di Patrizia Marchesini

 

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 Rimini, 21 febbraio 1919 – Cologne Bresciano, 3 settembre 2012

 

[...] Andare, andare chissà dove tra voli di farfalle e frinire di cicale.
Andare e non ascoltare la voce degli uomini,
non sentire il sonno della vita,
non i passi dell’addio fra strapiombi di nuvole.
- Nelson Cenci, Quando scende la sera (raccolta di poesie) -

 


 

Sottotenente della 55ª Compagnia del Battaglione Vestone (Divisione Tridentina), Nelson Cenci fu ferito gravemente a entrambi gli arti inferiori il 26 gennaio 1943, a Nikolaevka.

L’intervista ripercorre alcuni tra i momenti più importanti nella vita del professor Cenci, otorinolaringoiatra di chiara fama, scrittore e poeta: l’infanzia sull’Appennino tosco-romagnolo, gli studi iniziati, interrotti e ripresi dopo il rimpatrio, la decisione di arruolarsi volontario, la vita militare... Cenci delinea inoltre il suo rapporto con le nuove generazioni e ci parla del suo legame con la poesia, presenza tangibile nella natura e bisogno profondo dell’uomo.

D'accordo con la figlia di Nelson, Giuliana, riproponiamo questa bella testimonianza (in precedenza pubblicata nel sito www.centoventesimo.com, da qualche tempo inattivo).

 


 

 

L'INFANZIA, GLI STUDI, IL MONTENEGRO... E ALCUNE RIFLESSIONI SULLA CAMPAGNA DI RUSSIA

 

7 novembre 2011

 

Arrivo in Franciacorta sotto la pioggia.

Il professor Nelson Cenci è alto e asciutto. Indossa un maglioncino azzurro e la sua voce roca e calda crepita d’autunno, di foglie d’oro e ruggine. Sediamo in due poltrone davanti al camino acceso.

 

Lei è nato a Rimini e ha passato gli anni dell’infanzia in due piccole frazioni sull’Appennino romagnolo. Che ricordi serba di quel periodo? 

Penso spesso alla mia infanzia perché, come lei sa, i momenti che si ricordano più volentieri sono proprio quelli della fanciullezza. Fino all’età di due anni rimasi a Rimini. Poi, siccome la mia mamma era una maestra elementare e aveva trovato un posto sull’Appennino tosco-romagnolo, ci trasferimmo in quei luoghi. Il primo paese dove andammo a vivere si chiamava Pietrapazza. D’inverno scendevano quattro metri di neve. In seguito ci spostammo in un’altra località, Monte Iottone, dove vissi fino a dodici anni. All’inizio frequentai la stessa scuola in cui insegnava mia madre; in seguito, però, fui costretto a cambiare scuola perché all’epoca esisteva una legge che vietava a un alunno – dopo la terza elementare – di stare nella stessa scuola in cui insegnava il genitore. Per raggiungere la nuova scuola, a Santa Sofia, percorrevo sei chilometri all’andata e sei chilometri al ritorno. Di recente sono tornato a Santa Sofia e ho incontrato una mia compagna di scuola che non vedevo da ottant’anni. La vita sull’Appennino mi piaceva. La gente era buona, semplice, brava; in montagna le persone si aiutano.

A dodici anni – siccome i miei genitori erano separati e mio padre viveva a Milano – mia madre pensò di mandarmi da lui. Voleva che studiassi meglio. Pensi che a dodici anni facevo ancora la quinta elementare.

Mi caricò sul treno, affidandomi a una signora, e arrivai a Milano. Rifeci la quinta. Poi mio padre trovò un frate che gli disse: “Questo bambino è intelligente, deve studiare.” Frequentai il liceo e, dopo la maturità, mi iscrissi alla facoltà di medicina.

 

Intrapresi gli studi universitari, li interruppe per arruolarsi volontario. La richiesta di essere assegnato a un reparto alpino derivò dal suo grande amore per la montagna? 

Allora noi giovani vivevamo in un clima molto diverso da quello attuale, avevamo ideali differenti. Andai volontario anche perché molti miei compagni di università – iscritti a legge o a ingegneria – avevano fatto quella scelta. Pensai fosse mio dovere. Persino Don Gnocchi, che all’epoca insegnava al Gonzaga, si arruolò volontario per seguire i suoi allievi.

Chiesi di andare negli alpini proprio perché ho sempre amato la montagna. Da giovane facevo delle gare.

 

Lo so. 

Come fa a sapere queste cose?

 

Ho cercato di documentarmi. So che arrivò decimo ai campionati nazionali di discesa libera a Bormio. Vorrei chiederle, però, qualcosa del periodo trascorso in Montenegro, con il Battaglione Val Fella. 

Il Val Fella faceva farte del I Gruppo Valle della Julia. La Divisione, quando io arrivai là (nel luglio 1941, n.d.r.), stava rientrando dalla Grecia. Il ricordo più bello è legato a Don Gnocchi, perché proprio allora lo conobbi; con lui avevo un bel rapporto. Di quel periodo rammento anche episodi tragici. Devo dire che quei popoli hanno una ferocia che noi non abbiamo. I partigiani catturarono due camion di alpini. Erano nuove reclute. Andammo a cercarli per i monti. Li trovammo nelle buche del letame, con... le... cose in bocca.

 

Vuole dire che li avevano evirati?

Sì, li avevano evirati e poi avevano infilato tutto in bocca. Quella gente era molto diversa dai Russi. Questi ultimi erano brave persone. In Montenegro, comunque, rimasi – da sergente – solo sei mesi. Nel gennaio 1942 rientrai in Italia e andai a Bassano per concludere il corso allievi ufficiali.

