Recensione di Patrizia Marchesini
Il libro fornisce dati e testimonianze, e offre spunti di riflessione su un tema – quello del ripiegamento del Corpo d’Armata alpino – già approfondito con dovizia di particolari dalla saggistica e dalla memorialistica italiane.
L’Autore ha cercato tracce del Corpo d’Armata suddetto nella storiografia non solo tedesca, ma anche ungherese, romena e sovietica. Ha studiato la documentazione presente negli archivi militari tedeschi, comparandola con la nostra.
Tale impegno, protratto nel tempo, ha permesso a Massignani di riprendere un discorso su cui sembrava fosse già stato detto tutto.
La sua ricerca è lontana dallo scoop giornalistico e non si propone di mettere un punto definitivo all’analisi degli avvenimenti in esame. Pone, tuttavia, interrogativi importanti, cerca di sfatare alcuni luoghi comuni e si astiene da quella sorta di autocommiserazione, implicita in diverse pubblicazioni italiane.
Senza nulla togliere al rilievo e al prestigio di altre opere sul tema – e con la consapevolezza che la memorialistica ha consentito di illustrare un insieme di episodi preziosissimi per ricostruire la ritirata degli alpini e il modo in cui è stata percepita da chi l’ha vissuta – il volume mette in evidenza il complesso delle operazioni e l’indagine dal punto di vista militare, spesso in secondo piano.
La seconda parte del libro riporta alcuni documenti di grande importanza, tra cui il rapporto (datato 2 febbraio 1943) steso dal colonnello Heidkämper sui combattimenti sostenuti dal XXIV Corpo Corazzato germanico nel periodo dal 14 al 21 gennaio 1943. La relazione è spesso molto critica nei confronti del Comando alpino, carente – secondo il colonnello – nel regolare in modo adeguato la marcia verso ovest e nell’organizzare la sicurezza della colonna ai lati e in retroguardia. Anche l’esplorazione in avanti – a suo giudizio – venne trascurata in maniera irresponsabile.
Sappiamo che i Tedeschi non avevano in generale una buona opinione degli alleati italiani ma, almeno prima del ripiegamento, in talune occasioni erano stati espressi giudizi positivi sulle nostre truppe. In particolare, se facciamo riferimento al libro di Massignani, tra i documenti è presente il rapporto (18 marzo 1943) del tenente tedesco Salazer sui combattimenti della Julia nel periodo tra il 18 dicembre 1942 e il 14 gennaio 1943: pur lamentando, per quanto riguarda i nostri alpini, una mancanza quasi totale di addestramento nel combattere i carri a distanza ravvicinata, è evidenziata un’incontestabile superiorità delle truppe alpine nei confronti dei soldati della Divisione Cosseria e la capacità della Julia non solo di mantenere le posizioni assegnate, ma anche di passare al contrattacco.
Lo stesso Salazer stila in data 23 marzo 1943 un secondo rapporto sull’arretramento del Corpo d’Armata alpino e del XXIV Corpo Corazzato germanico dal 14 al 31 gennaio 1943; in esso vengono sottolineate le difficoltà che incisero sulle prestazioni combattive delle truppe, costrette a marciare in campo aperto al freddo, nella neve profonda e con pochissimi viveri. Un resoconto, quindi, molto meno severo di quello di Heidkämper.
Quando vi è una tragedia, ne consegue un rimbalzare inevitabile di responsabilità. Secondo Massignani la questione è tuttora aperta. Gli Italiani e gli Ungheresi si scontrano su chi abbia lasciato per primo il Don; gli Italiani rimproverano ai Tedeschi di avere ritardato l’ordine di ritirata per il Corpo d’Armata alpino, e rinfacciano loro un comportamento negativo da parte di molti militari tedeschi di ogni grado nei confronti delle nostre truppe; da parte germanica, invece, si colpevolizzano gli Italiani per avere ceduto per primi durante l’inverno ’42-’43 (mentre da parte italiana, è strano, non viene mai ufficializzato uguale biasimo per l’abbandono delle linee da parte del XXIV Corpo Corazzato germanico); gli Italiani, poi, lamentano che i Tedeschi li posero davanti a compiti impossibili (fronte troppo esteso, difesa a cordone, mancanza di riserve).
