Tratto da
Fronte russo: c'ero anch'io, Volume 1°
A cura di Giulio Bedeschi
Ugo Mursia Editore, Milano, 1982
Testimonianza del sergente Tolmino Massei
– IX Battaglione, 22ª Compagnia Pontieri –
ITALIANI E TEDESCHI
Da Villa Opicina (Trieste), partenza per il Fronte Russo con il Corpo di Spedizione Italiano in Russia; un viaggio lungo ed estenuante fino ai piedi dei Monti Carpazi in treno, poi con i nostri mezzi. Il mio battaglione era dotato di circa quattrocento automezzi, una buona parte di questi requisiti ai civili perciò molti [erano] poco efficienti.
Le prime grane vennero fuori transitando per quei famosi Carpazi; macchine con motori fusi, con balestre rotte ed io con i miei uomini, una quarantina circa addetti ai carri officina pesanti, ci dovevamo fermare a fare le riparazioni e poi, una volta eseguita la riparazione, in marcia per raggiungere il grosso del nostro battaglione.
Si viaggiava giorno e notte con poche ore di riposo ma il vero fronte per noi era ancora lontano. Lungo il tragitto incontravamo lunghe colonne di prigionieri russi scortati da pochi soldati tedeschi; ci sembrava una cosa inverosimile eppure era realtà, quei prigionieri marciavano in senso inverso a noi, ma quelli erano soldati ucraini e gli ucraini di guerra non ne volevano sapere. Dopo parecchi giorni di marcia ci avvicinammo al fronte, si incominciavano a sentire i primi colpi di cannone e così arrivammo a Dniepropetrowski, il primo grande sbarramento.
La città, molto vasta, era tagliata a metà dal grande fiume Dnieper: ci accampammo in mezzo ad un bosco a qualche km di distanza dalla prima linea, eravamo sotto il tiro incrociato delle artiglierie russe da una parte e tedesche e italiane dall'altra; un fuoco infernale giorno e notte per un mese intero. Il fiume veniva attraversato con zattere fatte da truppe di prima linea da soldati tedeschi, ungheresi, romeni e italiani; ma quelle zattere facevano tutte una brutta fine, per la forte corrente del fiume.
Finalmente venne la nostra ora. Il mio comandante di battaglione, maggiore Giuseppe Montaretto di Napoli, si presentò al Comando tedesco dicendogli che noi eravamo in grado di fare il ponte per il passaggio di grosse formazioni; ma con la possibilità di far questo solo di notte, per evitare il massiccio tiro delle artiglierie russe e bombardamenti aerei. Il Comando tedesco restò meravigliato per la decisione del mio comandante e tramite l'interprete gli chiesero se sapeva cosa stava dicendo e le responsabilità che comportava tale decisione; in poche parole iniziammo il lavoro: tutte le sere all'imbrunire facevamo l'avvicinamento al fiume con tutti i nostri automezzi carichi, rimorchi con sopra i barconi e altro materiale; si iniziava il ponte e per le undici di notte era pronto fino alle tre del mattino per il passaggio di truppe, con automezzi carichi di viveri, munizioni ed altro; dalle ore tre fino all'alba ripiegamento del ponte, e via di nuovo in mezzo al grande bosco; e tutte le notti per un mese di continuo sempre la solita musica. Il ponte fu colpito per ben trentotto volte dalle artiglierie russe; io con i miei uomini addetti ai carri officina con varie specialità, motoristi, fabbri, tornitori, elettricisti, falegnami e carpentieri, tutti al recupero del materiale e a costruirne di nuovo in cambio di quello distrutto; si lavorava solo di giorno con qualche ora di riposo.
Mi ricordo un giorno... a poca distanza dai carri officina avevamo costruito delle trincee per ripararci dai tiri rabbiosi delle artiglierie russe, e si trovava vicino a me il povero capitano Munaro di Venezia, combattente della guerra '15-'18 e nell'ultima guerra comandante della 23ª Compagnia Pontieri del IX battaglione; aveva sempre l'elmetto in testa ed ogni proiettile che sentiva fischiare sopra di noi diceva: questo passa. Ma quel giorno un proiettile stava cadendo a poca distanza da noi e il capitano mi disse gridando: «Massei, in trincea!» perché lui aveva sentito il fruscio... come un uccello che si alza da terra; così con un salto a pesce ci buttammo in trincea. Lui, poveraccio, si rovinò tutta la faccia, io restai incolume; ma se non fossimo stati al sicuro facevamo una brutta fine. Però per lui il destino era segnato, come pure per il povero capitano Ciocchi, comandante la 21ª Compagnia sempre del IX Battaglione.
