Da Porta la vacca al toro, Vittore Querèl, Trevi Editore Roma, 1973

 

Quella che sarebbe passata alle cronache della guerra sul Fronte Russo con il nome di battaglia di Petrikovka era stata studiata dal Comando del C.S.I.R. in maniera autonoma pur nel quadro della guerra totale. Sarebbe spettato agli Italiani il compito di rendere sicura una zona essenziale per il proseguimento della guerra in direzione est-sud. Verso il Don e verso il Caucaso, tra l’altro.

A distanza di anni, nel tumulto delle memorie, pur davanti alle imponenti battaglie che hanno coinvolto e coinvolgono il mondo, i nomi dei minuscoli paesi, persino dei kolkoz e delle fattorie in cui fu combattuta quella prima azione della Torino, rimangono nella mente dei superstiti incisi con la loro difficile grafia [...].

La manovra puntava sulla creazione di linee parallele alla sponda del Nipro, in modo di irretire il nemico in rettangoli consecutivi che impedissero eventuali tentativi di sganciamento e di fuga.

L’azione di Petrikovka – se proprio non fu la battaglia di cui parlavano pomposamente i Comandi – ha avuto una funzione e un suo peso determinante nelle operazioni del fronte meridionale russo. [...]

Fu una battaglia compiuta superando rischi e pericoli. Soprattutto per la grande profusione di mine seminate in tutta la zona. Perdemmo più uomini per quelle bestiali trappole (e non tutte erano russe. Molte erano state messe anche dai volontari baltici e dalla Wehrmacht a protezione delle trincee) che per i mortai, le mitragliatrici e l’artiglieria. [...]

 

Erano le otto del ventinove settembre quando la decima compagnia del terzo battaglione dell’ottantadue [82º Reggimento Fanteria, n.d.r.] superò le trincee della Wiking. I Russi aprirono subito il fuoco. I plotoni si stesero a terra, dovevano aspettare che alcuni pionieri tedeschi e dei genieri italiani balzassero avanti per aprire dei varchi nei campi minati germanici. Passò un’ora, venne fuori un sole stracco, i Russi sparavano basso, i soldati stavano ancora stesi con la fronte a terra.

Ma ad un certo momento il tenente Sassi avvertì un movimento da parte di alcuni fanti. Saltavano da terra, si buttavano in un vicino campo di grano. I Russi sparavano allora più fitto.

“Perché si muovono, quei cretini?”, urlò stizzito Sassi. “Mica faranno la guerra per conto loro? O gli è venuta la diarrea a tutti?”

Il caporale Gasparotto, che stava steso vicino all’ufficiale, si spostò strisciando sul terreno. Passò la voce al sergente Caputo e Caputo la passò al tenente Clementi.

“Che ne so, io?”, disse Clementi “Vorranno sgranchirsi le gambe. Approfittando del sole.” Poi chiese anche lui cosa fosse quel movimento.

“Attento, tenente,” gli urlò dopo un po’ Ornelio Proietti, il caposquadra dei mitraglieri “arriva la spiegazione.”

E gli buttò qualcosa. Erano dei bellissimi pomidori. Crescevano nel campo. I soldati, a rischio della pelle, si cavavano lo sfizio dei pomidori. Anche Sassi, che in vita sua non aveva mai voluto mangiare pomidori crudi, si lasciò tentare. E sotto il tiro dei Russi li trovò squisiti.

La zona minata era cinquanta metri più avanti. Ad un certo momento ci fu un grosso scoppio e si alzò una nuvola di fumo. Sassi alzò la testa, sentì un urlo, si alzò in piedi per vedere che accadesse. Dalla nuvola nera uscì come una macabra apparizione. Un giovanissimo pioniere tedesco veniva avanti con il volto abbruciacchiato, gli occhi che non vedevano più ed erano due informi macchie nere sotto il biondo dei capelli sporchi, le braccia alzate con le estremità tagliate nette, le mani non c’erano più, grumi di sangue sgorgavano dai moncherini.

“Strada aperta.”, disse il giovanissimo pioniere. “Bitte, eine sigarette.”

 

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