di Patrizia Marchesini

 

Pio Bruni, classe 1918, fu in Russia con Savoia Cavalleria. Sottotenente del 5º Squadrone Mitraglieri, prese parte alla carica di Isbuscenskij. Rientrato in Italia, dopo l’8 settembre 1943 ebbe incarichi di intelligence, mantenendo i contatti tra il Corpo Volontari della Libertà del generale Raffaele Cadorna e l’OSS statunitense. Catturato dai fascisti fu ceduto al controspionaggio tedesco che, dopo averlo imprigionato a San Vittore per qualche settimana, lo scambiò con alcuni ufficiali nazisti prigionieri. Imprenditore capace, non ha mai trascurato la sua grande passione di sempre, i cavalli.

 

 

 

Un ringraziamento speciale a Pio Bruni per avermi fornito alcune immagini dell'epoca davvero significative.

 

Milano, 26 febbraio 2013

 

Quando – alle 14.00 del 22 giugno 1941 – arrivò via radio la notizia che l’Italia era entrata in guerra contro l’Unione Sovietica al fianco della Germania, Savoia Cavalleria si trovava in Bosnia. 

In Bosnia eravamo giunti fino a Sanski Most quasi senza colpo ferire. Vi fu qualche attacco partigiano, ma soprattutto erano gli Ustascia croati a sparare contro i Serbi.[1] Poiché il reggimento sarebbe dovuto partire per il Fronte Orientale, rientrammo a Lonigo, nei pressi di Vicenza, dove fu effettuata la sostituzione dei cavalli che in Bosnia avevano avuto qualche problema; ricevemmo le mitragliatrici Breda e i fucili mitragliatori Beretta... devo dire che ci fornirono un buon equipaggiamento.

Lonigo (VI), luglio 1941 - Pio Bruni e Veloce, prima della partenza per il Fronte RussoPartimmo in treno...[2] viaggiai con la parte di reggimento che giunse a Botosani, in Romania [l’altra parte di Savoia Cavalleria fu scaricata molto più indietro, a Borsa, all’epoca in territorio ungherese, n.d.r.]. Cominciammo la marcia, piuttosto tranquilla, fatta eccezione per alcune scaramucce fra le nostre pattuglie avanzate e le retroguardie sovietiche.

Ogni giorno percorrevamo 120-130 chilometri... bisognava stare attenti a non affaticare troppo i cavalli così di tanto in tanto si smontava per procedere a piedi. La steppa pareva non finire mai... un po’ di preoccupazione c’era, nell’allontanarci sempre più dall’Italia e dai luoghi da cui sapevamo potevano giungere i rifornimenti. Arrivati al fiume Nipro [Dnepr, n.d.r.], venimmo appiedati; rimanemmo in quella zona circa un mese. Poi fu allestito un ponte provvisorio sul fiume. Il passaggio di tale ponte – per noi che avevamo i cavalli – fu abbastanza... movimentato. I guai seri, come certo saprà, cominciarono con le piogge e il fango. I camion s’impantanavano e i rifornimenti alle truppe in avanzata divennero difficili. Eravamo con la Celere e ricordo i bersaglieri in mezzo alla melma, con le loro biciclette e con le moto. Noi, con i cavalli, riuscivamo tutto sommato ad andare avanti, ma è indubbio che si trattò di un periodo molto faticoso. Un dettaglio sugli approvvigionamenti: sembra strano, ma ci arrivavano molte casse di cognac, non richieste: i Tedeschi in Francia ne avevano trovato cantine enormi e lo facevano arrivare al Fronte Orientale... noi lo usavamo come merce di scambio con i Russi.

 

Lei era sottotenente del 5º Squadrone Mitraglieri: da quanti plotoni era composto, quale armamento avevate a disposizione? 

Il 5º Mitraglieri era composto da quattro plotoni, ognuno dei quali era assegnato a uno dei quattro squadroni del reggimento. Io comandavo il II Plotone, affiancato al 2º Squadrone agli ordini di De Leone. Avevamo le Breda ultimo modello – armi molto efficaci – e i fucili mitragliatori Beretta. Per la mia esperienza personale, il nostro fucile mitragliatore era eccezionalmente buono, se paragonato alle corrispondenti armi russe e tedesche. Era leggero, “tremava” meno. Quello russo, con quella “padella” sotto, era molto impreciso e devo dirle che anche i Tedeschi invidiavano il nostro Beretta. Per quanto riguarda la mitragliatrice Breda, invece, qualche volta si inceppò, nei mesi invernali; bisognava utilizzare certe cautele, oliarla bene...

