È trascorsa una settimana, da quando
Carlo se n'è andato
.
E ora – con le emozioni e il dispiacere che a poco a poco sedimentano – riesco a scrivere qualcosa.
Carlo, con le sue sopracciglia buffe e un po’ arruffate.
Con il bastone e l’incedere comunque sicuro... sebbene più cauto negli ultimi anni.
Con la stretta di mano che trasmetteva energia e forza d’animo.
I miei primi contatti con lui risalgono al 2000.
Avevo appena intrapreso ricerche sistematiche sul mio nonno materno ed ero arrivata all’U.N.I.R.R.; dopo qualche telefonata con il dottor Melchiorre Piazza, dal dottor Carlo Vicentini mi giunse una lettera bellissima.
Di quelle che non girano intorno all’argomento. Nessuna retorica, nessuna espressione sdolcinata a mitigare il dramma dei nostri soldati, prima in ripiegamento e poi in prigionia.
Lo apprezzai molto.
Avevo bisogno di
sapere, ma di sapere con le parole giuste, e lui le trovò.
Era schietto.
E premuroso: in quel periodo stavo cercando – senza successo – un libro scritto da un reduce del Reggimento Artiglieria a Cavallo… me ne fece una fotocopia.
Scherzoso e arguto, era allo stesso tempo severo e intransigente con chi – in Russia – non aveva fatto il proprio dovere di ufficiale. Dovere che, se si parla di ripiegamento, significava stare vicino ai soldati per sostenerli e guidarli.
Non tollerava i luoghi comuni né che si scrivessero sciocchezze, tipo quella sulla temperatura. Certo, era freddissimo, e la percezione del freddo era amplificata dal trascorrere – in quell’inverno 1942-1943 – molte ore all’aperto, magari sferzati dal vento, senza la possibilità di riposare e di alimentarsi in modo adeguato.
“Ma non è che tutti i giorni - e per tutto il giorno - vi fossero trenta o quaranta gradi sotto zero”, ripeteva “Altrimenti dalla ritirata non sarebbe tornato nessuno.”
Era ironico. E autoironico.
Questo, credo, aveva contribuito a tenerlo in vita durante la prigionia. Una parte di lui, nonostante il dramma e nonostante le sofferenze, continuò a osservare il mondo e se stesso con uno sguardo altro.
Fatto non di commiserazione, ma di consapevolezza... a volte graffiante.
Dedicò tanto alla memoria della Campagna di Russia.
Scrivendone, parlandone. Non esitò un momento, quando gli chiesi di incontrare gli studenti dell’istituto superiore di mia figlia: giunse in treno, con l’immancabile bastone e i suoi novantaquattro anni compiuti.
Amava la buona cucina e il buon vino.
Amava il lavoro nel giardino di casa sua.
Aveva la semplicità che contraddistingue le persone davvero grandi.
Quando parlavamo al telefono, sorvolava sui malanni tipici dell’avanzare dell’età.
Era orgoglioso, e se l’udito a volte faceva cilecca, non lo ammetteva – chiedendo di ripetere ciò che avevo appena detto – ma cercava di aggirare l’ostacolo, e i risultati potevano essere ragione di più di un sorriso.
Ora... è difficile credere che non sia più qui, sebbene lo scorso dicembre avesse festeggiato il novantanovesimo compleanno e in considerazione che nessuno è – fisicamente parlando – eterno.
Ancora sento il suo
Benone!, con cui era solito commentare certe mie frasi.
Era un po’ la sua filosofia, vedere in positivo.
Dopo la Russia – nonostante le avversità, e i mille problemi che l’esistere ci costringe ad affrontare – non vi era nulla che non si potesse vivere...
Contento di essere vivo, [il reduce] considera regalato ogni giorno che passa, se pensa alle molte migliaia di suoi compagni che […] chiusero malamente la loro giovinezza in una terra e per una causa che non era la loro.
(Da
Noi soli vivi, Carlo Vicentini, Ugo Mursia Editore)
Carlo Vicentini
Btg. Alpini Sciatori Monte Cervino
Comandante Plotone Comando
12.12.1917 - 17.02.2017