 

Rigoni-Stern, nell’introduzione a Ritorno, afferma che ricordare certi eventi – oltre a essere un dovere morale – aiuta a comporre un mosaico di testimonianze diverse, utili a integrare le “relazioni dello Stato Maggiore”, come lui le chiama. Per lei dal rievocare la Campagna di Russia nasce (e, a distanza di così tanti anni, si rafforza) la consapevolezza di quali siano i valori umani fondamentali: libertà, giustizia, benessere, fratellanza, condivisione.

Noi sopravvissuti abbiamo il dovere di raccontare quanto accadde affinché tutto ciò non capiti mai più. D’altra parte penso che le grandi tragedie – non solo la guerra, ma anche le calamità naturali – contribuiscano a unire gli uomini e a farli tornare fratelli. Lei ha citato Rigoni e vorrei ricordare una cosa che lui scrisse: “Un giorno abbiamo avuto fame, abbiamo sofferto il freddo e siamo tornati in pochi. Oggi le nostre case sono calde, le nostre tavole sono piene di cibo. Stiamo bene, ma ricordiamoci di quanto è stato.”

Il nostro dovere è raccontare ai giovani. E forse, raccontando, portiamo una forma di conforto ai parenti degli scomparsi.

Dobbiamo raccontare. L’altra sera ho guardato un documentario sulla Grande Guerra. Ci furono 600.000 morti. E ormai, quei poveri morti, non li ricordiamo né li onoriamo, se non in rare occasioni.

Il ricordo del passato è importante: per questo vado volentieri nelle scuole. Credo che abbiamo una bella gioventù... lasciamo perdere le notizie che ogni tanto si sentono in televisione. Abbiamo dei bravi giovani, che vanno presi un po’ per mano. Di recente sono stato a parlare con cinque classi di un liceo. Erano interessati, volevano sapere. Di solito, alla fine di questi incontri, vengono a salutarmi e a ringraziarmi per tutto quanto ho detto.  I giovani sono partecipi, se sappiamo coinvolgerli.

 

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Un giovane Nelson Cenci in divisa

 

Il problema è che di solito sui testi scolastici di storia vi è pochissimo sulla Campagna di Russia.

Da questo si possono trarre tante riflessioni. Sa cosa ho detto ai ragazzi delle scuole? Una cosa che – mi rendo conto – può essere considerata impopolare: ho sostenuto che un servizio civile (oppure militare) dovrebbe essere obbligatorio per i giovani di entrambi i sessi. Dovrebbe avere durata non inferiore ai sei mesi. Con tanto di divisa e con la possibilità di essere richiamati in caso di necessità specifiche, per esempio qualora si verificassero calamità naturali. Questo perché la società ha bisogno dei giovani; e loro, alla società in cui vivono e in cui vengono educati, debbono molto. Molti di quei ragazzi alla fine sono venuti a dirmi che ho ragione.

E poi, già che parliamo di rendersi utili, come medico auspico che ogni cittadino, almeno una volta nella sua vita e dopo adeguati controlli clinici, debba obbligatoriamente fare una donazione di sangue. Un gesto semplice e generoso, che significa solidarietà. Perché, qualunque sia il nostro pensiero, da qualunque stirpe proveniamo, c’è la condivisione dello stesso destino. Donare il proprio sangue è un segno di altruismo che – mi creda – può farci sentire davvero appagati.

 

Lei racconta in terza persona: un modo per distaccarsi dal soggettivo... traspare comunque in ogni pagina il legame forte che la unisce a tutti quanti divisero con lei quell’esperienza.

Ciò che ho scritto non è tanto la mia storia, ma quella dei miei alpini. La storia di un plotone di quaranta uomini che si è trovato in mezzo alla tragedia. Ho cercato di essere distaccato perché con un punto di vista soggettivo mi sarebbe sembrato di incensarmi. In fondo io non ho fatto niente... o meglio, quello che ho fatto io l’hanno fatto anche gli altri.

In realtà, appena tornato e al contrario di molti reduci, volevo dimenticare. Per anni ho scritto soltanto di medicina.

Un giorno, però – ero in montagna –, vidi la neve scendere e mi pareva coprire i corpi dei tanti amici che non erano tornati. Mi venne il desiderio di raccontare, non con ambizioni da letterato, ma con parole semplici. Così iniziai a scrivere...

 

LA PARTENZA, I COMBATTIMENTI A KOTOVSKIJ E LA SISTEMAZIONE A KRASNAJA DAČA

 

Nel gennaio 1942 rientrò in Italia e concluse il corso ufficiali a Bassano. Nel luglio di quello stesso anno partì per la Russia, come sottotenente – comandante un plotone della 55ª Compagnia del Battaglione Vestone (6° Reggimento Alpini, Divisione Tridentina).

Le racconto una cosa. Un alpino, che fu per un certo periodo il mio attendente, una volta giunti in Russia mi disse: “Signor tenente, sono andato a trovare la mia mamma, prima di partire. E lei mi ha chiesto: «Ma la Russia è molto lontana?» Io le ho risposto che è molto distante. Allora mia madre ha detto: «Fai così. La notte, quando vedrai la luna, pensa che la mamma in quel momento prega per te.»”

 

Quell’alpino era Rossi?

Sì. Pochi di noi riuscirono a tornare. Chissà, forse ce l’abbiamo fatta grazie anche alle preghiere delle mamme. Eravamo giovani e per molti quella partenza era un’avventura. C’era anche curiosità, nell’andare in un Paese così lontano dal nostro. Viaggiammo in tradotta per 15-20 giorni, poi iniziammo a camminare.

 

Il primo settembre 1942, nei pressi di Kotovskij, affrontò i Sovietici in combattimento per la prima volta. Lo scontro le fu in qualche modo utile, se non erro... perché nei giorni successivi insegnò ai suoi uomini a imbracciare il fucile mitragliatore nello stesso modo in cui i Sovietici imbracciavano il loro parabellum. Vuole ricordare qualcosa? 