Le Breda venivano trasportate a cavallo, con basti speciali: ogni mitragliere aveva tre cavalli sottomano, uno per l’arma e due per le relative munizioni. Ogni plotone, comprendente circa quaranta uomini, disponeva di tre mitragliatrici.

 

I primi freddi, le prime nevi. A Korsuni il reggimento si riunì finalmente alla propria colonna di camion, rimasta indietro per un lungo periodo, vuoi per le difficoltà a procedere nel fango, vuoi per la solita penuria di carburante. In quei giorni il colonnello Poccetti, comandante Savoia Cavalleria, lasciò il Fronte Russo. Che ricordi serba di lui? 

Weiss Poccetti non era molto amato e non ho ricordi particolari che lo riguardino. Savoia passò in un primo tempo sotto il comando del colonnello Barbò e, in seguito, del colonnello Bettoni. Anche Barbò non era molto amato: persona stranamente rigida, non esercitava un grande fascino sui soldati. Bettoni, al contrario, era apprezzato da ufficiali e soldati. Gran cavaliere, gran signore... un uomo che aveva davvero un grosso ascendente su tutti quanti appartenevano al reggimento.

Fu bravo, forse anche fortunato, nel gestire la situazione critica di Quota 213,5.[3] Ebbe molto sangue freddo, facendo eseguire la carica come se si trattasse di  un’esercitazione a Pinerolo. Sapeva di poter contare sull’addestramento e sull’affiatamento di tutti noi di Savoia.

Tornando ai primi freddi... è vero, l’inverno si avvicinava. Noi sostenemmo i primi scontri di un certo rilievo a Panteleimonovka, dove ci furono – di conseguenza – i primi caduti.

 

Il suo plotone mitraglieri fu assegnato allo Squadrone Fantasma, reparto di formazione che, per circa un mese, più o meno tra metà novembre e fine dicembre, ebbe il compito di pattugliare il varco tra la Celere e alcuni reparti tedeschi e di mantenere i contatti fra loro. 

Tale squadrone era agli ordini dell’allora maggiore Manusardi. Fu un periodo emozionante. Sparavamo, facevamo molto chiasso spostandoci velocemente, per dare a intendere di essere molti, quando – al contrario – eravamo pochissimi.

Ho un ricordo di quel periodo: mentre procedevamo con i cavalli a mano, vidi cadere un cavaliere davanti a me. Mi chinai sopra di lui, mi accorsi che perdeva abbondantemente sangue. La neve si era arrossata. Mi chiese di avere una sigaretta: non fece in tempo a fumarla.

Verso il 23-24 dicembre 1941 lo Squadrone Fantasma ricevette l’ordine di ripiegare. Nei giorni seguenti si svolse la famosa battaglia conosciuta come Battaglia di Natale. Noi venimmo coinvolti in modo limitato.

L’urto maggiore lo sostennero i bersaglieri del 3º Reggimento e le Camicie Nere... furono meravigliosi, si comportarono magnificamente.


Ci fu un momento, precedente il Natale 1941, in cui sembrava che Savoia dovesse essere rimpatriato. Le illusioni di un rientro in Italia svanirono dopo un discorso secco e conciso del colonnello. Si  disse che il mancato rimpatrio fosse da attribuire alle ambizioni di Barbò stesso, il quale – finché comandante del reggimento al Fronte Orientale – avrebbe potuto sperare in una veloce promozione a generale. Lei condivise questa opinione? 

No. C’era, è vero, chi sperava nel rimpatrio. Ma io escluderei che la permanenza di Savoia al Fronte Russo sia da attribuire alle ambizioni personali di Barbò. La maggioranza di noi era convinta che, dopo la stasi dell’inverno, l’avanzata sarebbe ripresa. E, con la primavera, i compiti della cavalleria sarebbero stati più agevoli. In quelle steppe sconfinate noi avevamo una ragion d’essere. Molti, oggigiorno, potrebbero obiettare: “Ma come? Facevate la guerra ai carri armati con i cavalli?” In realtà – in quel momento particolare e conoscendo bene il territorio – la cavalleria aveva davvero un suo perché. Tanto più che anche i Sovietici avevano molti reparti di cavalleria.

