubio e Divisione Sforzesca), da Merkulov alla sponda sinistra della foce del Choper nel Don a valle del fiume Zuzkan.

 

5. La battaglia di Serafimovič

 

Mentre le Unità dell’8ª Armata, ora integrate nel Gruppo di Armate “B”, andavano raggiungendo il Don e si schieravano lungo i settori loro assegnati, la Divisione Celere aveva raggiunto Vorošilovgrad e, percorrendo oltre quattrocento chilometri in quattro giorni, aveva proseguito per Millerovo e poi oltre, verso la zona di Bobrovskaja, dove veniva aggregata al XVII Corpo d’Armata tedesco con il compito di proteggerne il fianco sinistro.

In quella zona il Don forma un’ampia ansa con vertice a Serafimovič, da cui prende nome. La zona, caratterizzata da diverse alture e da estese macchie boschive, era in mano ai Russi, decisi a difenderla per permettere il ripiegamento di alcune loro Unità rimaste accerchiate a Stalingrado.

La Divisione Celere raggiunse la zona il 29 luglio, in un momento molto delicato della battaglia.

Tutti i Reggimenti furono duramente chiamati in causa. I bersaglieri del 3º e del 6º Reggimento furono impegnati in aspri combattimenti contrassegnati da continui, sanguinosi attacchi e contrattacchi, nei quali anche gli stessi artiglieri del 120º Reggimento artiglieria erano spesso costretti a difendere le proprie batterie con scontri all’arma bianca e bombe a mano contro un nemico che, oltre a valersi di un continuo apporto di uomini e mezzi, sapeva abilmente sfruttare ogni appiglio di un terreno di cui conosceva ogni particolarità.

La prima fase della battaglia per l’ansa di Serafimovič poteva dirsi conclusa nel tardo pomeriggio del 3 agosto quando, respinto l’ennesimo attacco nemico, venivano definitivamente riconquistate le località di Bobrovskij e Boskovskij, a conclusione di cinque giorni di continui combattimenti che avevano profondamente inciso sul fisico e sugli organici dei reparti, provocando anche la perdita del comandante del 3º Bersaglieri, colonnello Aminto Caretto, uno dei più prestigiosi ufficiali, ferito il 2 agosto e morto tre giorni dopo per cancrena gassosa al 46º Ospedaletto da campo.

Se si erano potute occupare le località dell’ansa di Serafimovič, altrettanto non si era potuto fare per la zona boscosa nella quale stavano forti nuclei di forze sovietiche.

Il generale von Hollidt, comandante del XVII Corpo d’Armata tedesco, aveva emanato l’ordine di rastrellare il bosco sino a portare la linea di difesa sulla riva destra del fiume. In questa azione erano impegnati anche alcuni Battaglioni di bersaglieri ed alcuni Gruppi del 120º Artiglieria: dopo ripetuti scontri su un terreno infido per la presenza di paludi ed acquitrini, riuscirono a raggiungere la riva destra del Don ma fu un successo di breve durata perché nella notte altre truppe russe traghettarono il fiume e contrattaccarono con violenza obbligando bersaglieri e Tedeschi a ripiegare sulle posizioni di partenza.

Il 13 agosto il XXXV Corpo d’Armata assumeva direttamente la difesa dell’intero settore, ed il 14 la Divisione Celere veniva sostituita dalla 79ª Divisione tedesca per un tratto e dalla Divisione Sforzesca per un altro tratto.

Quella di Serafimovič non fu una battaglia di grandi proporzioni, ma il contributo dato dalla Divisione Celere fu enorme. L’Unità perse circa 1700 uomini fra morti, feriti e dispersi, e 214 ufficiali dei quali 14 caduti in combattimento.

Il generale Messe in data 9 agosto scriveva al comandante della Divisione Celere, generale Marazzani: “… Nessuno più di me ha misurato e misura l’enorme sforzo fatto dalla mia vecchia Celere... Il mio pensiero, commosso ed ammirato, va a tutti i gloriosi Caduti della Celere, che ricostruita nei ranghi del Cielo degli Eroi e guidati dal prode Caretto, marciano in testa alla imbattibile Divisione…”.