Noi avevamo un fucile mitragliatore molto pesante. Gli alpini lo chiamavano cavrina, cioè la capretta. Di solito lo si utilizzava sdraiandosi a terra. Ma noi avevamo imparato a usarlo tenendolo a tracolla, come facevano i Russi con il loro parabellum. Quel primo scontro all’inizio di settembre ci rivelò subito, purtroppo, che le nostre armi erano inferiori a quelle sovietiche. Il fucile ’91 sarà stato anche preciso, ma sparava sei colpi. Non aveva certo un gran volume di fuoco.

Di là ho un parabellum. Dopo glielo mostro. Me l’ha regalato un alpino di queste parti che ha un piccolo museo. Ne ha regalato uno anche a Vicentini.

 

Prima di arrivare alla posizione definitiva, foste costretti a scavare più volte camminamenti e rifugi. Alla fine dove vi fermaste? Se non erro in un villaggio chiamato Krasnaja Dača. 

Sì, abbiamo cambiato posizione più volte. Arrivammo a Dača in novembre. In quelle postazioni erano stati prima gli Ungheresi, poi la Julia, che venne spostata a sud quando giungemmo noi della Tridentina. Pensi che, anni dopo, ho rintracciato il figlio del tenente della Julia cui diedi il cambio a Dača.

 

Come interpreta il fatto che la Julia venne dislocata più a sud, e la Tridentina andò a occupare il suo posto? Nel libro dice che non lo ha mai capito. 

Ancora oggi non me lo spiego. Ma per noi fu una fortuna perché, in seguito, alla Julia toccò spostarsi ancora più a sud (il suo posto nello schieramento alpino fu preso dalla Divisione di fanteria Vicenza, n.d.r.) e fu coinvolta in durissimi combattimenti, a partire da pochi giorni prima del Natale 1942. Noi, invece, in quel periodo, subimmo solo azioni di pattuglia, in alcuni casi pericolose. Fummo sottoposti ad attacchi pesanti  soltanto dal 13 gennaio in poi, fino al momento di ripiegare.

 

Il freddo aveva – tra le conseguenze – quella di bloccare il funzionamento dei fucili mitragliatori. Anche Lelio Zoccai, che ho incontrato di recente, lamenta questo difetto. Mi ha detto che il liquido lubrificante dell’arma gelava, e che avevano provato a sostituirlo con il petrolio, ma non era il rimedio giusto. Lui afferma che, dopo una raffica, l’arma iniziava a sparare bene. Voi – a quanto pare – avevate trovato un altro espediente. 

Come lubrificante i miei alpini utilizzavano il grasso anticongelante, quello per i piedi.

 

Quanti fucili mitragliatori avevate?

Ogni soldato aveva il ’91; l’ufficiale aveva in dotazione il ’91, ma un modello un po’ più corto, e la pistola; ogni squadra – in un plotone c’erano tre squadre – aveva anche un fucile mitragliatore, anche se io ero riuscito ad averne uno in più. Quindi, ogni plotone poteva contare su tre-quattro fucili mitragliatori.

 

Ma questo grasso anticongelante era efficace, per proteggere i piedi? 

Non tanto. Il problema furono i chiodi nella suola degli scarponi. Perché attraverso i chiodi passava l’umidità e questa favoriva i congelamenti.

 

Mentre era in linea, fu mandato a Podgornoe per un corso di tre giorni sulle prime cure da fornire ai feriti. Raggiunse quel centro abitato con gli sci e, durante il tragitto, si fermò presso un’isba, dove vivevano due donne non più giovani: le trovò simili per tanti versi alle mamme italiane. 

Fu un incontro significativo. Le donne russe – soprattutto in seguito – aiutarono molto i soldati italiani. Forse nella speranza che qualcuno – a sua volta – aiutasse i loro figli arruolati e lontani. Ho un caro ricordo di quelle due donne che, se ha letto il libro lo saprà, mi diedero da mangiare anche all’inizio della ritirata quando, con i miei uomini, ripassai da lì, diretto sempre a Podgornoe. Le racconto un episodio. Tornai in quei luoghi nel 1991-’92. Con me c’era Ferruccio Panazza che all’epoca della Campagna di Russia era nell’artiglieria alpina. Ci fermammo ad Arnautovo, dove lui – allora – venne ferito, e soccorso da una ragazzina russa che aveva circa quattordici anni. Durante la sosta ad Arnautovo, Panazza riconobbe i posti e trovò quella ragazzina, ormai diventata nonna. Si abbracciarono. L’isba della donna si trovava in campagna, era un’abitazione vecchia. Al cancellino della recinzione esterna era appeso un cartello: “Qui abita Vasilij, un eroe della Patria”. Vasilij era l’uomo che quella donna, in seguito, aveva sposato; aveva combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale, ma ci accolse con calore e passammo il pomeriggio bevendo vodka e raccontandoci le rispettive esperienze di allora. Una volta lasciata l’isba feci alcune considerazioni: spesso si uccide un altro essere umano per vendetta o per odio, ma questi sentimenti non albergavano nell’animo delle nostre truppe in Russia. Pensai che non riuscivamo a volere la morte di qualcuno che non conoscevamo, qualcuno che – come Vasilij – in momenti diversi sarebbe potuto diventare nostro amico. L’uomo, però, può uccidere per difendersi e noi – allora – l’abbiamo fatto per salvarci e tornare alle nostre case. Meditando su questo, sperai di non avere tolto la vita a nessuno, durante la mia permanenza in Russia.

 

Riallacciandomi alla domanda precedente, l’incontro con quelle due donne è spunto di riflessioni sulla sua vita personale... è un filo conduttore piuttosto evidente, in Ritorno: una madre russa diviene sua madre, la neve russa è la neve calpestata tante volte sulle nostre montagne. I ricordi di casa si frammischiano in continuazione con le esperienze vissute al fronte. C’è il legame fortissimo con le proprie radici e, direi, un altrettanto forte istinto di sopravvivenza per far sì che quelle radici continuino a far parte della sua vita. 