 

Il reggimento svernò ad Avdievka, paesone agricolo. Le giornate assunsero un loro ritmo regolare, i rapporti con la popolazione erano molto buoni. Cosa ricorda di quei giorni? 

Inverno '41-'42 - Gorlovka: i rifornimenti arrivavano su slittaEravamo acquartierati molto bene. Tutti gli ufficiali risiedevano nelle isbe, mentre i cavalieri degli squadroni stavano negli edifici scolastici del paese. Italiani brava gente... c’è molto di vero in questo. I nostri rapporti con la popolazione furono sempre cordiali. Certo, avemmo scontri con i partigiani. E ricevemmo qualche bomba dall’alto, in seguito a segnalazioni di spionaggio. Ma, a parte questo, fu un periodo sereno. Per darle un’idea, durante l’inverno le nostre pattuglie uscivano e, non resistendo al freddo, capitava che entrassero in un’isba. Come prima cosa i Russi offrivano il tè ai nostri soldati. Un giorno una pattuglia – spintasi in esplorazione ad alcuni chilometri di distanza – entrò in un’isba in cui si trovavano soldati russi. Truppe regolari, probabilmente di retroguardia. Non successe niente. Niente di bellico, intendo. L’isba venne condivisa in modo amichevole, e poi ognuno per la propria strada. L’episodio, venuto a conoscenza del Comando, suscitò parecchie polemiche. “Ma come?”, – si diceva – “Non avete aperto il fuoco?” Qualcuno trovò disdicevole quel momento spontaneo di fratellanza. Tali polemiche – voglio precisarlo – non vennero certo da Bettoni.

Nessuna difficoltà particolare neppure per il governo dei cavalli. Li muovevamo tutti i giorni, abbeverata regolare... in quel periodo mangiarono forse meno biada e più foraggio; i rifornimenti non furono sempre regolari, ma spesso trovammo sul posto quanto ci occorreva.

 

Con il ritorno della bella stagione, riusciste a organizzare persino una partita di calcio e alcuni concorsi ippici, uno dei quali – verso la metà di giugno – costituì evento mondano di un certo risalto poiché erano arrivate in Russia Edda Ciano e la moglie del colonnello Bettoni. Ho letto che in una gara riservata ai giovani ufficiali subalterni lei arrivò terzo, su Urbano. 

Sì. In quell’occasione vinse Massimo Gotta, su Palù. Voglio raccontarle un episodio. L’ultima volta che andai a trovare Gotta – stava ormai molto male – mi disse: “Sai, Pio... tra pochissimo sarò con Palù.”[4] Il mio amico, infatti, morì alcuni giorni dopo.[5]

Tornando a quel famoso concorso, in quella circostanza montai il cavallo del mio attendente. Il mio si chiamava Veloce, ma Urbano saltava molto bene, meglio di Veloce e quindi... [sorride, n.d.r.] Montai di nuovo Urbano durante la carica, quando Veloce fu a sua volta colpito.

 

Nell’estate 1942, mentre l’Arm.I.R. procedeva attraverso la steppa, solo la Divisione Sforzesca – tra quelle in marcia per raggiungere il fronte – era già arrivata in zona. Savoia riprese a muoversi il 13 luglio da Korsuni. Lunghe tappe, come un anno prima. 

Le racconto un fatto di quel periodo. Gli Italiani dovevano difendere un tratto in riva al Don, mentre i Tedeschi puntavano su Stalingrado. Un giorno la 6ª Armata di Von Paulus sfilò vicino a noi. Alcuni ufficiali germanici conoscevano il colonnello Bettoni, che colse l’occasione per invitarli alla nostra mensa. Malgrado la situazione (eravamo al fronte), devo ammettere che certe consuetudini del reggimento si erano mantenute: il famoso Bianchi[6] serviva in guanti... bianchi. Bettoni – poiché parlavo la lingua tedesca – mi esortò a sedere accanto a uno di quegli ufficiali. Così feci e, avendo appena visto passare la loro colonna di carri armati, tutti in ordine, perfetti, me ne uscii con qualche commento positivo. L’ufficiale, con la massima freddezza, replicò: “Sì, tutto molto bello... ma da Stalingrado non torniamo indietro.” Mi spiegò che non c’erano molte possibilità di sfondare a Stalingrado. I Russi avevano i loro punti di forza e per l’Armata tedesca ripiegare da quelle posizioni sarebbe stato molto difficile. Io ero incredulo. A noi – nonostante le difficoltà – sembrava che l’avanzata tedesca fosse irresistibile.