Durante i combattimenti di Serafimovič venne rinvenuta nelle tasche di un ufficiale sovietico caduto prigioniero una copia dell’”Ordine del giorno n. 277”, diramato da Stalin il 28 luglio 1942 che, con la disposizione tassativa per i commissari politici ed i comandanti di Unità di bloccare ad ogni costo qualsiasi forma di ripiegamento che non fosse giustificata da un preciso criterio strategico, al di là del valore e della combattività sin lì dimostrate dal combattente russo, doveva in seguito influire notevolmente sul comportamento dei reparti sovietici, spronati da queste severe disposizioni ad una più decisa azione di resistenza.

Qualche mese più tardi, ad un diplomatico americano che si complimentava con lui per i successi che le truppe russe andavano conseguendo, Stalin rispondeva, con una discreta dose di cinismo, che forse per il soldato russo era diventato più pericoloso retrocedere che avanzare.

 

6. La “Prima Battaglia Difensiva del Don”

 

In luglio-agosto 1942 la 6ª Armata di Paulus aveva raggiunto la zona di Stalingrado e, contemporaneamente, la 1ª e la 17ª Armate tedesche erano penetrate nella zona petrolifera del Caucaso. Ma, così come la 6ª Armata non aveva occupato Stalingrado, le altre due Armate non si erano impadronite di Groznij e dei suoi pozzi di petrolio.

Quanto più avanzavano, tanto più i Tedeschi andavano avvertendo una certa penuria di uomini e di mezzi che non permetteva di togliere o di aggiungere qualcosa senza alterare i già precari equilibri esistenti. L’Alto Comando sovietico si era a sua volta convinto dell'inutilità di un comportamento meramente difensivo ed era così passato ad una serie di controffensive. In questo quadro, nella seconda metà di agosto, le Unità italiane si videro così impegnate in una battaglia che verrà poi ricordata come la Prima Battaglia Difensiva del Don.

Lo schieramento dell’8ª Armata italiana, disposto a “pelo d’acqua” secondo le direttive del Comando tedesco, presentava alcuni punti particolarmente delicati:

  1. l’ampia ansa formata dal Don all’altezza dell’abitato di Verchnij Mamon, dominata dalla quota 220, dalla quale era possibile dominare tutti i movimenti che avvenivano nella piccola testa di ponte di Ossetrovka che i Russi avevano conservato al di qua del fiume;
  2. più a valle dello schieramento, un’altra ansa, alquanto più ristretta, detta il “Cappello Frigio” per la sua particolare forma, disposta tra Krasnogorovka e Ogalev, soggetta ad inondazioni per il frequente straripamento delle acque del fiume;
  3. uno spazio di una decina di chilometri, all’estrema destra dell’8ª Armata, ad est di Simovskij sino a Izbušenskij, fra la Divisione Sforzesca e la 79ª Divisione tedesca, che risultava praticamente sguarnito e poteva costituire un’ottima base di partenza per i battaglioni sovietici.

 

Ansa di Verchnij Mamon 

All’alba del 20 agosto, dopo un breve intervento dell’artiglieria, i Russi avevano attaccato le posizioni tenute dal 37º Reggimento Fanteria della Divisione Ravenna. Fulcro dell’operazione risultava la quota 220 che dominava l’ansa stessa e contro la quale i Sovietici si accanivano in modo particolare, riuscendo dopo aspri scontri a fare arretrare qualche posizione centrale. 

Il Comando del II Corpo d’Armata provvedeva allora a spostare nella zona minacciata un Battaglione della riserva divisionale, mentre il  I e II Gruppo Camicie Nere Valle Scrivia si portavano a loro volta nella zona di Filonovo, ove aveva sede il Comando del 37º Reggimento Fanteria. Ristabilita la situazione, seguivano alcuni sporadici attacchi ovunque respinti; poi, verso sera, ritornava la calma. 

Gli attacchi russi riprendevano all’alba del 22 agosto, con un maggior apporto di forze ed un notevole appoggio di artiglierie e mortai, per la conquista della quota 220. Ne derivavano aspri e sanguinosi combattimenti che mettevano a dura prova i reparti del 37° Reggimento Fanteria dislocati sulla quota stessa, senza che il nemico sembrasse risentire delle continue perdite che andava subendo. 