Sì, le mie radici sono sempre state importanti. Per questo desideravo tanto tornare a casa. È un desiderio che anche tutti i miei alpini condividevano. Ce l’ho fatta, a tornare. Ma quando un uomo torna dalla guerra, quando vive certe esperienze, torna cambiato. Troppi dolori segnano, e io non volevo più sapere niente, volevo dedicarmi allo studio e basta.

 

Nelle prime pagine del libro racconta dell’amicizia con il tenente Sarpi, della sua stessa Compagnia; nel leggere quelle righe si avverte un presentimento di disgrazia. Il tenente, infatti, fu poi ucciso da una raffica di parabellum la notte tra il 31 dicembre ’42 e il primo gennaio ’43. Ha solo raccontato le cose in una certa maniera, oppure già allora, quando aveste l’occasione di parlare per l’ultima volta, ebbe la sensazione che non vi sareste più rivisti? 

Un po’ di consapevolezza c’era. Eravamo in guerra, i Russi erano in linea di fronte a noi, e quindi il rischio era innegabile. Però io non ho mai pensato di morire, e forse neppure Sarpi. Noi ci conoscevamo da prima, eravamo molto amici. Dopo il rientro dal Fronte Orientale, andai nei luoghi di cui tante volte avevamo parlato. La sua scomparsa fu un dolore grande. Ma, tornando alla sua domanda, non pensavamo di dover morire. Solo una volta io ho avuto davvero paura di non farcela: mi trovai in mezzo ai proiettili traccianti. Sembrava mi venissero addosso.

 

Subito prima del ripiegamento, gli attacchi dei Sovietici verso le vostre linee si fecero sempre più insistenti. A un gruppo di fanti e al loro ufficiale, appena giunti con i complementi e inviati a darle una mano, non concede un giudizio positivo. Vuole raccontare come andarono le cose? 

Non fummo circondati perché per fortuna venne il tenente Buogo a darci manforte. Quei complementi della fanteria... cosa vuole, forse possiamo giustificarli pensando che erano appena arrivati in Russia, non sapevano bene cosa fare.

 

Quindi... se ne andarono? 

Sì. Lasciarono il loro posto. Pensi che mi hanno regalato un libro in cui viene descritto quell’episodio. Parla di un’ufficiale in Russia, comandante di plotone. Essendo minacciato e trovandosi tra due postazioni italiane, se n’era andato con i suoi soldati.

 

Ma quei complementi di che Divisione facevano parte? 

Mah. Non ricordo, o forse è meglio non ricordare.

 

Quando giunse l’ordine di ripiegamento, tra le poche cose che infilò nello zaino c’erano anche due fotografie delle montagne che lei ama tanto. Nel libro parla più volte del Cervino. È poi riuscito nel suo intento di scalarlo? 

Sì. Sono riuscito. Dalla parte di Cervinia, dove andavo spesso.

 

IL RIPIEGAMENTO – PEPPINO PRISCO E MARIO RIGONI STERN

 

Iniziò la ritirata. Secondo lei l’allenamento acquisito in passato con lo sci e con il canottaggio la favorì in qualche maniera? O si trattò di pura determinazione a ritornare a casa? Lei ne parla più volte, di questa sorta di testardaggine, del rifiuto di piegarsi agli eventi nonostante la situazione drammatica. 

L’allenamento dovuto agli sport che avevo praticato prima di arruolarmi fu di sicuro essenziale. E poi eravamo giovani, avevamo vent’anni o poco più. Inoltre, appartenendo a un battaglione alpino, eravamo abituati a sopportare le fatiche e lunghe marce in montagna, con il freddo. L’addestramento ricevuto ci aiutò senz’altro, forse eravamo un po’ più sportivi degli altri. Però, è vero... c’era anche questa ostinazione a volere tornare a tutti i costi.

Quando iniziò il ripiegamento io rimasi di retroguardia. Sarei dovuto restare sulle posizioni per cinque ore, ma dopo tre ore diedi ordine agli uomini di muoversi.

Era troppo freddo e non sarebbe servito a niente. Noi, di retroguardia in quel settore, eravamo in quaranta sparsi sul fronte di una Compagnia. A Podgornoe ci riunimmo al Battaglione. Lì rividi anche Don Gnocchi che ci diede la benedizione. Poi cominciarono i combattimenti per uscire dalla sacca.

 

A un certo punto lei parla di voci sulle perdite enormi subite dalla Julia e dalla Cuneense a Novopostojalovka. A quanto so, proprio la mattina del 20 gennaio la radio della Cuneense riuscì a collegarsi per l’ultima volta con il Comando di Corpo d’Armata e il generale Battisti riferì l’assoluta necessità di mezzi corazzati per superare lo sbarramento di Novopostojalovka. 

Noi della Tridentina seguivamo itinerari diversi. Ora non ricordo chi mi disse che la Cuneense e la Julia erano state distrutte. Né perché ritenni quelle voci fondate. Radio Scarpa funzionava. Tutto qui.

 

Alcune pagine dopo descrive la consapevolezza angosciosa di sapersi accerchiati. Aggiunge anche qualcosa sulla possibilità che Valujki fosse già in mano sovietica. Che lei sappia furono fatti tentativi concreti per avvisare le altre Divisioni del Corpo d’Armata Alpino – dirette verso quella località – di cambiare itinerario? 

Penso che in quel momento fosse difficile sapere quanto sarebbe successo. Si tentava quella che si credeva potesse essere la via migliore. A essere sincero... io, comandante di plotone, in quei giorni sapevo soltanto che ogni mattina si partiva con la speranza di spezzare l’accerchiamento. E la sera, quando ci contavamo, mancava sempre qualcuno. Il giorno dopo ci indicavano quale direzione tenere e noi andavamo avanti.