 

Intorno al tavolo, da sinistra: il colonnello Bettoni, il generale Von Kleist, il sottotenente Pio Bruni, il sottotenente Ragazzi, in seguito caduto a Isbuscenskij; di fronte a loro, di spalle, il generale Paulus, comandante la 6ª Armata

 

Un accenno alla Prima Battaglia Difensiva del Don. 

La Divisione Sforzesca, appena giunta dall’Italia, fu mandata subito in prima linea. I Russi, magari grazie anche a informazioni, attaccarono proprio nel settore della Sforzesca. La Divisione non oppose una grande resistenza, e si ritirò... Parlo di “ritirata”, ma potrei dire “fuga”, anche se indubbiamente vi furono singoli episodi di valore. Le racconto questo: i Russi avevano varcato il fiume e sfondato. Noi ci stavamo dirigendo, appiedati, verso la riva del Don, mentre i Sovietici – con la solita tattica – erano retrocessi, in attesa. Giunti in prossimità del fiume, trovai un ufficiale della Sforzesca, morto e solo, ancora attaccato alla mitragliatrice. Era rimasto fermo al suo posto, dopo avere sparato l’ultimo colpo.

 

La carica. Tanto se n’è scritto e se n’è parlato, spesso in modo molto retorico, a volte aggiungendo dettagli inesatti. Il suo plotone mitraglieri fu tra i primi a caricare al seguito del 2º Squadrone di De Leone. Mi racconti quello che vuole. 

Estate 1942: girasoli nei pressi di IsbuscenskijArrivò il comando “A cavallo!”. Lo squadrone si indirizzò verso un lato dello schieramento avversario. Passo, trotto, galoppo, caricat... come fossimo in piazza d’armi. Più ci avvicinavamo, meno i Sovietici sparavano. Alzavano le mani. D’altro canto, uno squadrone – circa centocinquanta cavalli – che ti piomba addosso all’improvviso costituisce una massa d’urto notevole e presumo abbia un effetto sconvolgente. Il 2º Squadrone ebbe parecchie perdite. De Leone cadde da cavallo, Manusardi prese il comando; così, dopo la prima carica riuscimmo a fare una contro-carica. Contemporaneamente il 4º Squadrone di Abba aveva ricevuto l’ordine da Bettoni di avanzare appiedato... Intervenne anche il 3º Squadrone e... quasi non credevamo ai nostri occhi: la carica era stata un successo! Prendemmo molti prigionieri.[7] Quanti erano! Le mostro una foto con alcuni degli ufficiali che presero parte alla carica, scattata subito dopo la carica stessa. [Si osserva l’immagine incorniciata, n.d.r.]

 

Quale funzione concreta ebbe la carica di Isbuscenskij? 

Al di là del momento contingente, la carica ebbe un effetto di alleggerimento della pressione sovietica, e anche di tamponamento. Fu quasi del tutto ristabilita la linea del fronte in quel settore.

 

I cavalli deceduti – o comunque fuori combattimento – a causa della carica furono un centinaio. C’è una cosa che non le ho chiesto: durante la Campagna di Russia, e quindi anche in questa circostanza, come vennero sostituiti i cavalli venuti a mancare? E prima ancora, in Italia, con quali modalità venivano procurati i quadrupedi necessari al reggimento? 

In Italia c’erano dei centri di rifornimento quadrupedi... a Grosseto, Cremona, S. Maria Capua a Vetere, Oristano. Questi centri fornivano i cavalli all’esercito. Ogni anno venivano distribuiti ai vari reggimenti... erano animali di tre-quattro anni.

In Russia ci mandarono un certo numero di cavalli in un’unica occasione, subito dopo il passaggio del fiume Nipro. Poi non ci fu altra scelta se non requisire i cavalli russi. Il nostro carriaggio, per esempio, era trainato da tali quadrupedi. Alcuni di essi furono utilizzati anche dai cavalieri degli squadroni. Due o tre cavalli russi erano persino nel mio plotone. Ricordo che uno l’avevamo chiamato Donetz.

 

Quando fu rimpatriato? 

