di Enzo Segalla
Il presente articolo è uscito in data 30 giugno 2013 ne Il Giornale di Vicenza, a pagina 78.
Giugno 2013 - Una delegazione alpina e dell’U.N.I.R.R. del thienese sui luoghi del Fronte Russo. Per non dimenticare...
Visitare il teatro di guerra lungo il Don non è un viaggio per tutti, o meglio non lo è per chi non ha provato il dolore mai sopito della scomparsa di un congiunto disperso o non ha conosciuto, meditato e fatta propria – nel corso della vita – la sofferenza dei nostri soldati impegnati nella Campagna di Russia tra il 1941 e il 1943; non è neppure un viaggio adatto a sperimentare l’emozione di un turismo alternativo per il gusto di calarsi in una realtà sconosciuta. Per chi parte con lo spirito giusto è soltanto l’immersione in una storia angosciosa, un pellegrinaggio nel quale si condivide – a distanza di settant’anni – il destino atroce delle decine di migliaia di giovani strappati alle famiglie per essere catapultati in un ambiente ostile a lottare contro un nemico mai neppure immaginato, contro una potenza soverchiante in armi e in attrezzatura militare, contro gente che lottava per difendere la propria terra.
La visita non ha significato se non si porta con sé la sofferenza di genitori, di spose, di parenti e amici che per una vita intera hanno atteso un segno di vita, un ritorno. Per questo l’U.N.I.R.R. e il capogruppo A.N.A. di Thiene, Giancarlo Binotto, forti del sostegno di un veterano del calibro di Mario Leonardi, alla 35ª presenza a Rossoš’, hanno voluto progettare una spedizione per poche scelte penne nere e alcuni soci rappresentativi della Pedemontana, in anticipo su quella che sarà la prevista invasione organizzata dalle agenzie su Rossoš’ e i dintorni del Don per il prossimo settembre a ricordo del 70º di Nikolajevka.
In volo fino a Mosca, poi si prende il treno di notte sulla linea che va dalla capitale a Soči; quando si tocca Voronež siamo già nel contesto delle operazioni di guerra. Finalmente dopo tredici ore si arriva a Rossoš’; ad attenderci Alim Morozov, classe 1932, un tempo insegnante ed esperto di faccende casearie; oggi – per noi Italiani – inarrivabile e consumato specialista della nostra Campagna di Russia, un vero studioso e professore, competente, equilibrato e soprattutto appassionato e puntuale conoscitore degli eventi che si consumarono nelle lande desolate intorno al fiume Don in quei terribili anni.
La sua accoglienza e disponibilità ci coinvolgono a tal punto che alla fine ci interroghiamo sull’opportunità che le istituzioni italiane facciano qualcosa per assegnare una ricompensa morale a un uomo che ha così ben meritato per la nostra Patria: sua l’idea del museo, che raccoglie pregnanti testimonianze del sacrificio dei nostri soldati, suo l’impegno per i contatti con le autorità russe locali, che hanno consentito agli alpini la realizzazione di quella mirabile opera che è l’asilo di Rossoš’ per 140 bambini, di cui si celebra il 20º anno di fondazione, sua la gestione quotidiana del museo di guerra, suo l’impegno incessante per accogliere e presentare agli ospiti la memoria degli eventi militari e per far rivivere nel teatro bellico le imprese sfortunate delle nostre truppe al fronte. Morozov, con un impegno straordinario, ha impedito che la polvere del tempo avesse il sopravvento, fatica tanto più encomiabile in terra di Russia, dove si è avuto modo di constatare che, a livello storico, la presenza degli alleati dei Tedeschi sul fronte di guerra è considerata sostanzialmente irrilevante e dove gli anziani guardano con stupore all’interesse italiano per i Caduti, mentre i giovani Russi non sanno nemmeno che gli Italiani hanno combattuto sul Don.
Ne è un clamoroso esempio il colloquio informale in un fast food di Mosca con un giovane, tale Aleksej, 24 anni, studente di legge, che ad alcune domande poste ad arte da Gaetano Dal Santo sugli Italiani in Russia, cade letteralmente dalle nuvole; sa invece che sul fronte nemico c’erano Romeni e Ungheresi, i cui governi a guerra conclusa “si sono pentiti, entrando nel blocco sovietico.”
