Da Storie di alpini e di muli – Dalle Alpi al Don,

Giuseppe Bruno, Edizioni L’Arciere, Cuneo, 1994

 

Storie di alpini e di muli copertinaAi primi di gennaio, quando scesi a Rossoš’ mi sentii dire da un ufficiale del Cervino: «Se non tirano giù subito i tuoi cuneesi dalle attuali posizioni, quelli tu non li vedrai più.»

A pochissimi giorni dall’inizio della ritirata una dozzina di carri armati russi del tipo T34 erano entrati improvvisamente in Rossoš’ e presero a scorrazzare per le vie con l’evidente obiettivo di centrare gli edifici del nostro Comando di Corpo d’Armata. Fu un rodeo impressionante nel quale i carri russi ebbero comunque la peggio.

Assurdo il pensare che il Comando del Corpo d’Armata alpino, qualora fosse stato chiaramente a conoscenza della gravità dell’aggiramento iniziatosi a Bogučar e di ciò che stava dietro alla puntata dei T34, non avrebbe saputo prevedere l’ormai prossimo accerchiamento (questione di ore) di tutto il proprio settore operativo e delle relative retrovie, e considerare la necessità di un rapido arretramento di tutti i reparti [...]. Assurdo il pensare ciò.

Sarebbe come voler ingiustamente dare la patente di incapaci a ufficiali del valore di Martinat, di Odasso, di Binda, di Marchese, di Tessitore (lascio volutamente da parte il nome di Nasci perché il comandante, già ai primi di gennaio, denunciava un forte scadimento fisico).

La verità fu che l’alleato tedesco non mise esattamente al corrente i nostri Comandi sulla reale situazione che si era instaurata.

Io ebbi non il merito, ma la fortuna di organizzare in tempo il ripiegamento della 121ª [Infermeria Quadrupedi, n.d.r.] e di non perdere praticamente uomini, anche perché diedi ascolto a una donna e a un ufficiale.

La donna era Nastinka, l’informatrice dei partigiani russi. La sera del 6 gennaio si presentò al nostro corpo di guardia e chiese di parlarmi. La ricevetti, mi aveva portato un barattolo di miele, ma fu ben altro il segno tangibile di riconoscenza per avere curato lei e il figlioletto. Nastinka mi disse: «Voi Italiani avete salvato bambini e donne russe e io salvo te e i tuoi uomini. Tu hai capito chi sono e che so tante cose. So anche questa: tra il 14 e il 16 gennaio qui arriveranno i carri armati dei nostri fratelli russi. Preparati a partire. Prepara le slitte. Hai i cavalli dalle orecchie lunghe che le trascineranno. Forse vi salverete. Noi di Kirov e Krassin ci auguriamo che ciò avvenga.»

Il giorno dopo il tenente colonnello Manzone visitò per l’ultima volta la 121ª. Mi prese da parte e mi consigliò di prepararmi subito, senza perdere tempo, per il ripiegamento.

Nello spazio di cinque giorni smistammo in un ospedaletto italiano tra Ol’hovatka e Seliakino i soldati che non apparivano in condizioni fisiche tali da sopportare lunghe marce, preparammo tutte le razioni individuali da campo, scegliemmo i muli più efficienti per il traino delle slitte e intensificammo l’allenamento del personale. [...]

 

A metà mattinata del 15 gennaio, una giornata limpida, secca, freddissima, senza un alito di vento, percepimmo chiaramente forti brontolii di artiglierie, il latrato delle contraerei, l’inconfondibile svum-svum delle katiuše russe. Rossoš’ era stata investita. […]

Alle 17 [del 16 gennaio, n.d.r.] mi decisi a dare l’ordine di ripiegamento. Partirono subito le slitte con gli uomini e i muli più efficienti; la disposizione era di raggiungere fuori pista la periferia di Valuiki e attenderci vicino al campo sportivo. Seguirono le partenze dei due autocarri con a bordo i materiali, i viveri e i soldati meno robusti. Indi, tutti gli altri, a piedi. [...]

[...] ne uscimmo fuori impegnandoci nel ripiegamento solo nelle ore notturne, allorché le piste erano abbastanza libere e i carri armati russi, a 40° sotto zero, non erano in condizione di viaggiare. Quel minimo di riposo che ci era necessario lo prendevamo dentro le isbe nelle ore diurne, quando la massa degli sbandati ne era uscita e le piste erano intasate in modo pauroso.

I ricordi di quelle notti affiorano non come lo scorrere di un film, ma a fotogrammi staccati, a volte confusi nel loro ordine di successione, ma ancora nitidi nel quadro e sempre su un sottofondo crudo nel bianco della neve e di una luna sottile, nel nero argento dei piccoli avvallamenti fra le colline della steppa, e poi ancora nel bianco, il bianco dei muli ricoperti da stalattiti di ghiaccio.

Tornano alla mente e agli occhi, con la sottile indistruttibile angoscia del sopravvissuto, le figure sdraiate sulla neve di sconosciuti soldati italiani che, impazziti di freddo e di stanchezza, si sono coricati per riposarsi. [...] Moriranno nello spazio di mezz’ora.