Rientrai in Italia a fine ottobre ‘42. A Somma Lombardo, in provincia di Varese, dove il reggimento svolgeva attività di addestramento, ebbi un incidente, una brutta caduta da cavallo che mi costrinse a settanta giorni di ospedale. Una volta dimesso, tornai a Somma Lombardo. Poi arrivò l’8 settembre [1943, n.d.r.]. Per non cadere nelle mani dei Tedeschi, io e altri del reggimento vagammo un po’ sulle montagne dietro Varese. Giunti ad Arcisate,  il comandante – colonnello Pietro De Vito Piscicelli[8]  – chiamò  a rapporto gli ufficiali. Le possibilità erano di sciogliere il raggruppamento, ma si sarebbero lasciati al loro destino i cavalieri, di cui molti meridionali. Piscicelli decise di valicare il confine ed entrare in Svizzera con tutto il reparto. Fu una decisione molto dolorosa, ma l’unica possibile. Gli Svizzeri ci accolsero con signorilità e – mentre i cavalieri gettavano le armi – fu consentito agli ufficiali di tenere la pistola   (che chiaramente consegnarono nei giorni seguenti).

Con una tradotta raggiungemmo alcuni campi nei pressi di Berna, con i nostri cavalli al seguito. Venimmo trattati molto bene. Non si potevano definire campi di concentramento: noi ne avevamo il comando insieme a un sottufficiale svizzero, che esercitava una funzione di controllo. In quelle circostanze difficili si vide quanto peso avessero il retaggio e l’educazione che tutti noi di Savoia avevamo ricevuto. Altri reggimenti si trovarono allo sbando e misero i soldati in libertà, con il rischio forte che poi cadessero in mano tedesca e venissero deportati; noi mostrammo questo senso di responsabilità. Nessun cavaliere lasciò il proprio posto. In alcune località vicine c’erano anche alpini italiani, ma il nostro fu l’unico reparto a passare il confine compatto.

In seguito mi chiamarono al Consolato italiano a Ginevra, per avvertirmi che il generale Cadorna sarebbe arrivato al nord con l’intenzione di organizzare qualcosa e aveva fatto espressamente il mio nome. Conoscevo bene Cadorna: era stato comandante di Savoia, a Milano, prima di Weiss Poccetti.[9]

 

Cadorna le chiese di far parte del Corpo Volontari della Libertà, in cui esplicò soprattutto compiti di intelligence, giusto? 

Sì. Insieme a un altro ufficiale ero rientrato in Italia, passando il confine sul Monte Rosa e scendendo poi in Val Sesia. Raggiunsi Milano per incontrare Cadorna. Era stato il mio comandante, così mi diede incarichi di collegamento, sia tra le varie formazioni partigiane, sia con la Svizzera e l’OSS, il controspionaggio americano. Passai diverse volte in Svizzera, per questo motivo, seguendo itinerari sfruttati dalla Resistenza. In alcuni casi aiutato – a pagamento – dai contrabbandieri comaschi. Portai in Italia altri ufficiali e sottufficiali di Savoia che avevano deciso di unirsi al Corpo Volontari della Libertà. Cadorna non desiderava che tutto rimanesse nelle mani delle formazioni Garibaldi.

Finché un giorno mi arrestarono... per la delazione di un ufficiale che era stato arrestato e rilasciato quasi subito. Cadorna mi aveva ordinato di accompagnare questo ufficiale in Svizzera. Devo dire che io ero un po’ restio. Qualche dubbio l’avevo: era stato liberato troppo in fretta. Purtroppo gli eventi successivi mi diedero ragione perché – dopo avere preso accordi con lui sul nostro viaggio imminente – sulle scale del mio nascondiglio arrivarono due o tre repubblichini che mi aggredirono e mi picchiarono.

Fui portato a S. Vittore, dove vidi altri ufficiali della nostra rete... così capii che quel tizio ci aveva traditi. Eravamo a marzo del 1945. I primi giorni furono abbastanza duri. La mia fortuna, però, fu di essere ceduto al controspionaggio dell’esercito tedesco – non alle SS – e, dopo i primi interrogatori, i miei carcerieri si rivelarono davvero corretti. Ricordo un maggiore... accese la radio e ascoltò: notizie sconfortanti, per tutti loro. Come le ho detto, io sapevo il tedesco e quindi compresi il senso della trasmissione. “Vede?”, mi disse il maggiore “Continuo a farle domande a cui lei, è evidente, non vuole rispondere. Sembra assurdo che io seguiti a insistere, in un momento come questo. Però io sto facendo il mio dovere... come lei sta facendo il suo.” Intuii dall’atteggiamento di quel maggiore che le cose per me si stavano mettendo bene; infatti dopo una ventina di giorni mi scambiarono con alcuni prigionieri tedeschi, mi liberarono e mi ripresentai da Cadorna.

