Recensione di Patrizia Marchesini
Ordinato sacerdote nel 1939, Aldo Del Monte parte per la Russia nel 1942, come cappellano militare. Il libro, se mi è consentito, è come il lato B di un 45 giri.
Il lato A è quello sempre ascoltato, quello famoso. Poi, qualcuno si accorge che esiste anche il retro di quel disco, magari altrettanto pregevole.
Ecco, se quanto di solito leggiamo sulla Campagna di Russia è il lato A, vale la pena ascoltare questo volume. Dove le persone sono indicate – senza per questo sminuirle – con una semplice iniziale. Lo stesso vale – tranne pochi casi – per le località attraversate prima di giungere a Kantemirovka. Per dirla con le parole dell’Autore, “qui c’è solo un eco di tutto quel mondo in tempesta. Perché non intendo fare una storia, né di un uomo né di un reparto in guerra. Ma soltanto cogliere – come in una sezione interna – le più drammatiche situazioni spirituali di quell’uragano umano.”[1]
Il cappellano militare Aldo Del Monte è assegnato a un Ospedale alle dipendenze dell’8ª Armata... non sappiamo di quale ospedale si tratti, ma forse non è importante. Fondamentali, invece, sono i feriti di cui Don Aldo, i medici e tutto il personale si prendono cura in ogni modo possibile. Fondamentali sono le emozioni e le paure, i dubbi e le certezze di quel piccolo universo a sé stante. C’è molto, in questo libro. Ci sono, per esempio, i figli di nessuno, bambini rimasti soli di cui tutti sembrano non curarsi a parte gli Italiani che danno loro minestra e pane, ci sono i mercati dei villaggi: una donna vende sette mele, un’altra poche patate, una ragazza offre miglio misurandolo con un bicchiere, un uomo espone solo tre sigarette su un pezzetto di stoffa... Poche righe, eloquenti come capitoli interi. Don Aldo, sacerdote, non può essere d’accordo con il materialismo del regime bolscevico, ma – nello stesso tempo – cerca di comprenderne il determinismo, e l’esaltazione del lavoro come unica ricchezza e unico merito dell’uomo in quel tipo di società... fino ad affermare che “è forse più morale il russo; perché abbassa se stesso per affratellarsi, mentre il tedesco distrugge gli altri per innalzarsi.”[2] Fino ad ammettere che quelli che dovrebbero essere i nemici lo sono molto meno di coloro che dovrebbero essere considerati amici. Insomma, a Don Aldo i Tedeschi non vanno giù.
Ci sono naturalmente, le mille storie – accennate con una sorta di pudore, con frasi nude e forse per questo dolcissime – di quei feriti o ammalati che non ce la fanno. Ci sono gli ultimi due mesi, novembre e dicembre, scanditi da note di diario quasi quotidiane e da un impegno che – nei giorni dell’attacco sul fronte del II Corpo d’Armata Italiano – diventa massacrante. Don Aldo si domanda se “dopo l’ultima ossessionante difesa” i soldati abbiano mollato. “Nessuno ha mollato. Gli sbandati sono quelli dei servizi. I combattenti sono morti tutti.”[3]
E poi, nel pomeriggio di quel lunghissimo 19 dicembre 1942 a Kantemirovka, Don Aldo viene ferito in seguito al lancio di bombe a mano. È grave. Rischia la cancrena al braccio. Della notte di Natale, ricoverato in un ospedale nelle retrovie del Corpo d’Armata Alpino, ricorda il presepe che avrebbe voluto allestire a Kantemirovka e la sete tormentosa: “Non c’è un limone?”[4]
Giunto in Italia, sospinto dal direttore di un reparto del Centro Putti di Bologna presso cui era ricoverato, Don Aldo riempie venti quaderni. Quel medico, a sua insaputa, li fa stampare e pubblicare.
Il cappellano, divenuto vescovo, in una nota finale sostiene che il libro è diventato negli anni una sorta di testimone silenzioso, di cui non è più riuscito a liberarsi, e spiega come una sorta di espiazione riveli “il segreto profondo di queste pagine e, forse, la ragione della loro sopravvivenza.”[5]
Aldo Del Monte
La croce sui girasoli – Diario di un cappellano in Russia (1942-1943)
Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL), 1998
Leggi anche un brano del libro.