E la fila interminabile di cavalli ungheresi fulminati dal freddo, allineati di qua e di là della pista, uno dietro l’altro, come per una parata... [...]

Ritorna la notte di Valuiki, isbe in fiamme, gente in giro che spara a casaccio... ma non vediamo Russi, solo Tedeschi che arraffano nelle case e tre di loro si avvicinano al fondo della nostra fila per rubarci qualche mulo e vengono stesi dalle implacabili doppiette dei rapinandi.

Poi l’apparizione – nel mezzo di Valuiki – di un reparto di cavalleria italiano. Il colonnello in testa al drappello ha accanto a sé un ufficiale e lo sta redarguendo perché monta il cavallo con la coperta bianca sottosella non perfettamente piegata, e quella lavata di capo mi riapre il cuore perché se uno, metti quel colonnello, trova ancora il tempo – in tutto quell’inferno di fiamme e di spari – di accorgersi della piega irregolare di una copertina, forse vuol dire che non è ancora il caso di perdere la testa. Poi mi si rivolge calmo come se stesse alla Baldissera di Pinerolo e, con la stessa calma, al chiarore degli incendi controlla una carta topografica e mi indica sulla bussola la linea di marcia da seguire. [...]

Ancora: un ponte di legno su un fiume, soldati che attraversano il letto gelato, autocarri fermi all’imbocco, nessun autiere che osa transitare sul ghiaccio del fiume e nessuno che s’azzarda, d’altro canto, a infilarsi su quel ponte pericolante; vedo il nostro piccolo autiere Meloni, cinquanta chilogrammi di energia e di ottimismo, che scende sotto il ponte, ispeziona le travature, torna e mi dice: «Stia tranquillo, io passo.» e passa prima con il suo Bianchi Miles e poi con l’OM, su uno scricchiolio di assame. Ora siamo al di là del ponte, stiamo per riprendere la marcia quando sentiamo uno schianto e tante urla: un automezzo, non sappiamo se italiano, tedesco, ungherese, rumeno, comunque il primo che ha voluto seguirci, ha spaccato il ponte in due ed è precipitato. Noi andiamo via senza voltarci indietro…

 

E la piazza di Kupjansk, lastricata di congelati, chi disteso, chi in ginocchio, chi appoggiato ai muri delle case, sembrano gli storpi, i miseri, i disperati di Brueghel. E se non camminano non possiamo farci nulla, abbiamo già i due mezzi e le slitte cariche all’inverosimile. Tre, comunque, ce li tiriamo dietro... [...]

Poi c’è una notte in cui non troviamo nessuno e niente, né disgraziati in marcia come noi, né un’isba. Solo al mattino vediamo qualcosa. Stiamo percorrendo l’avvallamento tra due lunghissimi costoni, siamo in ombra, vediamo sul costone, controluna, battuto dal vento, leggere fumate di neve. Un conducente grida a un tratto: «I Russi, lassù ci sono i Russi!».

Guardiamo in alto verso le fumate e scorgiamo qualcosa o qualcuno che va veloce lungo e sopra la nostra direttrice di marcia, scompare e riappare, sembra che a volte strisci. Se sono Russi, questi ci aspettano all’uscita dall’oscurità della balca, loro con i mitra, e noi con il fucile e le pistole d’ordinanza. Con gli sci corro a mettere il mio lungo naso tra la luce e l’ombra; non sono Russi, ma caccio lo stesso un grido, è un grido distensivo: sono lupi, lupi che ci hanno seguito dall’alto; grido ancora e sparo due colpi di pistola e le bestie fuggono dispiegandosi a perfetto ventaglio.

 

E ancora la notte di Kupievaka, con il suo nebbione improvviso.

Dobbiamo fermarci, questa volta; ho soldati in stato di anergia che prelude al congelamento, ho due ufficiali che non reagiscono più, non sono né feriti né ammalati, semplicemente sono dei rassegnati [...].

Giriamo nelle nebbia fittissima, abbiamo perso anche la pista, non vediamo lontano un metro [...]. Ancora una volta, la sorte amica: andiamo letteralmente a sbattere contro un gruppo di isbe e dietro a queste sta il villaggio di Kupievaka.

Ci facciamo aprire le casupole, sistemiamo gli uomini. Nell’isba che mi ha accolto trovo due Ungheresi: sono ufficiali, in sosta lì dal pomeriggio del giorno precedente. Mi accolgono bene anche se gli ho interrotto il sonno. Uno dei due ha la taglia dell’atleta, mi guarda e io lo guardo... chissà dove ci siamo visti prima. Ci presentiamo, lui si chiama Zsabo, è stato in Italia, ha gareggiato a Torino.

Ma allora è lui lo Zsabo dei Campionati Europei di Atletica Leggera, Torino 1934!

E io l’avevo conosciuto perché in quei campionati facevo parte del gruppo dei giudici di gara. Saltano fuori nomi famosi di allora: Beccali, Lanzi, Facelli, Jarvinen, Kusocinskj e lui, Zsabo. Grandi abbracci, e viva lo sport...

 

 

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