 

La fine della guerra. Lei riuscì a organizzare l’incontro fra Mussolini – che sembrava disposto a trattare la resa – e l’arcivescovo di Milano, Ildefonso Schuster. Pio Bruni fu all’inizio la sola persona presente all’incontro. Che impressione le fece, Mussolini, in quel momento? E Schuster cosa gli propose, in concreto? 

All’inizio fui avvicinato da Gianriccardo Cella, che era amministratore delegato dell’Isotta Fraschini, la nota ditta automobilistica all’epoca produttrice dei motori per Savoia-Marchetti.[10] Mi riferì di essere in contatto con il notaio di Mussolini, in quanto Cella stesso desiderava acquistare il palazzo in cui aveva avuto sede Il popolo d’Italia.[11]

Cella, grazie a tali approcci, era venuto a sapere che il Duce sembrava intenzionato a trattare la resa. Raccontai ogni cosa a Cadorna e si cercò, quindi, di organizzare un incontro. Il pomeriggio del 25 aprile 1943 – insieme a Cella e a bordo di una vecchia Isotta Fraschini – accompagnai Mussolini[12] all’arcivescovado... ed è vero: per un poco fui l’unico presente all’incontro, in attesa dell’arrivo di altri personaggi. Mussolini era uno straccio, accasciato sullo stesso divano rosso su cui sedeva anche Schuster. Io rimasi in piedi. L’arcivescovo aveva una voce caratteristica, molto suadente. Gli parlò di San Benedetto, di Napoleone. Mussolini replicò di essere preoccupato per le sorti di quanti l’avevano seguito fino a quel momento. Schuster non gli diede rassicurazioni particolari, ma tentò di convincerlo ad avere fiducia. Giunsero le altre persone che avrebbero dovuto presenziare all’incontro...

Cadorna, Lombardi,[13] Marazza.[14] Arrivò anche Graziani,[15] il quale dichiarò che non si potevano prendere decisioni importanti senza avvisare i Tedeschi. I toni della conversazione erano tutto sommato distesi e improntati al rispetto reciproco. Subito dopo giunse la notizia che i nazisti avevano firmato la resa. Mussolini, con uno scatto impensabile per un uomo che sembrava finito, si alzò: “Ci hanno tradito un’altra volta.” Non ho mai compreso a cosa si riferisse di preciso. In ogni caso l’incontro venne interrotto... Mussolini e altri del suo seguito se ne andarono e in quel momento entrò Pertini. Era chiaramente contrario a ogni trattativa con il Duce e assalì – è il termine giusto – l’arcivescovo Schuster: “Qui ci vuole un bagno di sangue, bisogna che queste persone la paghino.”

Non ho nessuna certezza, ma credo che – udite queste parole – uno del seguito di Mussolini sia uscito subito per raggiungere il Duce e avvisarlo. Mandarono anche me, raggiunsi la Prefettura – dove sarebbe dovuto essere Mussolini – per fermarlo... ma era già partito. Le cose, poi, andarono come sappiamo. Ci fu l’episodio spiacevolissimo di Piazzale Loreto, con lo scempio dei cadaveri di Mussolini, della Petacci e di altri gerarchi. Cadorna mandò sul luogo alcuni carabinieri e un gruppetto di ufficiali, fra cui il sottoscritto. Fu uno spettacolo che non avrei voluto vedere. La ferocia della folla. Una grossa delusione.

 

Perché? 

Per come era stata gestita tutta la tragedia. Nei giorni seguenti dovemmo darci da fare affinché non capitassero fatti sgradevoli. Per esempio c’era uno dei nostri, un certo Marazin, che voleva fucilare tutti quelli che aveva trovato per strada. Tutti quelli – voglio dire – che lui sospettava avessero avuto rapporti con i fascisti e la R.S.I.; Cadorna mi mandò a verificare la situazione: Marazin, in un primo tempo, voleva mettere al muro anche me, perché mi opponevo a questo tipo di giustizia sommaria. Poi lo convinsi. Furono giorni difficili e – nonostante il nostro tentativo di evitarli – vi furono purtroppo episodi brutti, di vendette personali.