 

Se n’è parlato molto, dei rapporti fra Tedeschi e Italiani durante il ripiegamento. Ha qualche episodio da raccontare al riguardo? 

I miei soldati forse avrebbero potuto raccontare qualcosa. L’unico episodio che ricordo riguarda una sera: alcuni Tedeschi non volevano farci entrare in un’isba. Ci fu un po’ di  disputa e alla fine un mio alpino li sbatté fuori. Non c’erano buoni rapporti, ma personalmente non ho mai avuto contatti particolari.

 

Una notte, mentre con i suoi uomini riposava in un’isba, per combinazione bussò alla porta un amico, conosciuto alla Scuola Centrale Militare di Alpinismo ad Aosta: il sottotenente Peppino Prisco, uno dei pochi superstiti del Battaglione L’Aquila, divenuto poi avvocato nonché dirigente dell’Inter. Che tipo era? Ricorda una sua qualità peculiare? 

Siamo rimasti molto amici, Peppino e io. L’unica cosa che ci divideva – se così si può dire – era il tifo, perché io sono sempre stato milanista. Guardi, le mostro una foto dove siamo insieme. (La fotografia è su un cassettone nella stanza, n.d.r.) Quella volta, durante la ritirata, Peppino passò la notte nell’isba con noi e parlammo tanto. Era un grande uomo. Tra le sue doti c’era la capacità di parlare molto bene ai suoi alpini, ai quali era legatissimo. Se lei va in Abruzzo tutti sanno chi è il Peppino Prisco. E poi era un bravo ufficiale, si meritò la medaglia d’argento.

 

Anche lei. 

Sì, va be’. (Fa un gesto con la mano per minimizzare.)

 

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Latina, 2009 – Adunata nazionale alpini
Nelson Cenci, a sinistra, e Carlo Vicentini, a destra

 

Oltre a Prisco, sembra superfluo ricordare il suo rapporto con Mario Rigoni Stern. Di lui si è detto e scritto tanto. Vorrebbe tracciarne in poche parole un ritratto suo personale? 

Con Mario Rigoni Stern avevo una di quelle amicizie rafforzate dall’avere condiviso le stesse sofferenze e, prima ancora, gli stessi sogni e le stesse illusioni. Sapevo di potere contare su di lui per qualunque cosa. Un’amicizia nata in circostanze simili è per forza un sentimento molto profondo. Quando ho perso Mario, è stato come perdere una parte fondamentale della mia vita. Sono andato due giorni fa ad Asiago perché sarebbe stato il suo novantesimo compleanno. Lì ho trovato il regista Ermanno Olmi. Questa è una cosa che forse non sa: dal libro di Rigoni Stern era stata ricavata la sceneggiatura per un film. Purtroppo la casa cinematografica fallì e non se ne fece più niente.

 

Sulla Campagna di Russia non è che ci siano molte opere cinematografiche. 

C’è pochissimo. Ad Asiago ho chiesto a Olmi: “Allora, quella sceneggiatura?”, ma lui ha risposto che ormai il film non verrà più realizzato.

 

Quando si è così legati a una persona, ci si può permettere – come succede tra fratelli – di evidenziarne in maniera affettuosa sia le qualità positive sia quelle negative. La domanda provocatoria, quindi, è: Rigoni Stern aveva un difetto? 

Aveva idee politiche tendenzialmente diverse dalle mie. (Sorride.) Ma questo non significa nulla, perché prima di tutto veniva l’amicizia. Nonostante il passare del tempo, continuavamo a vederci una o due volte l’anno e per Natale ci incontravamo sempre. Ricordo che nel 1954, dopo avere vinto il Premio Viareggio e avermi scritto una lettera – che conservo ancora, naturalmente – venne a trovarmi a Milano. All’epoca erano già nate le mie due figlie. Accendemmo il fuoco nel camino, stappammo una vecchia bottiglia di vino e ricordammo il passato. Adesso glielo faccio vedere, Mario Rigoni. (Mi mostra un’altra foto, presa sempre dal cassettone, e scattata ad Asiago, n.d.r.)

 

IL FERIMENTO A NIKOLAEVKA E L'OSPEDALE DI HAR'KOV

 

Mi piace molto la sua descrizione di Nikolaevka. Senza alcuna retorica, senza enfasi particolare. L’ennesima battaglia dopo le tante già sostenute. 

Non fu diversa, in fondo. L’unica differenza, rispetto agli scontri avvenuti nei giorni precedenti, fu che quella battaglia cominciò un po’ più tardi, come orario. Questo perché il 5° Reggimento alpini aveva incontrato resistenza ad Arnautovo e fummo costretti ad aspettare per avere forze sufficienti. Io fui ferito subito e quindi posso dirle poco, in realtà, di quella giornata. Fu comunque una battaglia in cui vinse la massa, non tanto l’armamento. Fu la massa, a sfondare, con o senza armi, con i piedi avvolti nei pezzi di coperta. Sono tornato, anni dopo, a Nikolaevka. E ho visto la chiesa in cui mi ricoverarono.

 

A Nikolaevka fu ferito a entrambe le gambe. Stranamente parla di un certo benessere e di una gran voglia di riposare. Cosa ricorda di quei primissimi momenti, quando l’avevano sistemata dentro un sacco a pelo, su una slitta? 

Il benessere era una conseguenza del freddo. Con quelle temperature era molto pericoloso stare sdraiati sul terreno. La neve, dopo poco tempo, sembrava un cuscino soffice e veniva voglia di addormentarsi. Di lasciarsi andare per sempre. Questo un po’ mi conforta. Penso che quanti sono rimasti là non abbiano sofferto più di tanto, proprio per questo effetto del freddo. Io sono venuto ad abitare qui, nella Franciacorta, perché qui abitavano i miei alpini... quelli che mi hanno salvato. Sono venuto qui perché, dopo tanti anni, mi sembrava giusto invecchiare con loro. Purtroppo ormai non ci sono più. Vado a trovarli, al cimitero.

