Recensione di Patrizia Marchesini

 

Prigionieri nella neve copertinaAntonio Andrioli, classe 1917, iscritto alla Facoltà di Economia e Commercio presso l’Università di Torino, stava lavorando in Friuli per l’impresa di costruzioni Recchi quando – il 9 marzo 1942 – fu richiamato all’11° Reggimento Genio di Udine, e assegnato al III Battaglione Misto Genio (Divisione Julia). La sua 123ª Compagnia Artieri comprendeva sette ufficiali e più di cinquecento genieri alpini specializzati in mansioni diverse (lavori di carpenteria, di muratura e altro).

La tradotta partì da Udine il 1° Agosto 1942, giungendo a Izjum – in Ucraina – due settimane dopo.

L’esperienza al Fronte Orientale di Antonio Andrioli si concluderà ben oltre il termine del conflitto: il 27 gennaio 1943 fu catturato dai Sovietici – insieme ai resti del suo reparto – nei pressi di Valuiki, e rientrò in Italia solo nell’estate del 1946.

Il racconto di Andrioli è la prova di come certi ricordi – seppure decantati dal trascorrere degli anni – premano inesorabili per uscire. Intrisi dell’incredulità per essere riuscito a tornare. Permeati di strazio dignitoso, e di flashback sconvolgenti.

La cronaca di quei giorni e di quegli anni di prigionia sublima perquisizioni ripetute e marce, stanchezza infinita e disperata, ma anche sprazzi di umana solidarietà.

È costellata – non può essere altrimenti – di morti.

Alcuni noti all’autore, i più sconosciuti. Per sempre sconosciuti.

Hrenovoe (Krinovaja), Oranki, Suzdal’.

Luoghi diversi e diversi modi di coniugare la sofferenza, descritta sempre con toni pacati.

Un piccolo-grande libro, che va oltre la memorialistica e sfocia nella preghiera a non dimenticare mai.

Una preghiera che, a seguito della recente scomparsa di Antonio Andrioli (deceduto nel settembre 2014) diviene, se possibile, ancora più incisiva.

 

 

 

 

 

Antonio Andrioli, Prigionieri nella neve

Neos Edizioni, Rivoli (TO), 2012

 

 

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