In seguito, nominato ufficiale effettivo per meriti di guerra, non me la sentii di percorrere la carriera militare... né mi sentivo preparato per quella politica. Così mi diedi da fare in ambito imprenditoriale.

 

Pio Bruni e i cavalli. 

Una grande passione, andai in cavalleria anche per questo motivo. Alla Scuola di Pinerolo – nonostante la vita fosse dura e le regole severe – mi divertii moltissimo. Dopo la guerra i cavalli e io abbiamo proseguito un certo cammino insieme: ho avuto una scuderia piuttosto importante... Mi piacevano le cacce a cavallo e le corse a ostacoli... Sono stato presidente della Società di Steeple-chases in Italia.[16]  Mi occupo tuttora di questo genere di cose, anche se non ho più cavalli miei. I quali hanno vinto tutte le gare più importanti, eccetto il Derby, in cui siamo arrivati una volta secondi e una volta terzi.

 

Dopo il referendum del 2 giugno 1946 (che sancì l’inizio della Repubblica come forma di Governo per l’Italia), il colonnello Bettoni trafugò lo stendardo del reggimento per consegnarlo nelle mani di Umberto II di Savoia. 

Sì, è vero. Bettoni, insieme a un gruppo di ufficiali (fra cui il sottoscritto),  affidò lo stendardo al re. Umberto II era in procinto di salire sull’aereo che l’avrebbe portato in esilio, in Portogallo.

Bettoni, in seguito a tale episodio, lasciò il servizio. Da quel momento, in occasione dei concorsi equestri a cui continuò a partecipare, non indossò più la divisa. Morì nel 1951, in seguito a un malore, proprio durante un concorso a Piazza di Siena.

Dopo la scomparsa di Umberto II – agli inizi del 1984 – lo stendardo di Savoia Cavalleria rientrò in Italia, per essere custodito presso il Sacrario dell’Altare della Patria,[17] a Roma. Quel giorno, oltre al Duca d’Aosta e ad alcuni funzionari, erano presenti pochi vecchi ufficiali del reggimento, inclusi  Massimo Gotta e io. Per me fu un momento significativo, ma devo dire che mi è rimasta una certa amarezza, in quanto si trattò di una cerimonia... quasi nascosta.

Non andava bene, in quegli anni, dare risalto a un evento del genere. Uno stendardo militare legato alla famiglia Savoia…

 

 

 

 

[1] Il movimento croato ustascia, di ispirazione nazionalista, già dagli Venti stabilì i primi rapporti con il regime di Mussolini. In seguito si avvicinò a Hitler, ritenuto con ogni probabilità più forte e affidabile. Quando la Germania invase la Jugoslavia, nel 1941, la monarchia jugoslava capitolò e i nazisti crearono lo Stato Indipendente di Croazia, retto dagli Ustascia. Gli scontri fra questi ultimi, i Serbi filo-monarchici e i partigiani comunisti di Tito furono molto accesi. Gli Ustascia erano supportati sia dagli Italiani sia dai Tedeschi e, come reazione alla politica repressiva delle autorità serbo-jugoslave precedente la guerra, allestirono alcuni campi di concentramento nei quali vennero internati Serbi, ebrei e oppositori al nuovo regime. Non si conosce con esattezza il numero dei decessi in questi campi. Le cifre (da 500.000 a 700.000 vittime, a seconda della fonte) furono oggetto di forti speculazioni politiche. Al termine del secondo conflitto mondiale, gli Ustascia, insieme a numerosi civili croati, si ritirarono verso l’Austria, per poi arrendersi alle forze titine verso la metà del maggio 1945.

Coloro che, in Austria, avevano tentato di consegnarsi alle autorità inglesi, furono rispediti indietro, verso le posizioni dei partigiani di Tito. Migliaia di Croati furono uccisi a Bleiburg, una cittadina austriaca; chi non trovò la morte in quell’occasione, fu costretto a camminare per molti chilometri attraverso la Jugoslavia. Lungo il cammino, ufficiali serbi organizzarono esecuzioni di massa, le cui tracce furono scoperte soltanto negli anni ’90, dopo l’indipendenza di Slovenia e Croazia. Sembra che, negli anni successivi, agenti segreti jugoslavi siano riusciti a rintracciare e a eliminare quegli ex-Ustascia che erano riusciti a rifugiarsi in paesi occidentali. Vennero scovati e uccisi anche nuovi simpatizzanti del movimento, alcuni dei quali in Italia. [A tale proposito si veda qui.]