 

Lancini. Mi parli di lui. 

Era una brava persona. Qui lavorava la campagna. Questa gente semplice e buona ha bisogno in certi casi di essere guidata. Quando andai in Russia ce n’erano di quelli che erano già stati in guerra, più vecchi di me. Alcuni erano già sposati e avevano figli. Io in fondo ero un ragazzo. Ma quando si accorsero di come mi ero legato a loro e che li avrei aiutati per quanto possibile... diedero tutto. Gente così ti darebbe anche la vita.

 

Lancini.  Dopo che lei venne ferito, una volta riuscì a dissetarla in modo particolare.

(L'episodio si trova a pagina 91 del libro Ritorno, n.d.r.)

Mi fa commuovere.

 

Allora passiamo ad altro, non voglio addolorarla. Lancini trainò la slitta su cui lei giaceva – ferito – sino alle nuove linee italiane. Poi, con un camion, raggiunse Har'kov, dove la operarono. 

In una gamba ebbi la frattura del femore, se fossi stato colpito poco più su non sarei tornato. Nell’altra gamba avevo la rotula rotta. All’ospedale di Har'kov incontrai il mio capitano, Beppo Signori. Capitammo in due brande da campo vicine. Ricordo che cantava sempre:

 

Siamo i figli della steppa
e cantiamo quando in ciel spunta la luna.
Se la notte invece è bruna
la canzone ci si soffoca nel cuor.

 

L’aveva inventata lui.

 

Nel libro lo descrive come un tipo un po’ burbero. 

Era già stato in Albania, Era decorato di tre medaglie d’argento, e sapeva cos’era la guerra. Lui morì a Har'kov, quando stavano per caricarlo su un camion diretto alla stazione, da cui era in partenza l’ultimo treno ospedale. Lo seppellirono nel cimitero militare di quella città. Quando il cimitero venne esumato da Onorcaduti, negli anni ’90, e i suoi resti arrivarono in Italia, andai a riceverli. In quell’occasione incontrai il figlio, che all’epoca della Campagna di Russia era piccolo.

Il mio capitano è stato poi sepolto nella tomba di famiglia, in Valstagna, ai piedi dell’altopiano di Asiago. Ci passa il Brenta, vicino. Sono andato varie volte, a trovarlo. E ho parlato anche con i ragazzi delle scuole. Pensi che quando Beppo Signori morì, i barellieri tornarono indietro per prendere un altro ferito. Quel ferito ero io. Presero me perché ero il più vicino alla porta della stanza in cui ero ricoverato. Riuscii a salire sull’ultimo treno ospedale in partenza da Har'kov, prima dell’arrivo dei Russi.

 

Chi era “sorella siringa”? 

Era una crocerossina sul treno ospedale. L’avevamo soprannominata così. Aveva un viso normale, a dire il vero, ma a noi soldati sembrava bellissima, dopo tanto tempo senza vedere una donna. Per noi era stupendo guardare di nuovo un sorriso femminile. La consideravo un angelo. Ho scritto anche una piccola poesia, per lei e per tutte le crocerossine. Ora non ricordo, però, in quale dei miei libri sia.

 

IL RIENTRO E LA CONVALESCENZA A LOANO

 

Sul treno che la riportava in Patria ebbe modo di pensare... c’era il ricordo di tanti che non ce l’avevano fatta, c’erano incertezze ma soprattutto progetti per il futuro, legati anche ad alcune considerazioni sulla guerra. 

Uno dei pensieri ricorrenti era che mi lasciavo dietro quelle cose bruttissime, come se la guerra – in un certo senso – fosse finita. Invece, una volta in Italia, la realtà si presentò ben diversa. Arrivai a Milano poco dopo che la città era stata bombardata. L’altro pensiero costante era la mia intenzione di riprendere gli studi di medicina. Dopo la convalescenza in Liguria andai a Rimini, dove avevo dei parenti. Forse non lo sa, ma Rimini fu bombardata novanta volte. Venne distrutta. Ripresi gli studi ma, come può immaginare, mi trovai un po’ in difficoltà. Mio zio aveva un negozio di stoffe e io andavo ad aiutarlo di tanto in tanto, anche per sdebitarmi, visto che soggiornavo da lui. Un giorno mi disse: “Dovresti fare il negoziante. Vado nel paese vicino a comprare un negozio.” In quel negozio sarei dovuto stare io, ma l’affare non andò in porto. Se le cose fossero andate come sperava mio zio, probabilmente non sarei diventato medico. Continuai a studiare. Mi scoraggiai... i miei compagni che erano rimasti a casa avevano dato esami, erano molto più avanti.

 

La sosteneva, se non sbaglio, una forte motivazione: lei racconta che, dopo quanto aveva passato, il diventare medico significava impegnare la sua vita in qualcosa di importante, per aiutare le persone. 

Sicuro. Tale scelta mi ha fatto vivere accanto alla sofferenza degli uomini. Quando una persona è su un letto d’ospedale è diversa. Forse è in quel momento che si arriva davvero a conoscerne l’animo. Ho lavorato molto all’Istituto dei tumori a Milano e il ricordo che mi addolora di più è quello dei bambini. Speravano che potessi aiutarli, ma io sapevo che non avrei potuto fare niente, se non stare loro accanto. Di fronte a questo senso di impotenza, molto della società di oggi appare vuoto e privo di significato.

 

Ha affrontato questi temi in un libro, Non sei solo. 

Sì.

 

Torniamo al rientro in Patria. Una volta giunto all’ospedale militare di Loano, perse un oggetto, l’unico che le era rimasto a ricordo dei mesi trascorsi in Russia. 