Per evitare che una rigida difesa della quota continuasse a comportare le gravi perdite che gli uomini del 37° Reggimento andavano sopportando, il generale Zanghieri - comandante il II Corpo d’Armata - insieme al generale Nebbia, comandante la Divisione Ravenna, ed al generale Capizzi, comandante la Fanteria divisionale, decideva il ripiegamento su una nuova linea difensiva che da Krasno Orechovo passava per quota 150,2 e quota 218. Il che poteva avvenire con un certo ordine perché, con la conquista di quota 220, il nemico sembrava avere momentaneamente esaurito il proprio obiettivo. 

Un ulteriore e violento attacco si aveva il 24 agosto, rivolto questa volta sul punto di cerniera fra le Divisioni Ravenna e Cosseria di Krasno Orechovo. Dopo un successo iniziale dei Russi, un contrattacco portato dagli uomini del 37º e 38º Fanteria (Dvisione Ravenna), con l’appoggio del III Battaglione dell’89º Reggimento Fanteria della Cosseria, permetteva di ristabilire la situazione, costringendo i Russi a ripassare il fiume. 

Rimaneva il fatto che, con la conquista di quota 220, i Russi erano ora in grado di sorvegliare postazioni e movimenti del settore italiano. Non solo, i Sovietici si trovavano ora nella condizione di poter ammassare al di qua del Don quante forze volevano, senza che se ne potesse nemmeno avvertire la presenza.

 

 

 

“Cappello Frigio” 

La “Prima Battaglia Difensiva del Don” può dirsi iniziata nella tarda sera del 12 agosto, quando un pattuglione russo passava il Don nell’ansa di Ogolev, nel settore del III Battaglione dell’82º Reggimento Fanteria (Divisione Torino) e, nonostante il fuoco di sbarramento delle artiglierie italiane, riusciva a mantenere la posizione.

Sulle Divisioni Torino, ora alle dipendenze tattiche del XXIX Corpo d’Armata tedesco, e Pasubio, posta alla sinistra della Divisione Sforzesca, i Russi avevano esercitato uno sforzo inferiore; tuttavia anche per loro non erano mancate occasioni di dover fronteggiare in combattimento un nemico che cercava tenacemente d’infrangere la barriera delle Unità italiane e tedesche lungo il Don, per riuscire a bloccare la grave minaccia che le Armate tedesche esercitavano su Stalingrado e la zona del Caucaso. 

E proprio per la confusa situazione venutasi a creare sul suo fianco destro, il Comando della Divisione Pasubio aveva dovuto fronteggiare continue puntate nemiche, per far sì che dall’arretramento dei reparti della Divisione Sforzesca i Russi non fossero indotti a tentare manovre d’accerchiamento nei suoi confronti.

 

 

 

Settore Divisione Sforzesca e "Carica di Izbušenskij" 

Il primo attacco in forze si ebbe il 17 agosto sul punto di contatto tra il 53º e il 54º Fanteria della Divisione Sforzesca, con violenti scontri che continuavano anche il 18, investendo prima il villaggio di Satonskij e poi la zona di Rybnij. 

All’alba del 20 agosto, protetti dal fuoco delle proprie artiglierie, i Russi riuscivano a guadare il fiume in forze, investendo lo schieramento della Divisione Sforzesca. Respinti per ben due volte, riuscivano ugualmente ad ampliare la loro testa di ponte, valendosi anche dell’intervento di forze provenienti dalla zona di Bobrovskij-Ust Choperski che avrebbe dovuto essere presidiata dalla 17ª Armata tedesca, e - operando numerose infiltrazioni - arrivavano all’accerchiamento del III Battaglione del 54º Reggimento Fanteria. 

Ne seguivano combattimenti durissimi, nei quali gli uomini della Divisione Sforzesca si battevano con grande valore e tenacia contro un nemico che andava sempre più rinvigorendosi con l’afflusso di forze fresche. Il Comando del XXXV Corpo d’Armata, dopo avere inutilmente chiesto l’intervento dell’aviazione per spezzonare la riva sinistra del fiume e rallentare l’afflusso di rinforzi al nemico, si vedeva costretto a fare ricorso ad ogni uomo disponibile, dalle Camicie Nere della Tagliamento ai plotoni lanciafiamme, dagli scritturali agli uomini della Sanità, sino agli ufficiali e soldati delle retrovie. 

