Testimonianza estratta dal libro La Campagna di Russia nei racconti dei reduci, di Manuel Grotto,
edito dall'Associazione Nazionale Alpini, sezione di Vicenza, nel giugno 2007.
Qui pubblicato per gentile concessione dell'autore.
PONTIERE LINO SCOLARO
Classe 1920, SCHIO
IX BATTAGLIONE PONTIERI MOTORIZZATO
Facevo parte del IX Btg. Pontieri motorizzato e assieme ai miei compagni partii in tradotta per il Fronte Russo il 29 luglio 1941. Gli ufficiali viaggiavano in 20 per ogni carrozza di seconda classe, mentre noi eravamo in 50 per vagone, pigiati come sardine. Lo spirito di cameratismo non esisteva in quei frangenti! Passammo per Insbruch, Salisburgo, Vienna e poi in Ungheria, attraversando il Danubio e Budapest. Arrivammo in una piccola stazione e scaricammo i circa 200 autocarri del treno, perché eravamo a 15 km dal confine russo e a circa 300 km dal fronte. Attraversato il confine tra Ungheria e Romania sui Monti Carpazi entrammo in zona di guerra, vedendo lungo le strade numerosi veicoli distrutti e altri incendiati dai Russi in ritirata.
Spesso le ruote slittavano sul fango e si doveva scendere per spingere il camion. Durante le soste ne approfittavo per andare a caccia visto che la selvaggina era abbondante e in questo modo potevo, assieme ai miei amici, migliorare il rancio con arrosti di uccelli.
Anche il nostro tenente medico era appassionato di caccia e si era portato il fucile e il cane (in russo sobaka) dall'Italia. Amava andare a starne e in un giorno ne uccise ben 24. Giunti nei pressi di Balta vedemmo le testimonianze di una grande battaglia, con carri armati distrutti di ambo gli schieramenti. Intanto in prima linea i bersaglieri combatterono, anche all'arma bianca, avanzando al grido di "Savoia!" e noi dovevamo sistemare alcuni ponti lungo il percorso.
Presso Hirovahgraj [forse Krivoi Rog, n.d.r.] incrociammo colonne di prigionieri russi, tutti sporchi e con le barbe lunghe, scortati dai Tedeschi. Mi venne una grande tristezza pensando che anche loro avevano una famiglia che li aspettava. Camminavano a testa bassa e chissà quanti di loro sarebbero tornati a casa. Arrivammo nei pressi del grande fiume Dniepr, dove si era stabilito il fronte e avvicinandoci di sera notammo diverse isbe incendiate, che emanavano un chiarore rossastro. Si udivano distintamente le mitragliatrici e si vedevano le bocche da fuoco dei cannoni che sparavano.
Scaricammo le barche lavorando per diversi giorni, notti comprese, senza sosta né riposo. Intanto i Russi dall'altra sponda ci sparavano con la katiusha e ogni volta che quei terribili razzi arrivavano si tratteneva il fiato sperando di non essere colpiti. Ero della squadra materiali, mentre la squadra barche operava in mezzo al fiume. Un'autocolonna trasportò le barche sulla riva e dovemmo cambiare il punto di costruzione del ponte, per i continui bombardamenti e mitragliamenti aerei, che ci provocarono diversi feriti. Dopo alcuni giorni arrivarono due bombardieri russi e la contraerea tedesca ne buttò giù uno, ma l'altro sganciò le sue bombe che colpirono il ponte in due punti.
Le batterie nemiche erano vicine e, quando arrivavano i colpi, se ci trovavamo sopra il ponte ci buttavamo dentro una barca, con la faccia schiacciata contro il fondo. Spesso l'acqua alzata dalle granate ci bagnava tutti e la fede in Dio ci sosteneva, pregandolo di continuo di essere preservati dalla morte. Una volta le schegge sforacchiarono tutti i bordi della barca, ma rimanemmo incolumi. Ci aiutavano nell'opera anche alcuni prigionieri russi, che trattavamo bene, a differenza dei Tedeschi.