È vero. Arrivati all’ospedale ci si doveva sottoporre alla disinfestazione. Ci fecero spogliare nudi e fui costretto a lasciare il parabellum fuori dalla stanza. Non me ne volevo separare, anche se erano rimasti solo due o tre colpi. Durante la ritirata mi era stato utile. L’avevo preso a un Russo morto, a lui non serviva più. Nel libro ho scritto di averlo preso a un prigioniero, ma pensandoci sono quasi sicuro di averlo preso a un morto. Avevo trovato anche due caricatori. Comunque, uscito dalla stanza della disinfestazione, il parabellum era sparito e non riuscii a trovarlo. Ne fui molto dispiaciuto.

 

A Loano era ricoverato un ufficiale di artiglieria alpina che poi scoprì essere suo conoscente dai tempi del canottaggio all’Idroscalo di Milano. Una persona decisa a vivere, nonostante le gravi ferite. Pronto a ricominciare, con un figlio in arrivo e l’intenzione di recarsi al Rizzoli di Bologna per farsi fare una protesi al posto della gamba amputata. Questo è forse, insieme a Lancini, il personaggio che più mi è rimasto impresso. 

Come lei sa, purtroppo non sopravvisse. In seguito, dopo la dimissione dall’ospedale, incontrai il fratello di quell’ufficiale, a Rimini. Durante la guerra le gallerie del treno che collegavano Rimini a San Marino vennero occupate da persone timorose dei bombardamenti aerei. Gli Alleati bombardarono anche San Marino. Insomma, il caso volle che io incontrassi il fratello di Giampaolo, così si chiamava. Ne aveva sposato la fidanzata e al bambino – che lei aspettava e che nel frattempo era nato – avevano dato appunto il nome Giampaolo.

 

Suo padre venne a Loano a trovarla e si trattenne alcuni giorni. Un papà molto giovane, visto che fra voi c’era una differenza di meno di vent’anni. Un papà che si era arruolato volontario e che, quasi quarantenne, era andato a combattere in Albania. Durante la visita a Loano, suo padre espresse timori e dubbi che – per la censura – aveva evitato di esternare nelle lettere. 

Fu piuttosto critico. Eravamo partiti cantando e tornammo piangendo. Vorrei aggiungere una riflessione. Dopo il rientro dalla Russia e dopo l’8 settembre, ci furono molti dei miei alpini che si unirono ai partigiani. Altri, invece, tennero fede a un giuramento precedente. In entrambi i casi il loro agire fu dettato da amor di Patria. A distanza di tanti anni io non riesco a giudicare questi o quelli non all’altezza della situazione. Bisognerebbe ricordare e onorare gli uni e gli altri, se si vuole trovare una via di pace. Questo, forse, insegna la guerra. Le disgrazie uniscono gli uomini; il benessere e la ricchezza – al contrario – li dividono.

 

GLI ANNI DEL DOPOGUERRA

 

Nell’aprile del 2003 fu ospite della trasmissione televisiva Novecento, condotta da Pippo Baudo. Non l’ho vista, purtroppo. Come venne affrontato il tema Campagna di Russia in quell’occasione?

Abbastanza bene. C’era anche uno scrittore siciliano, autore di un libro... ora non rammento il nome.

 

Si trattava di Alfio Caruso? E il libro era Tutti i vivi all’assalto? 

Esatto. Sarebbe dovuto andare il Peppino Prisco, se ben ricordo. Ma Prisco era scomparso e andai io. Li trovai disponibili. Altre volte partecipai a trasmissioni televisive, per esempio a Porta a porta, per ricordare Don Gnocchi. Comunque quella di Baudo fu una cosa ben fatta. L’unico lato negativo fu il racconto di un avvocato, all’epoca anche lui negli alpini, che descrisse la sua vita nelle retrovie. Parlò di... donne. Non mi sembrò opportuno.

 

Be’, di sicuro qualcuno dei nostri soldati strinse qualche legame affettivo. 

Mah, credo che la cosa fosse possibile solo per quelli nelle retrovie, non certo per noi che eravamo in linea. Ma con Baudo il tema affrontato era un altro... si parlava di ripiegamento, e certi discorsi non mi parvero appropriati.

 

D’altra parte anche lei notò, in occasione del breve corso a Podgornoe sulla prima assistenza ai feriti, che la vita nelle retrovie era un’altra musica. 

Là si dormiva con le lenzuola, in linea non ci si toglieva neppure gli scarponi. Non si dormiva quasi mai, la notte. Per fronteggiare eventuali incursioni avversarie. A dieci chilometri dalla prima linea la vita era diversissima. Non fosse stato per la tragedia del ripiegamento, la loro guerra sarebbe stata tutto sommato facile.

 

Ha accennato a due trasmissioni televisive. Spesso, quando si parla di Campagna di Russia, si parla di alpini. La maggior parte delle persone, purtroppo, è convinta – senza documentarsi – che in Unione Sovietica andarono soltanto gli alpini. 

Ha ragione, e questo è grave. L’ho detto anche durante una riunione recente. Molti non ricordano il C.S.I.R. e i combattimenti cui dovette fare fronte. Per esempio, la Battaglia di Natale del 1941 costò moltissime perdite ai bersaglieri. Quando vado nelle scuole cerco sempre di fare un discorso più ampio, non limitato al solo Corpo d’Armata Alpino. Forse – se il Governo dell’epoca avesse tenuto davvero conto delle difficoltà sostenute dal nostro Corpo di Spedizione – non avrebbero mandato in Russia anche noi alpini. Se poi avessero letto con cura la storia di Napoleone, forse nessun Italiano sarebbe partito.

 

Mi parli del suo ultimo libro, Accanto al camino. Né romanzo né trattato storico, così ho letto. Cosa – dopo tante pubblicazioni importanti – non aveva ancora scritto, cosa ha sentito il desiderio di aggiungere? 