I fanti della Sforzesca sembravano essere ormai giunti allo stremo delle loro forze ed il Comando del XXXV Corpo d’Armata decideva allora di concentrare la difesa su due capisaldi, rispettivamente nel villaggio di Jagodnyj, dove ripiegava il 53º Fanteria riunendosi al Comando divisionale, e in quello di Čebotarevskij, dove si attestavano i resti del 54º Fanteria e dei Battaglioni Camicie Nere LXIII e LXXIX. 

In questa fase le pagine più belle risultarono scritte dalla Cavalleria. Il Reggimento Lancieri di Novara, infatti, ingaggiando furiosi combattimenti col nemico nella valle dello Zuzkan, riusciva prima a ritardarne l’avanzata e poi a bloccarlo definitivamente all’altezza di Bolschoi; mentre Savoia Cavalleria, una volta giunto nella zona di Izbušenskij, rimaneva bloccato da una violenta reazione nemica che lo obbligava a sostare tutta la notte facendo quadrato attorno alle artiglierie ed ai cavalli. 

Nelle prime ore del 24 agosto, una sua pattuglia era improvvisamente sorpresa dal fuoco di mitragliatrici avversarie ormai appostate a poche centinaia di metri dai cavalieri. Il colonnello Bettoni, comandante il Reggimento Savoia Cavalleria, accettava il combattimento e ordinava all’Artiglieria a Cavallo di aprire il fuoco sulle posizioni nemiche, quindi dava l’ordine della carica. Il 2º Squadrone usciva per primo dal quadrato ed i cavalieri si lanciavano impetuosamente sulle posizioni nemiche dove i Russi, sorpresi da questa improvvisa irruzione, risultavano incapaci di organizzarsi. Seguiva il 3º Squadrone, mentre il 4º, appiedato, affrontava i Russi frontalmente, appoggiato dall’Artiglieria a Cavallo che continuava a battere i centri di fuoco nemici. 

Impeccabili nella manovra ed incuranti del fuoco nemico, i cavalieri di Savoia passavano e ripassavano più volte sul campo avversario, con le sciabole sguainate, sino al completo annientamento di ogni resistenza da parte sovietica: questa sarebbe stata ricordata in seguito come la leggendaria carica di Izbušenskij, a gloria dei cavalieri di Savoia Cavalleria e di tutta l’Arma stessa. 

Anche durante la giornata del 26 agosto la situazione continuò a rimanere estremamente critica, in quanto il nemico era arrivato a minacciare pericolosamente sia il caposaldo di Jagodnyj che l’intero settore. L’intervento degli ultimi reparti disponibili riusciva tuttavia a sbloccare la situazione riportando al ripristino dello schieramento iniziale. 

Il peggioramento nei rapporti tra il Comando del XXXV Corpo d’Armata italiano ed i Comandi tedeschi rese infruttuosi i tentativi di riportare la linea difensiva sulla riva destra del Don, fatti nei giorni successivi, quando furono impiegati anche i Battaglioni alpini Valchiese e Vestone della Divisione Tridentina.

 

Conclusioni 

Nel giudicare l’andamento e l’esito della Prima Battaglia Difensiva del Don, debbono essere attentamente valutati alcuni importanti elementi, per evitare di giungere a conclusioni affrettate e non pertinenti. 

Innanzitutto, quando i Sovietici dettero inizio alla loro offensiva, le Divisioni italiane erano giunte da poco sulle loro posizioni e non avevano certo avuto il tempo sufficiente per provvedere ad un adeguato dispositivo di sicurezza, sia per l’estrema ampiezza dei settori loro assegnati, sia per il particolare andamento della riva destra del fiume e della fascia di terreno retrostante, sia per la cronica insufficienza di mezzi e del materiale necessario. 

Un’altra constatazione riguarda le difficoltà intercorrenti nei rapporti tra i Comandi italiani e quelli tedeschi. Furono difficoltà che misero in discussione lo stesso concetto di “alleato” e che potrebbero chiarire certi successivi comportamenti dei Tedeschi, sia collettivi che individuali, soprattutto durante i terribili giorni della ritirata.