Ma torniamo a Rossoš’ e alla nostra guida. Fra le tante, ci sta a cuore una domanda: “Italiani brava gente” è solo un luogo comune o una verità? Alim risponde con un esempio: “Senza generalizzare, quando nei villaggi passavano gli Italiani la gente non aveva paura, ma quando si avvicinavano i Tedeschi porte e finestre erano sbarrate e anche il cane di casa se ne stava accucciato in silenzio, senza abbaiare.” Non avrebbe potuto essere più chiaro. Il professore, malgrado gli ottant’anni suonati, ci accompagna per quattro giorni intensi in visita ai siti più significativi della lunga linea difensiva sul Don e della ritirata, dalla riva destra del grande fiume fino a spezzare l’ultimo anello della gigantesca tenaglia russa in quel villaggio che fu un tempo Nikolajevka e che oggi si chiama Livenka.
Un agile pullmino ci porta per ottocento chilometri sui percorsi che videro sfilare a piedi i nostri militari; troppo lungo sarebbe enumerare tutte le località attraversate, che si snodano tra balke – ovvero avvallamenti lievi – e leggere ondulazioni del terreno, increspature appena accennate, dalla sommità delle quali, a tratti, lo sguardo può spingersi fino a trenta chilometri di distanza verso una linea dell’orizzonte lontana. Non una macchia d’alberi, non una sequenza di rocce a spezzare il panorama, non una forra dove proteggersi, dove cercare riparo, dove sottrarsi al tiro nemico: mentre il desolato, uniforme paesaggio sfila davanti agli occhi, il pensiero lo immagina coperto di neve nel gelo dell’inverno crudo e irripetibile come fu quello che accolse gli Italiani fra il dicembre ’42 e il gennaio ’43. Siamo in nove, ognuno osserva dal finestrino i campi arati, le vaste colture che si alternano alla steppa selvaggia, nessuno parla, nessuno ha voglia di commentare ad alta voce, eppure il sentimento è lo stesso; solo il professore, a ogni passaggio sulle tappe del calvario, rompe il silenzio, ci indica i movimenti delle Divisioni, dei Reggimenti, dei Battaglioni, ci ricorda i loro comandanti, le direzioni di marcia, le posizioni, gli scontri più cruenti. Impossibile elencare tutte le località, che sono impresse indelebilmente nella storia della Campagna di Russia. Ne citiamo alcune: Belogor’e, Saprino, Semeiki, Podgornoe, Opyt, Postojalyj, Novopostojalovka, Staraja Kalitva, Don, Mironova Gora, Selenyj-Jar, Bogučar. Livenka, Seliakino, Varvarovka, Garbuzovo, Nikitovka, Arnautovo.
Quasi sempre microscopici paesi sparsi nella distesa sempre uguale della steppa; le isbe sono scomparse, i tetti delle casupole dei contadini nei villaggi sono coperte dalla tristezza delle tegole di eternit, mortale omaggio a un improbabile progresso. Nulla ricorda in apparenza la tragedia di settant’anni fa.
Poco lontano dal Don si sale su una collinetta gessosa dalla quale si domina il sinuoso andamento delle anse del fiume: i nostri alpini amavano battezzare le alture con i nomi dei monti patrii. Questa fu chiamata, non senza un pizzico di ironia, “Quota Monte Bianco”; Mario Lucchini e Gaetano Dal Santo trovano sul terreno biancastro un caricatore con una ventina di bossoli; ne raccogliamo religiosamente alcuni: sono munizioni italiane.
Al cartello stradale indicante Varvarovka il cuore ha un sussulto; gli alpini di Chiuppano hanno appena intitolato la sede del gruppo al cappellano militare don Antonio Segalla, medaglia d’argento al valor militare, qui colpito a morte da una granata mentre stava assistendo due feriti su una slitta-ambulanza, qui il suo battaglione – il Morbegno della Tridentina – fu pressoché distrutto il 23 gennaio del 1943. Dalla strada emerge nel verde soltanto la guglia dorata della chiesa, non si scorge né un paese né anima viva sui campi: sembra un mondo perduto. L’immaginazione anima il luogo di colpi sinistri, di spari, di invocazioni e di grida; da qualche parte, in una fossa comune, è sepolto questo “prete con le stellette”; sarebbe bello deporvi un fiore, recitare una preghiera, non sappiamo dove, ma lo sentiamo vicino.