Massignani avvalora la tesi, sostenuta anche da parecchi altri, che l’esito dell’Operazione Barbarossa fosse già segnato alla fine del 1941, quando i Tedeschi si arrestarono davanti alle porte di Mosca, in massima parte per una stima sbagliata del potenziale russo. Tale errore si basava su diversi fattori, come le vittorie mai decisive riportate dai Russi durante il primo conflitto mondiale, il senso di superiorità biologica insito nei Tedeschi, l’euforia derivante dalla conclusione favorevole dell’attacco alla Francia (che aveva superato le aspettative più ottimistiche).
Il generale Jodl – Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate germaniche – durante la discussione a Mürwik del 15 maggio 1945 affermò che a lui e a Hitler “dopo la catastrofe dell’inverno 1941” era parso indubbio che da quel punto in avanti sarebbe stato impossibile riportare una vittoria.
Con l’inizio del 1942 la guerra si era trasformata da europea a mondiale e Hitler non aveva a disposizione molto tempo per realizzare i suoi piani, prima che l’intervento americano facesse pendere l’ago della bilancia a favore della coalizione contro la Germania e i suoi alleati.
Il Führer desiderava controllare la zona mineraria del Donbass e i pozzi petroliferi del Caucaso perché, come spiegò anche a Mussolini a fine aprile ’42, era necessario atrofizzare il nemico, togliendo loro il grano ucraino, le materie prime per il movimento, le fonti di energia elettrica e sbarrando una delle porte – l’Iran – per l’entrata in Unione Sovietica dei rifornimenti angloamericani.
Tuttavia le disponibilità della Germania e dei suoi alleati non erano sufficienti e adeguate per un fronte così esteso, anche perché Hitler – il 9 luglio 1942 – spostò in Francia due Divisioni d’elite, nel timore che la Gran Bretagna tentasse di aprire un secondo fronte.
Sul lavoro di Intelligence Massignani fa alcune considerazioni di rilievo: nel giugno 1942 il generale Gehlen, responsabile del reparto Eserciti Stranieri Est, dichiarò che un successo dell’offensiva nell’estate ’42 non avrebbe provocato il crollo militare degli avversari.
Rapporti successivi riferirono un rafforzamento della difesa di Stalingrado e un afflusso di forze sovietiche nell’ansa del Don. Nonostante queste valutazioni corrette, Gehlen ammorbidì i suoi pronostici, stimando che i Sovietici avrebbero comunque avuto obiettivi simili a quelli dell’inverno precedente, con attacchi di disturbo, forse più consistenti nella zona di Stalingrado e sul fronte delle Armate Centro (Smolensk).
Bisogna ricordare che i mezzi ritenuti più efficaci per l’attività di Intelligence erano le intercettazioni e le ricognizioni aeree, ma – causa le condizioni atmosferiche avverse – subito prima della battaglia di Stalingrado sia le une sia le altre decrebbero in misura notevole.
I Sovietici, inoltre, riuscirono spesso a condizionare gli agenti tedeschi e, come se non bastasse, avevano un’abilità indiscutibile nella maskirovka, ossia nell’ingannare il nemico; i mezzi venivano celati e le truppe, ammassate nei punti prescelti per l’attacco, dovevano rimanere al coperto, con la minaccia della pena di morte. Due giorni prima dell’Operazione Piccolo Saturno, iniziata ufficialmente il 16 dicembre 1942, Von Tippelskirch, generale tedesco presso l’8a Armata italiana con l’importante mansione di coordinare gli ufficiali di collegamento, informava lo Stato Maggiore dell’esercito tedesco che non si delineava ancora un piano di sfondamento. Vi erano stati attacchi locali senza ammassamento di artiglieria e la sua idea era che i Sovietici desiderassero soltanto vincolare le forze con azioni di disturbo.
Il 16 dicembre nel diario del suddetto generale venne registrato che gli avversari erano riusciti a irrompere nelle posizioni tenute dalle Divisioni Ravenna e Cosseria. Il giorno seguente nel diario medesimo si riportò un’annotazione riguardante l’apertura di una profonda breccia nel settore della Pasubio. Lo sfondamento venne attuato grazie ai carri armati. Nei giorni ancora successivi nel diario comparvero note frequenti, relative a truppe italiane che si ritiravano senza controllo; i reduci di Stalingrado, nel tempo, si sarebbero persuasi che il cedimento della loro sacca e la loro sconfitta fossero stati l’effetto del crollo presso Italiani e Romeni. Se si esaminano i rapporti dei combattimenti dell’epoca, invece, appare manifesto che le nostre Divisioni di Faneteria non ripiegarono subito e senza combattere, ma furono sottoposte ad attacchi molto intensi a partire dal giorno 11 dicembre.