Concludendo, se nella Prima Battaglia Difensiva del Don i Russi non conseguirono grossi vantaggi territoriali, ne ottennero però sul piano strategico: la conquista di quota 220 nell’ansa di Verchnij Mamon metteva a loro disposizione una valida base di lancio; così come, sull’estrema destra dello schieramento, avevano costretto le truppe alleate ad abbandonare la riva destra del Don e ad assumere un nuovo allineamento particolarmente vulnerabile. 

In questa Prima Battaglia Difensiva del Don l’8ª Armata aveva subito 2.704 fra morti e dispersi e 4.212 feriti, considerando il periodo tra il 20 agosto e il 1º settembre 1942. 

 

7. L'arrivo del Corpo d'Armata alpino

 

Nell'ultima fase dei combattimenti svoltisi nel settore della Divisione Sforzesca erano intervenuti anche i Battaglioni Val Chiese e Vestone del 6º Reggimento alpino, appartenenti alla Divisione Tridentina. Scelti, addestrati ed equipaggiati per il combattimento in zone di alta montagna, questi alpini si erano così trovati a ricevere il battesimo del fuoco sul Fronte Russo su un terreno che più piatto non si sarebbe potuto immaginare.

Le Unità alpine erano giunte in territorio sovietico tra il 28 luglio ed il 2 settembre 1942, precedute dal Comando di Corpo d'Armata e dalla Divisione Tridentina, a cui avevano fatto seguito la Divisione Cuneense ed, infine, la Divisione Julia. Il loro impiego era previsto inizialmente nell'ambito delle operazioni che le Armate tedesche avrebbero condotto verso la zona montuosa del Caucaso, nell'intento di occuparla e portarsi eventualmente al di là di essa nelle zone petrolifere del Medio Oriente.

Per un più rapido inserimento di queste Unità nell'ambito della 17ª Armata tedesca, alle dipendenze del Gruppo di Armate "A", era stato anche disposto che fossero autotrasportate nella zona d'impiego, ma per la cronica carenza di automezzi, la Divisione Tridentina, giunta per prima, aveva iniziato il trasferimento con mezzi propri fino a quando, il 19 agosto, il movimento era stato sospeso in quanto - almeno questa fu la motivazione ufficiale - il Comando del Gruppo Armate "A" si era convinto che in tal modo queste truppe non avrebbero mai potuto raggiungere la zona di operazioni in tempo utile.

Da qui la decisione di reinserirle nel dispositivo dell'8ª Armata, collocando inizialmente le Divisioni Julia e Cuneense tra Novo Kalitva e Ch. Bugilovka, in sostituzione della 294ª Divisione tedesca, fino a quel momento schierata sulla sinistra del dispositivo difensivo italiano.

La Divisione Tridentina, che già aveva impiegato alcuni Battaglioni nei combattimenti svoltisi il 1º settembre sul fronte della Sforzesca, rimaneva alle dipendenze tattiche del XXXV Corpo d'Armata fino al 30 ottobre, quando rientrava nel Corpo d'Armata alpino, sostituendo a sua volta la 23ª Divisione della 2ª Armata ungherese lungo un tratto di fronte di circa 28 chilometri, che andava da Karabut a Bassovka, sulla sinistra della Divisione Julia.

 

8. Gli ultimi combattimenti di settembre

 

Dopo un breve periodo di relativa tranquillità, l'11 e 12 settembre i Sovietici ripresero ad esercitare una notevole pressione sulle postazioni del III Battaglione del 37º Reggimento Fanteria che proteggeva quota 218, nell'evidente intento di ampliare la loro presenza nell'ansa di Verchnij Mamon.

Favoriti da una spessa coltre di nebbia che ne occultava i movimenti, rendendo anche impreciso il fuoco di sbarramento delle armi automatiche e dell'artiglieria, i soldati russi occupavano il caposaldo di quota 158 presidiato dagli uomini del 90º Reggimento  Fanteria, e circondavano alcune postazioni del 37º Fanteria poste a difesa della quota 218, che risultava così seriamente minacciata; mentre alcuni barconi che tentavano di traghettare altre truppe sovietiche nella zona antistante Svinjuka venivano intercettati ed in parte affondati.