Si prosegue verso Nikolajevka; piove, la terra è diventata una fanghiglia appiccicosa; dei due celebri sottopassaggi della ferrovia, di necessità si sceglie il più lontano dalla stazione; l’altro, quello attraverso il quale è passata la maggior parte della massa di sbandati che ruppero l’ultimo accerchiamento che il Corpo d’Armata Alpino si trovò ad affrontare, non è raggiungibile: frane, sterpaglia, acqua e fango ci impediscono letteralmente di avvicinarci. Abbiamo portato con noi dall’Italia un sacchetto di terra: ognuno ne getta una manciata in tutti i più importanti luoghi della memoria, l’ultimo pugno si apre sopra una delle quattro fosse comuni di Nikolajevka; è il nostro riverente omaggio ai Caduti. Se non hanno potuto “tornare a baita”, sentano almeno sulla loro sepoltura il profumo della loro terra natale.
Toccò alle donne la pietosa opera di raccogliere i morti; al disgelo di primavera lavorarono per tre mesi per comporre nelle balke, poi coperte di terra, le salme dei Caduti. Quanti? Nessuno lo sa con esattezza e nemmeno Morozov se la sente di azzardare cifre.
I nostri soldati riposano in pace sotto una fitta cortina d’alberi. Ciascuno raccoglie dei fiori di campo e li depone accanto alla lapide. Si recita insieme ad alta voce una preghiera: irrigiditi sull’attenti, gli occhi si inumidiscono, il cuore accelera i battiti, l’anima si riempie di tristezza. “Grazie fratelli, non vi dimenticheremo, viva l’Italia” tuona Mario Leonardi con la voce rotta dall’emozione. Ce ne andiamo pensosi. Come è giusto, qui si avvia alla conclusione il nostro viaggio della memoria, questo è l’ultimo appuntamento sulla terra bagnata dal Don.
C’è ancora il tempo per portare a casa un ammonimento dell’amico Alim Morozov: “So che in Italia si celebra con particolare solennità Nikolajevka ed è sacrosanto, ma sarebbe anche opportuno ricordare Novopostojalovka: qui Julia, Vicenza e Cuneense si batterono da leoni con il furore della disperazione; furono trenta ore di battaglia in campo aperto, i Russi avevano preparato una trappola mortale, con uno sbarramento nettamente più forte che a Nikolajevka; in questo luogo, però, non c’è un monumento che ricordi una delle battaglie più sanguinose e determinanti del ripiegamento.”
Le donne raccolsero 1500 salme dei nostri. Si fa ancora una sosta sul terreno dello scontro immane: la spianata si stende a perdita d’occhio, levigata come il tappeto di un biliardo. Chi ha visto la piana di Waterloo, può trarne un rapido parallelo; il luogo ricorda le distese su cui si svolgevano le battaglie campali ottocentesche. Fu una carneficina.
È tempo di tornare, ma ai saluti finali Alim ci riserva una sorpresa: svolge un candido fazzoletto e ci porge una reliquia, un piastrino da riportare in Italia. Fu trovato da un ragazzo nei pressi di Pavlovsk; potrebbe essere appartenuto a un alpino. Ci sono incisi i suoi dati: Fontanella Loreto di Vincenzo e Martello Albertina, classe 1918. In alto un codice: 6528 25 C. Si fa una rapida verifica tramite l’amico Gianni Periz: era un sergente maggiore della Divisione Tridentina. Il comune di origine è Alife nel Sannio, in provincia di Benevento.
Si cercherà la famiglia per restituire un soffio di vita a chi lo ha atteso per tanti anni invano.
Nota
La questione della riconsegna alle famiglie di piastrini militari (rinvenuti e procurati con le modalità più diverse e appartenuti ai nostri soldati), è dibattuta... In questo caso specifico il piastrino non è stato oggetto di lucro o speculazioni economiche, ma vale forse la pena leggere una nota sull'argomento, a corredo di un altro testo già pubblicato nel presente sito.