Ciononostante anche il comando dell’Arm.I.R. vide lo sfondamento sovietico come uno sfascio rovinoso del morale delle nostre truppe, e gli alpini stessi, venuti a conoscenza dell’accaduto, non esitarono ad appioppare ingiustamente alla Ravenna e alla Cosseria l’appellativo di Divisioni cikai, verbo che in lingua russa significa scappare.
Il 13 gennaio 1943 ebbe inizio l’Operazione Ostrogožsk-Rossoš’. Valutazioni precedenti sulla situazione avevano visto ancora una volta i Tedeschi e i loro alleati italiani e ungheresi discordanti sul punto effettivo dell’attacco sovietico. Vi era pure un certo scetticismo sull’eventualità di un’altra forte iniziativa da parte avversaria, a così poca distanza dall’Operazione Piccolo Saturno. Invece.
Il volume di Massignani analizza anche il discorso spesso dibattuto dei rifornimenti. Se è vero che le truppe italiane dipendevano dai Tedeschi per i rifornimenti, è necessario ricordare che la guerra di movimento acuì i problemi di approvvigionamento, già rilevanti a causa del diverso scartamento delle ferrovie russe. Nel settore sud vi erano solo tre linee ferroviarie, di cui una era dedicata al rifornimento specifico della città di Stalingrado e del Caucaso.
Se le nostre Divisioni furono definite autotrasportabili, non è che i Tedeschi avessero poi tutta questa abbondanza: vi sono descrizioni di carovane cammellate con il compito di rifornire il Caucaso e, per questo motivo, l’autoparco italiano (di consistenza in fondo non disprezzabile, seppure insufficiente ai bisogni dell’intera Arm.I.R.) fu molto gradito dai Tedeschi, in quanto permise loro per un certo periodo di rifornire il fronte di Stalingrado. Infatti gli unici soldati italiani coinvolti nell’assedio di quella città facevano proprio parte di una colonna di rifornimenti.
Vuoi per le difficoltà summenzionate, vuoi per la tendenza accentratrice degli organi superiori dei Servizi che tendevano ad accumulare materiali e scorte nei magazzini, le Unità in linea chiesero e supplicarono spesso inutilmente per fronteggiare i loro bisogni, come racconta il generale Tamassia, comandante del Genio del Corpo d’Armata alpino (Cronache del Genio alpino 1935-1980, Mursia, Milano, 1981).
Se ci soffermiamo sul problema-carburante e sul fatto che molti dei nostri automezzi dovettero essere abbandonati, Massignani amplia il discorso alla manutenzione stradale e allo sgombero della neve. Il numero di strade oggetto di manutenzione pare essere stato piuttosto basso, ma occorre ricordare che il ripiegamento in massima parte non si svolse lungo rotabili tenute libere dalla neve, in primo luogo perché quelle principali erano controllate dai Sovietici e in secondo luogo perché nessuno si assunse più l’onere di pulirle. Inoltre, se ci riferiamo al ripiegamento alpino, in quel periodo specifico vi furono parecchie bufere di neve.
Ciò non toglie che un certo numero di automezzi seguì le truppe, finché vi fu carburante o finché i mezzi stessi non rimasero immobilizzati: di frequente mancavano le catene, chiamate allora dispositivi di aderenza.
Massignani pone in rilievo il problema dei collegamenti radio, in quanto essi furono causa della diversa sorte toccata alla Tridentina da una parte e alla Julia, alla Cuneense e alla Vicenza (o almeno a gran parte degli uomini di queste ultime Divisioni) dall’altra. I nostri apparecchi, pur di buona qualità, non erano idonei al Fronte Russo, perché inadatti al clima e troppo pesanti per essere trasportati in maniera agevole.