In un'occasione durante un bombardamento ci furono diversi feriti e un prigioniero morto. Era un lavoro terribile, consapevoli di essere bersagli costanti delle bombe nemiche, che sforacchiavano di continuo le travi e le assi del ponte. Il ponte risultò lungo 1500 metri e subito un reparto tedesco di volontari della morte passò. Erano armati di tutto punto, seguiti da motociclette, vetture e prigionieri russi che portavano munizioni e granate. Durante un bombardamento una granata prese in pieno una casa vicina a me e una scheggia rimbalzò contro la mia testa, fortunatamente protetta dall'elmetto.
Una volta che il ponte fu ultimato il problema fu mantenere una curvatura che seguisse il deflusso delle acque. Ci riuscimmo grazie a delle corde che tenevamo in tensione da alcune barche poco lontane dal ponte. Il 10 settembre i Russi con le granate distrussero sei metri di ponte e dovemmo in fretta ricostruirlo. Ogni giorno c'erano numerosi morti fra quelli che passavano dall'altra parte, colpiti dalle schegge, ma erano soprattutto Tedeschi o prigionieri russi. Una notte un camion passando ruppe il punto d'arrivo e dovemmo partire con le travi per sistemare il danno.
Il 13 [settembre] l'artiglieria russa semidistrusse il ponte e dovemmo ricostruirne ben 80 metri, ma appena finito una granata ne distrusse altri 15 e una scheggia mi cadde smorzata sulla spalla. Allora ringraziai Dio che mi aveva per la seconda volta salvato. Un giorno venne a vedere il ponte il nostro colonnello, proprio quando delle mine galleggianti russe ne avevano fatto saltare 90 metri e le barche erano rovesciate e distrutte lungo la riva.
Molte altre volte fu danneggiato dal nemico, ma i nostri ufficiali furono sempre contenti del nostro lavoro, perché le riparazioni erano veloci. Anche gli ufficiali tedeschi si complimentarono più volte con noi e finalmente a fine settembre il nemico fu cacciato lontano e le nostre condizioni di lavoro migliorarono, finché il 13 ottobre lasciammo la città di Dniepropetrovsk per proseguire verso il fronte.
Un giorno mi giunse la triste notizia della morte di mia madre e partii in licenza, rimasi a casa qualche giorno e poi ritornai in Russia. Il primo inverno fu terribile per le temperature toccate, soprattutto perché il nostro vestiario era inadatto. Per la permanenza in Russia durante quel periodo ricevemmo la Croce di ghiaccio da parte dei Tedeschi.
La popolazione russa ci voleva bene e non ci trattava da nemici. Avevano grande ammirazione per i nostri orologi (ciassì), perché nessuno di loro ne aveva uno. Quando arrivò il freddo notai il sistema che adottavano per mantenere sane le patate: facevano una buca e le mettevano sotto terra.
Nel dicembre del 1942 iniziò la tragica ritirata e la cosa più importante era trovare un posto per ripararsi la notte. Bussavamo alle porte dei Russi chiedendo: "Mosnà, coce za reo." (un posto al caldo). La mia fortuna fu quella di trovare posto in un camion, anche se si avanzava con difficoltà per l'ingorgo di mezzi e di soldati. Eravamo stracarichi, visto che c'era chi si era messo perfino sopra i parafanghi. Il freddo era intenso sul mezzo, perché si stava fermi e più di qualcuno, congelatosi, cadeva giù sulla strada.
lo e Maltauro, un padovano, rimanemmo abbracciati tutta la notte per riscaldarci a vicenda. Una volta usciti dalla sacca ci radunò un colonnello che pretendeva che formassimo una linea di difesa dai Russi, ma con cosa potevamo difenderci, visto che la maggior parte di noi era disarmata? Fortunatamente salii in tradotta e rientrai in Italia l'11 marzo 1943.
San Vito di Leguzzano, giugno 2006