Recensione di Patrizia Marchesini

 

Attendimi copertina28 novembre 1942. Il sottotenente medico Donato Guglielmi parte per il Fronte Orientale. È sposato da un anno e mezzo e la moglie Evelina sta per partorire il loro primo figlio. Il giovane ufficiale inizia la stesura di un diario.

L’11 dicembre, il giorno seguente il suo arrivo all’Ospedale n. 578 di Kantemirovka, riceve un telegramma laconico: Evelina sta bene e la neonata, Donatella, è morta.

Guglielmi fatica ad assimilare un dolore così grande, ma gli eventi incalzano: il 19 dicembre i Russi arrivano a Kantemirovka e l’ufficiale – insieme ai medici presenti all’Ospedale n. 578 e ai ricoverati – cade prigioniero.

Inizia così un racconto che si concluderà solo il 17 luglio 1946, quando Guglielmi varca di nuovo il confine italiano, a Tarvisio.

Un libro scritto bene. Più che un diario sembra una lunghissima lettera d’amore per la moglie, cui spesso si rivolge.

Un libro non retorico, pacato, dove si parla “dei tempi grami e dei tempi relativamente buoni, dicendo bene quando era bene, e male quando era male.”[1]

Dove l’indignazione emerge incredula non tanto verso le autorità sovietiche dei vari lager in cui Guglielmi trascorre la prigionia, quanto verso la camorra di certi “connazionali delinquenti e ributtanti”[2], responsabili a loro volta – per una totale mancanza di scrupoli – della morte di molti Italiani.

Un libro di tanto in tanto così tenero e intimo, quando Guglielmi parla con la moglie lontana, che diventa difficile continuare a leggere, nel timore di intromettersi in un discorso troppo privato: “Dov’è la tua morbida spalla? Dov’è la sottile epidermide delle tue tempie dal profumo indefinibile e suo?”[3]

 

Certo, ha del miracoloso come il tenente Guglielmi sia riuscito a salvare dalle perquisizioni minuziose e ripetute questo diario, che egli afferma di avere continuato a scrivere durante, e non dopo la prigionia. Sappiamo bene come i Sovietici reagissero di fronte a qualsiasi pezzetto di carta che riportasse elenchi di deceduti, soprattutto in seguito alle epidemie del primo semestre del 1943: veniva requisito... Medesima sorte toccava a ogni scritto in possesso dei prigionieri, che veniva confiscato ed esaminato per trarne dettagli utili a comprendere la tendenza politica dei singoli prigionieri, nonché attitudini e propensioni generiche degli Italiani, per sviluppare una propaganda politica sempre più efficace. Sappiamo anche come i prigionieri fossero privi più o meno di qualsiasi oggetto di uso quotidiano, anche di carta e matita, in particolar modo in quei primi mesi terribili del ’43. Sembra quindi incredibile che tali memorie siano giunte fino a noi, anche se Donato Guglielmi, in quanto ufficiale medico, fu forse oggetto di un trattamento meno severo e, grazie alle sue competenze professionali, seppe senza dubbio guadagnarsi stima e rispetto da parte di gran parte delle autorità dei campi in cui venne a trovarsi. Non fu sempre facile nascondere il diario: durante un trasporto ferroviario nell’aprile 1943 un prigioniero – di sua spontanea volontà – sbendò la coscia ferita, vi avvolse intorno il quaderno di Guglielmi, per poi fasciarsi di nuovo.[4] In seguito Guglielmi ricopiò su cartine di sigaretta quanto aveva già scritto, e continuò in questo modo, occultando poi quei fogli minuscoli nelle spalline del cappotto.

Una testimonianza non scontata, un libro i cui protagonisti – quasi tutti morti – sono tratteggiati con maestria dall'Autore, al punto che sembrano uscire dalle pagine e guardarci, imponendo una riflessione sofferta e doverosa.

 

Donato Guglielmi, Attendimi – Russia 1942-1946 – Diario di un medico in prigionia, Edizioni L’Arciere, Cuneo, 1993

 


 

 

Leggi un brano del libro.

 

 

 

[1] Dall’introduzione dell’Autore, pag. 7.

[2] Attendimi, pag. 218.

[3] Opera citata, pag. 303.

[4] Opera citata, pag. 118.

 

 

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