Il motivo, però, dei mancati collegamenti fu la perdita degli apparecchi del Corpo d’Armata alpino negli attacchi prima a Rossoš’ e poi a Postojalyi, mentre le ultime tre stazioni radio scampate a Postojalyj vennero distrutte la mattina del 20 gennaio a Opyt.
Non avrebbero avuto portata sufficiente per collegarsi con il comando dell’Arm.I.R., ma sarebbero state in grado di avvisare le altre Divisioni del cambiamento della direzione di marcia.
Il Comando del Corpo d’Armata alpino e la Tridentina furono costretti ad affidarsi a una radio tedesca, efficiente e montata su un mezzo cingolato in grado di muoversi fuori strada.
L’Autore si domanda perché non furono fatti sforzi ulteriori per avvisare Julia, Cuneense e Vicenza, magari con l’invio di pattuglie di sciatori. O mediante aerei di collegamento.
A quanto pare la sera del 21 gennaio uno Storch atterrò nei pressi della colonna del 1° Reggimento Alpini (colonnello Manfredi) per dare indicazioni a una colonna tedesca. E sembra che il 23 un altro Storch fosse atterrato vicino al generale Battisti (comandante la Divisione Cuneense), per invitarlo a uscire dalla sacca. Se così accadde, il generale decise comunque di non lasciare i suoi alpini, ma non si comprende perché non fu avvisato della mutata direzione di marcia.
Lo Storch era un velivolo da collegamento tedesco. E qui Massignani sottolinea un altro aspetto, già evidenziato in relazioni autorevoli (come quella del generale Battisti) e nella memorialistica: la totale mancanza della Regia Aeronautica lungo l’itinerario del Corpo d’Armata alpino. L’aeronautica italiana non aveva sviluppato aerei da collegamento, ma il CAFO (Comando Aviazione Fronte Orientale) aveva disponibili due Storch tedeschi e sarebbe stato sufficiente che uno dei due avesse lanciato un tubicino contenente una comunicazione per la Cuneense e la Vicenza (a questo punto la maggior parte della Julia, purtroppo, era scomparsa nei duri scontri).
In quanto ai rifornimenti aerei, è fuori discussione che la Regia Aeronautica si sia adoperata nell’inverno ’42-‘43 per rifornire Tedeschi e Italiani a Čertkovo e a Millerovo. Il comandante del CAFO (generale Enrico Pezzi) e altri uomini scomparvero proprio a seguito di una missione a Čertkovo (29 dicembre 1942).
Ma, come rimarcò il generale Agostino Uberti – Capo di Stato Maggiore della Divisione Vicenza – in una lettera del 1977 all’Ufficio Storico, il Comando dell’8a Armata e la Regia Aeronautica avrebbero dovuto pensare anche al Corpo d’Armata Alpino e non solo a Čertkovo assediata.
In ogni caso, poiché gli aerei italiani spesso rifornivano e trasportavano truppe tedesche, una collaborazione da parte Luftwaffe sarebbe parsa normale.
Ovvio che l’aeronautica tedesca fosse impegnata al massimo per approvvigionare la sacca di Stalingrado, ma qualche rifornimento – di carburante, munizioni e viveri – sulla colonna della Tridentina ci fu. Sul tema viveri le versioni germanica e italiana su chi si appropriò di cosa sono contraddittorie: è probabile si siano verificate situazioni di prepotenza da ambo le parti e che il cibo lanciato dagli aerei venisse raccolto dai soldati più vicini, a seconda dei rapporti di forze in quel momento.
Anche a tale riguardo la relazione di Heidkämper è sfavorevole nei confronti degli Italiani, ma il documento va letto con alcune riserve in quanto manca un diario di guerra vero e proprio del XXIV Corpo Corazzato germanico... oltre al fatto che il colonnello non avrebbe potuto verificare cosa in effetti succedeva ai singoli contenitori di viveri, che cadevano spesso a chilometri di distanza l’uno dall’altro.
D’altra parte gli Italiani, come risulta da alcune testimonianze, erano in grado di fare valere le proprie ragioni e di rispondere alla durezza con la durezza.
Durante il ripiegamento le diversità di addestramento e di obiettivi, sommate alle differenze linguistiche e di mentalità, esasperarono le incomprensioni fra Italiani e Tedeschi.
Fin dall’inizio non vi fu mai un effettivo rapporto di cameratismo fra alleati, a parte rare eccezioni.