La mia intenzione era scrivere racconti molto brevi... perché oggi non si legge molto. Quindi si tratta di racconti di due o tre pagine al massimo. Sentivo il bisogno di fare conoscere la vita di un giovane di allora. Di ricordare alcune persone per me speciali – Mario Rigoni, Don Gnocchi – e di fare alcune considerazioni senza alcuna pretesa letteraria. Spesso mi soffermo a guardare la natura che ci circonda, e al suo cospetto penso che gli uomini siano una presenza effimera. La vita in fondo è così breve. Quando uno scompare, dopo poco nessuno più lo ricorda. Questo mi porta molta malinconia. A volte penso che – dei miei colleghi all’ospedale – sono l’unico rimasto. Della mia 55ª Compagnia siamo restati solo io e un certo Primo Zambelli che vive sopra Vestone. Chi è che ci ricorda? Chi ricorda il passato, adesso?

 

Mia figlia con candore crudele dice che certi argomenti interessano solo a chi in Russia c’è stato o ai familiari di reduci o scomparsi. 

Il rischio che non si parli più di queste cose c’è. Per questo è fondamentale l’incontro con i giovani. Sono disposti ad ascoltare, dalle domande che mi fanno nelle scuole si capisce che vogliono sapere.

 

04

S. Sofia (FC), 14 giugno 2009
Carlo Vicentini (a sinistra) e Nelson Cenci (a destra)
– Immagine pubblicata su L'Alpino Imolese –

 

NELSON CENCI E LA POESIA

 

Ancora una cosa. Montale, provocatoriamente, disse che la poesia è inutile ma non fa male a nessuno. Di recente ho letto che la poesia “è lì, in mezzo alla vita, come un generoso invito. A volte si concede facilmente, a volte sta in mezzo alla nostra esistenza, come le enormi statue sull’isola di Pasqua di cui non conosciamo assolutamente il significato...”. Lei, autore di poesie, vuole aggiungere una sua definizione? 

Le poesie sono stati d’animo improvvisi. La poesia è in tutto quanto ci circonda, ma bisogna saperla trovare. Sono d’accordo con quanto ha citato. Poesia è un sorriso, o il vento che passa tra gli alberi, o guardare la notte piena di stelle. È anche in noi, in tutti noi, anche nelle persone semplici. Quando venni ad abitare in questo paese, scoprii che uno stradino scriveva poesie. Significa che la poesia è un’esigenza di tutti, perché è importante esprimere le emozioni, raccontare ciò che vediamo o sentiamo...

 

Vorrebbe leggermi una sua poesia? Quella che preferisce. 

Leggerò Amare.

 

Amare è ritrovarti in ogni cosa,
nei fiori che si aprono al mattino,
nel tenero sorriso di un bambino,
nell’azzurro del cielo o in una stella,
oppure scoprirti nella vecchia storia
di un racconto che non ha memoria.
 
Amare, amare, ancora vuole dire
respirar la tua anima e gioire
di una dolcezza tenera e infinita,
sentirsi a volte invece un po’ morire.
È perdersi in un cielo di speranza,
destarsi per saper d’esserti accanto,
avere l’universo in una stanza.
 
Amare vuol dire sfiorare i tuoi capelli,
trasalire ascoltando la tua voce,
sognare ad occhi aperti ma sentire
un desiderio che ti brucia dentro,
la solitudine, l’angoscia di lasciarti,
esser felice e voler soffrire.
 
Amare è consumarsi lentamente,
è camminarti accanto piano piano,
nella vita tenendosi per mano
amare fino all’ultimo respiro,
non avere paura della gente,
amarti, amarti e non chieder niente.
 
Amarti è come perdersi nel nulla,
avere la tua immagine nel cuore,
respirare quest’aria di infinito,
cercare la tua anima smarrita,
asciugarti una lacrima sfuggita,
amarti è dare un senso alla mia vita.
 
Amare è ancora ascoltare il vento
che racconta una favola lontana
di quella sera quando t’incontrai.
Ero un’anima triste e abbandonata
e subito di te m’innamorai.
Amare vuol dire amare, amare, amare.

 

È molto bella. La ringrazio per averla condivisa con me. 

Gliene leggo un’altra, dedicata a lei. (Indica la signora Elsa che in questo momento sta attizzando il camino.) 

Si intitola  Se non avessi... 

 

Se non avessi il tuo nome
che tenero affiora,
se non udissi la tua voce
fugare desolati silenzi,
se non sognassi di ritrovarti accanto,
conterei le ore e, chino il capo,
lascerei che il tempo
mi lacerasse l’anima, che l’onta degli anni
inaridisse il mio corpo
e, in questo deserto cammino,
come in un sogno appassionato,
prono sarei sull’orlo della notte
a cercare conforto.

 

Interviene la signora Elsa: "Io la so a memoria e la recito anche meglio." (Ride.)

 


NELSON CENCI: LE OPERE

 

 

Narrativa

  1. Racconti in prima persona
  2. Ritorno
  3. Stagioni lontane
  4. I grandi silenzi
  5. I giorni della solitudine
  6. Quello che resta in noi
  7. Natali di neve
  8. Il passato che torna
  9. Non sei solo
  10. Accanto al camino

 

Raccolte di poesie 

  1. Pensieri d’autunno
  2. Vagare nel crepuscolo
  3. Cercarsi nel nulla
  4. I giorni del cuore
  5. Quando scende la sera

 

FINE

 

 


 

Nota
Ringrazio di cuore la famiglia Cenci e in particolare Giuliana, figlia di Nelson, per la sollecitudine, il calore e la disponibilità.
Sono grata anche a Giovanni Vinci, direttore responsabile de L'Alpino Imolese, che ha acconsentito con la consueta cortesia alla pubblicazione della terza e quarta foto presenti in questa intervista.

 

 


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