Morirono da eroi, tutti e due insieme, lo stesso giorno; non alla testa del ponte dove erano sempre, ma con le loro Compagnie... in un attacco con la fanteria per poter liberare delle nostre truppe accerchiate nella famosa sacca del fiume Don, dove per noi Italiani iniziò cosi la vera via del calvario.
All'inizio della ritirata io mi trovavo a Voroscilovgrad a parecchi chilometri dalle prime linee perché ero malato di reumatismi; erano otto giorni e otto notti che mi trovavo disteso su un materassino senza potermi muovere. Nelle condizioni in cui mi trovavo in quei giorni, ero assistito da un mio fedele soldato, ossia l'uomo di fiducia che avevo anche come magazziniere del materiale in dotazione ai sopra citati carri officina. Il soldato, di nome Luigi Zanolli di S. Giovanni Lupatoto, un paese appena fuori Verona, un mattino viene da me tutto preoccupato e con una faccia da funerale e mi dice: «Sergente maggiore proprio in questo momento ho visto che cercano tutti di scappare anche da Voroscilovgrad. È incominciata la ritirata», mi dice. «Noi cosa facciamo?»
Io gli consiglio di mettersi in salvo e di non pensare a me perché ormai mi ero rassegnato al mio destino e lui mi rispose che non si muoveva se non andavo anch'io. Per puro caso mi venne in mente che a poca distanza da dove ci trovavamo c'era una Compagnia di Sanità; cosi lo Zanolli si recò dal capitano medico a farsi dare qualche cosa che potesse fare al caso mio. Ritornò infatti con delle pastiglie che dovevo prendere ogni ora, io invece le presi tutte e tre assieme dal momento che non c'erano altre soluzioni.
Dopo qualche ora, malgrado qualche dolore di ventre, incomincio a muovere le gambe, poi le braccia, e cerco di alzarmi... ma non ci riesco; intanto che ero immerso nel tentativo di muovermi vedo arrivare lo Zanolli con una slitta requisita ai civili che abitavano a poca distanza da noi e mi dice: «Sergente maggiore, partiamo anche noi!»
Mi carica con un po' di difficoltà sulla slitta, e via a tirare come un cavallo; dopo qualche chilometro appena fuori dalla città ci mettiamo in colonna con altri soldati anche loro in marcia verso Dniepropetrowsk perché da lì formavano le tradotte per rimpatriarci in Italia. Ma avevamo davanti a noi più di trecento chilometri e per me in quelle condizioni era una meta irraggiungibile. Durante il giorno altri soldati si unirono a noi; avevamo formato una lunga fila e sembravamo formiche nere in fila indiana nella grande distesa bianca coperta di neve e gelo. Verso sera però per noi la situazione peggiorò, il grosso prosegui la marcia ma noi sette o otto in cattive condizioni di salute ci rassegnammo a rallentare il passo e proseguimmo lentamente fino a notte inoltrata in direzione di una spia luminosa in lontananza. Con me c'era sempre il bravo Zanolli che ci incoraggiava; in seguito si era unito a noi anche il sergente Maranzan di Vicenza, sempre del mio battaglione, anche lui di salute non ottima.
Nel frattempo io ero sceso dalla slitta e mi sforzavo di fare qualche passo anche per rendere meno duro il lavoro a chi mi tirava avanti; era una cosa insopportabile per me muovere le gambe, ma per un breve tragitto resistetti. Un bel momento non vidi più fra noi il sergente Maranzan; si era fermato qualche metro indietro e si era appoggiato ad una montagnola di neve che il vento aveva accumulato, con fatica tornai indietro, lo chiamai ma lui non mi rispose, si era già addormentato tutto freddo in faccia; allora lo presi a sberle in faccia per scuoterlo e finalmente si mosse ma non riusciva a camminare; a forza di spinte arrivammo vicino a quel lume acceso che filtrava da una piccola finestra. Era una casetta abitata da due povere donne con due bambini vestiti miseramente, ma nell'interno di quella casa c'era abbastanza caldo, c'era infatti una stufetta a muro che funzionava a carbonella. Ci accolsero con tanta simpatia come poteva fare una mamma, specie vedendoci in quelle condizioni; ci misero subito nei loro letti e ci fecero un buon caffè che avevamo con noi (unica nostra risorsa) e loro due con i bambini si misero a dormire per terra con una semplice coperta distesa sul pavimento. Un gesto che non potrò mai dimenticare.