I combattimenti risultarono particolarmente cruenti lungo l'intero settore ed impegnarono duramente i soldati delle Divisioni Cosseria e Ravenna, obbligando il Comando del II Corpo d'Armata a fare ricorso ancora una volta alle riserve divisionali costituite dai Gruppi Camicie Nere Leonessa e Valle Scrivia, dal III Battaglione dell'89º Fanteria e dal CV Battaglione Mortai, per riuscire a circoscrivere prima e respingere poi l'attacco nemico.

L'azione nemica veniva definitivamente stroncata sull'intero settore nella giornata del 12 settembre ed i Russi erano costretti a ripassare il fiume, permettendo così al dispositivo di difesa delle Divisioni Cosseria e Ravenna di riprendere le sue posizioni iniziali. 

 

9. La sosta autunnale

 

Il 14 ottobre 1942 Hitler, in qualità di comandante supremo dell'Esercito tedesco, emanò l'Ordine di operazioni n. 1 con il quale ribadiva che, in vista della stagione invernale, al Fronte Orientale spettava il compito di difendere a qualunque costo le linee raggiunte contro ogni tentativo di sfondamento dell'avversario.

In questo "Ordine di operazioni" veniva assicurato che "... il secondo inverno russo ci troverà già pronti e meglio preparati"; e si assicurava che "i Russi, le cui forze risultano assai scemate negli ultimi combattimenti, non potranno più mettere in linea nel corso dell'inverno 1942-43 gli effettivi che avevano mobilitato nella precedente Campagna invernale. Qualunque cosa avvenga, un inverno più duro e più difficile non potrà passare."

Da queste disposizioni emergevano così alcune considerazioni: innanzitutto Hitler si dimostrava ormai convinto che il conflitto non avrebbe avuto termine entro il 1942 ed ammetteva implicitamente, con la necessità di una sosta, che l'Esercito tedesco aveva in buona parte esaurito la propria forza propulsiva; inoltre commetteva nuovamente l'errore di sottovalutare l'avversario, ritenendolo ormai incapace di realizzare operazioni di grande respiro, il che lo portava a non dare la dovuta importanza ai fattori ambientali e meteorologici dell'inverno imminente e che rivestiranno una importanza ancora una volta determinante nella disastrosa conclusione della "Battaglia del Volga".

Per meglio attenersi a queste disposizioni che prevedevano la difesa ad oltranza sulle posizioni raggiunte senza alcuna possibilità di manovra, il Comando della 8ª Armata italiana chiedeva che il proprio schieramento venisse riconsiderato, al fine di ridurne l'ampiezza e permettere così di poter disporre per ogni settore di una più consistente capacità difensiva.

In sede di accordo sembrò che tale richiesta trovasse una soddisfacente soluzione. In realtà, gli spostamenti delle Unità non corrisposero affatto a queste disposizioni, né sembrarono rispondere ad un chiaro piano strategico, portando anzi ad un tale rimescolamento fra Unità italiane e tedesche che, nel momento critico del dicembre 1942, si avevano:

 

  • il XXIX Corpo d'Armata tedesco formato dalle tre Divisioni italiane Torino, Celere e Sforzesca;
  • la 62ª Divisione tedesca assegnata al Gruppo Hollidt, impegnato lungo la valle del Krisaja;
  • il XXXV Corpo d'Armata italiano formato dalla 298ª Divisione tedesca e dalla Divisione Pasubio.

 

L'imprevista e tenace difesa messa in atto dai Sovietici nella zona di Stalingrado stava così obbligando il Comando germanico ad un sempre maggiore impiego di uomini e mezzi, e questo non poteva avvenire che a scapito della consistenza delle forze schierate lungo il fronte meridionale che andavano sempre più diradandosi e perdendo la loro capacità operativa.

In questo decisivo scontro risulterà poi determinante la tattica messa in atto dallo stesso maresciallo Žukov che, proprio valendosi dell'ostinazione quasi ossessiva di Hitler circa la conquista di Stalingrado, e limitandosi a contenerne l'azione, poneva in atto una costante azione di logoramento dell'Armata tedesca di Paulus.

Mentre i Tedeschi si trovavano costretti ad economizzare le proprie forze, il Comando sovietico andava così accumulando le riserve indispensabili per la futura controffensiva.

 

 

fine

 

 

 

 

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