Gli alleati dei Tedeschi erano considerati subalterni.
Il tipo di guerra e la politica di occupazione nazista del territorio sovietico resero, con il passare dei mesi, il conflitto sul Fronte Orientale sempre più crudo da parte dei due contendenti principali.
L’immagine del soldato italiano privilegia un certo vittimismo e descrive un combattente buono e pronto a sacrificarsi. Secondo Massignani ciò ha consentito in taluni casi di sorvolare su errori e superficialità, grazie al prezzo pagato in sangue e vite umane.
Tedeschi e Sovietici, al contrario, giudicavano il valore e l’eroismo in base al numero di nemici uccisi.
Nella maggior parte dei soldati italiani al Fronte Orientale mancava lo spirito di conquista, pertanto nelle testimonianze e nella memorialistica l’aggressività non è quasi mai presente, anche se – come Massignani fa notare – un minimo aggressivi gli alpini della Tridentina saranno certo stati, nel loro aprirsi la strada verso casa; e prima ancora lo saranno stati gli alpini della Julia, imbattuti per un mese – da metà dicembre a metà gennaio – in accaniti combattimenti quotidiani.
Il discorso del Corpo d’Armata alpino è diverso da quello del resto dell’Arm.I.R., in quanto agli alpini non poteva essere attribuito alcun cedimento; al contrario gli alpini avrebbero potuto incolpare i Tedeschi in tal senso. In effetti la numerosa documentazione presso l’Ufficio Storico SME, riguardante il trattamento brutale dei militari tedeschi (testimonianze di ufficiali e soldati italiani), riguarda il Corpo d’Armata alpino in misura minore.
I rapporti di forze, nel corso del ripiegamento di quest’ultimo, suggerivano prudenza ai Tedeschi. Gli incidenti ebbero origine da due motivi principali, la precedenza sulle piste e la contesa degli alloggi quando si arrivava in un centro abitato. Gli alpini – a quanto pare – non rimasero passivi di fronte ai tentativi tedeschi di imporsi in ogni occasione.
In quanto all’atteggiamento degli Italiani nei confronti della popolazione russa, in generale durante tutta la campagna di guerra e in particolare nel corso del ripiegamento, molto è stato scritto. L’abitudine tedesca – pur se non generalizzata – di evacuare gli abitanti delle isbe e di fucilare sistematicamente i prigionieri durante il ripiegamento irritava i nostri soldati.
Tuttavia, con lo snodarsi dei giorni e l’aumentare delle privazioni, sommate alle perdite e al rinvenimento di cadaveri italiani con colpi alla nuca, vi furono casi in cui i partigiani vennero soppressi senza tante cerimonie. Questo non significa vi fossero sentimenti di odio verso gli avversari, in particolar modo verso la popolazione ucraina e russa che aveva instaurato rapporti amichevoli con le nostre truppe.
Massignani trae infine conclusioni importanti. Alcuni elementi – o meglio, la loro mancanza – hanno influito sul ripiegamento del Corpo d’Armata alpino in maniera significativa: radio, aerei, semoventi e mezzi cingolati.
Le colonne più a sud e parallele alla Tridentina non ce la fecero anche e soprattutto per le carenze suddette, oltre al fatto che incapparono in forze sovietiche più consistenti e non riuscirono a superarle.
I pochi materiali tedeschi presenti nella colonna della Tridentina furono determinanti per uscire dalla sacca: ricognizione aerea per scoprire quali fossero le località meno presidiate; rifornimenti di carburante, munizioni e viveri; collegamenti con il Comando dell’8a Armata resi possibili da una radio efficiente; semoventi controcarro e cannoni d’assalto che permisero ai battaglioni alpini di affrontare, pur a prezzo di perdite notevoli, gli sbarramenti di carri sovietici.
Se è verosimile che il XXIV Corpo Corazzato germanico non sarebbe mai uscito da solo dalla sacca e debba la sua salvezza ai reparti alpini che consentirono il suo transito nelle retrovie del Corpo d’Armata medesimo, è altrettanto probabile che quest’ultimo non avrebbe oltrepassato, senza il contributo tedesco, neppure lo sbarramento di Postojalyj.
Alessandro Massignani, Alpini e Tedeschi sul Don
Gino Rossato Editore – Novale, Valdagno (VI) – 1991