Alla mattina di buonora ci alzammo e decidemmo di proseguire il nostro cammino, le povere donne insistevano che non ci muovessimo finché eravamo in quelle condizioni perché ben poca strada avremmo potuto fare, ma noi eravamo decisi; lasciammo loro le poche cose che ci erano rimaste nello zaino di oggetti personali per ricompensarle delle premure che avevano avuto per noi e ringraziandole di vero cuore le salutammo. Durante tutto il giorno facemmo poca strada ma sufficiente per arrivare alla linea ferroviaria dove c'erano dei vagoni fermi senza locomotiva in testa. Ma, nella speranza che arrivasse e quello fosse il treno della nostra salvezza, salimmo sopra e passammo il resto della giornata e tutta la notte lì fermi, mezzi congelati.
Al mattino, visto che non c'era speranza di partire, scendemmo da quel vagone, più precisamente un carro bestiame, con il morale a zero. Nessuno di noi aveva il coraggio di riprendere il cammino perché ci era impossibile raggiungere la meta, tanto più che cominciavano a manifestarsi segni di congelamento; io alla mano sinistra, altri ai piedi, malgrado tutti i massaggi con pasta anticongelante che avevamo fatto durante la notte. Finalmente decidemmo di metterci in cammino sempre vicino alla linea ferroviaria che per noi era la sola speranza di trovare qualche treno che ci portasse un po' avanti. Finalmente il nostro sogno si avverò, arrivammo ad un lungo treno ma questa volta era un vero treno con tanto di locomotiva in testa, con guardie tedesche e qualche prigioniero russo a bordo. I diversi vagoni erano tutti chiusi e pieni di polli che portavano in Germania. Arrivammo in testa al treno: al penultimo vagone, tutto scoperto e con due staffette agli angoli, c'era il Comando tedesco formato da quattro sottufficiali e qualche soldato, mentre negli altri vagoni, che erano molti, al posto del frenatore si trovava un soldato tedesco e un prigioniero russo.
Fui proprio io a pregare i sottufficiali tedeschi di farci salire ma non potevo immaginare che lungo il tragitto si verificasse una tragedia: accadde proprio su quel treno che mi riportava al sicuro e maledissi a lungo il momento che vi salii sopra. Dopo un giorno di lenta marcia stavamo sorpassando quella colonna di soldati italiani che ci aveva lasciato due giorni prima perché non si era in grado di proseguire con loro. Quei poveretti marciavano ancora lentamente in fila indiana a poca distanza dalla linea ferroviaria; come videro il treno avvicinarsi si lanciarono su questo come bestie feroci in vista della preda, credendo che quello fosse anche per loro il solo mezzo di salvezza che li avvicinava al posto di concentramento per il loro rimpatrio; ma purtroppo per tanti non fu così, perché mancò loro la forza di restare attaccati ai vagoni, per la stanchezza, la fame, il freddo e caddero sotto il treno, e quei pochi che sembravano saldamente aggrappati furono liquidati col calcio del moschetto dai soldati di guardia che schiacciavano loro le mani sul vagone stesso: cadevano oltre che per la spinta anche per il dolore alle mani. Dal vagone di testa scoperto ove mi trovavo con i miei compagni ho potuto osservare l'ultimo dramma di quei poveri nostri fratelli, ma non potemmo fare nulla per loro; se avessi potuto avrei fatto saltare per aria il treno ben sapendo la fine che avremmo fatto anche noi piuttosto di proseguire in quelle condizioni. Però non demmo la soddisfazione di far capire ai soldati tedeschi che eravamo straziati dal dolore e le lacrime che rigavano il nostro volto le lasciammo credere causate dal freddo e dalla velocità del treno scoperto. Alle vicinanze di Dniepropetrowsk scendemmo senza ringraziare nessuno e senza degnarli di uno sguardo.
Sergente Tolmino Massei
IX Battaglione Genio Pontieri