[2] La prima tradotta di Savoia Cavalleria partì da Tavernelle (provincia di Vicenza) il 21 luglio 1941.

[3] È la quota relativa alla carica di Isbuscenskij.

[4] Palù perse la vita durante la carica di Isbuscenskij. Fu lo stesso Pio Bruni a segnalare a Massimo Gotta che il suo cavallo era stato colpito più volte e sarebbe crollato di lì a poco, rischiando di travolgere anche il suo cavaliere. Gotta smontò e Palù, eccitato dal fragore e dalle ferite, riprese a correre, scomparendo nel polverone.

[5] Massimo Gotta è scomparso il 23.02.2011.

[6] Il caporalmaggiore Bianchi gestiva il circolo ufficiali a Milano e aveva deciso di seguire il reggimento in Russia.

[7] Il giorno della carica 650 cavalieri di Savoia affrontarono circa 2.000 Sovietici. Le perdite, per il reggimento, ammontarono a 32 morti, 52 feriti e oltre 100 cavalli fuori combattimento. Per i Russi, invece, le perdite furono di 150 morti, 300 feriti e 500 prigionieri. Lasciarono sul campo, inoltre, 4 cannoni, 10 mortai, 50 mitragliatrici e centinaia di fucili. Per ogni dettaglio, si veda:

- G. Vitali, Sciabole nella steppa, Mursia Editore, Milano, 1976

- G. Vitali, Trotto, galoppo, caricat, Mursia Editore, Milano, 1985

- L. Lami, Isbuscenskij– L’ultima carica, Mursia Editore, 1970

[8] Il colonnello Pietro Piscicelli era a sua volta stato in Russia (con il grado di maggiore) come aiutante maggiore del Reggimento Savoia Cavalleria.

[9] Raffaele Cadorna (1889-1973), fu comandante di Savoia Cavalleria dal 1937 al 1941, e in seguito della Scuola di Applicazione di Cavalleria a Pinerolo, fino a quando venne sostituito da Barbò. Nel luglio 1944 assunse il comando del Corpo Volontari della Libertà. Al termine del secondo conflitto mondiale, fu nominato Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito e mantenne tale incarico anche quando l’Italia diventò una repubblica. Si dimise nel 1947 per divergenze con il Ministero della Guerra.

[10] Savoia-Marchetti era una delle principali ditte aeronautiche italiane.

[11] Quotidiano fondato nel 1914 da Mussolini, dal 1922 divenne l’organo informativo ufficiale del Partito Nazionale Fascista. Dopo il 26 luglio 1943 (giorno dell’arresto del Duce), non venne più pubblicato per volere espresso da Mussolini.

[12] Da pochi giorni Mussolini aveva lasciato il Lago di Garda – dove aveva risieduto nei giorni della R.S.I. – e si era spostato a Milano.

[13] Francis Lombardi (1897-1983) – aviatore, designer aeronautico e automobilistico, e imprenditore – era all’epoca membro del C.L.N. vercellese.

[14] Achille Marazza (1894-1967), membro del C.L.N. Alta Italia. Partecipò alla Costituente e alla vita politica italiana del dopoguerra. Più volte sottosegretario, divenne ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nel 1950.

[15] Rodolfo Graziani (1882-1955), personaggio di spicco del regime, all’epoca era ministro della Difesa della Repubblica Sociale Italiana.

[16] Nello steeple-chase  – che si svolge generalmente in ippodromo – i cavalli gareggiano al galoppo e affrontano ostacoli di vario tipo. Le tre competizioni più importanti si svolgono in Inghilterra, Stati Uniti e Repubblica Ceca. In Italia – a settembre – si corre il Gran Premio di Merano, la corsa più rinomata per le gare di questo genere.

[17] Così viene anche chiamato il celebre Vittoriano, il monumento di Piazza Venezia dedicato a Vittorio Emanuele II. Al suo interno si trova il Sacrario delle Bandiere che raccoglie quasi 700 bandiere.

 

 


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