di Patrizia Marchesini
Si arriva nella zona e da lontano si vedono le croci: una, la più alta, è in ricordo dei prigionieri tedeschi, la seconda è in memoria dei prigionieri ungheresi. Una piccola lapide adagiata su un cubo di cemento ricorda i prigionieri italiani.
Zona battuta dal vento che sale dal Volga: ci vuole immaginazione per pensare il luogo come un cimitero. Però se si è soli, o con persona fidata, si piange a meraviglia.
Valentino Cavinato
Renato era il più piccolo di tre figli, e quasi non conosceva il papà, sempre lontano causa il conflitto in corso.
Aveva tre anni e un mese quando – il 17 ottobre 1942 – il padre partì per il Fronte Orientale, dopo una breve visita alla famiglia.
Classe 1913, 82° Reggimento Fanteria, Divisione Torino, Valentino Cavinato lasciò la sua casa in provincia di Padova senza farvi più ritorno. Soltanto nel 1993 giunse – dal Ministero della Difesa – la notizia del suo decesso, avvenuto il 27 febbraio 1943 nel campo ospedale n. 1691 di Vol'sk.
Lì, nella regione di Saratov, lungo il corso medio-inferiore del Volga, morirono oltre 1.200 prigionieri di guerra italiani.
Renato, ormai uomo maturo, vuole saperne di più.
Legge Dimenticati all'inferno, che descrive l'esperienza di prigionia di Dante Carnevale. Ecco un passaggio relativo a Vol'sk: "Al rientro dal lavoro, sia nei turni di notte che in quelli di giorno, rientravamo al campo inzuppati, sfiniti, scoraggiati e così abbattuti da desiderare veramente la morte, per finirla una buona volta."
Nell'autunno 2015 Renato fa visita a un reduce che ha trascorso parte della prigionia a Vol'sk: questi gli racconta di quando il suo peso si era ridotto a 39 chili, accenna al duro lavoro nelle cave che i prigionieri dovettero affrontare (a Vol'sk, per quanto ne sappiamo, aveva sede anche il campo n. 137), ma non ha mai conosciuto Valentino, già morto prima che lui arrivasse là.
Renato, a poco a poco, prende la decisione: si informa, insiste, scrive, organizza... chiede ai Memoriali Militari russi la documentazione di prigionia del padre, e la riceve.
Approda, così, a una consapevolezza nuova e senza possibilità di appigli, a un dolore vasto, a perdita d'occhio e di cuore... perché il fascicolo – capita di rado – è molto dettagliato ed è sin troppo facile intuire le sofferenze di Valentino nei suoi ultimi giorni terreni.
Infine, nel giugno di quest'anno, Renato parte per la Russia.
Solo.
Rientra in Italia e mi scrive. Racconta che dove aveva sede l'ospedale n. 1691 ora si trova una scuola. Accenna a "un prete ortodosso eccezionale" – Pavel Usov –, che lo ha accompagnato alle fosse comuni... spende parole di elogio per l'autista "affidabile" e di gratitudine immensa per la sua interprete, Anija, che lui chiama "la mia Beatrice" per avergli fatto da guida.
Un particolare della lapide posta dal Ministero della Difesa in ricordo dei prigionieri di guerra italiani deceduti a Vol'sk.
Sopra Renato ha messo un po' di terra italiana e sei sassolini, a simboleggiare le sei persone
(i genitori, la moglie e i tre bimbi di Valentino) che così a lungo hanno atteso notizie.
Parla della visita al Museo di Vol'sk, dove gli viene mostrata una foto che ritrae un gruppo di prigionieri. L'immagine dovrebbe risalire al febbraio 1943 e, una volta a casa, ne invia la scansione a Girolamo Carnevale.
Il padre di Girolamo, Dante, era un brigadiere della 56ª Sez. Motorizzata Carabinieri Reali e come Valentino Cavinato faceva parte – o meglio, era stato aggregato – all’82° Reggimento Fanteria della Divisione Torino.
Era giunto al Fronte Russo solo un mese prima del ripiegamento. Catturato e sopravvissuto alla prigionia – al contrario di Valentino – morì a Pordenone nel 1994, dopo una vita di sofferenze dovute a ciò che aveva subito.
Ricevuta la scansione, Girolamo è consapevole di quanto sia improbabile individuare fra quei militari italiani proprio il padre... ma una voce interiore lo spinge a osservare bene l’immagine, volto per volto. Dopo alcuni secondi lo riconosce, in preda a mille emozioni. È lui... È proprio lui! Magro, e imbacuccato per il gran freddo!
Alcuni prigionieri salutano perché hanno fatto credere loro che la foto verrà inviata alle famiglie. Lo scopo era invece quello di persuadere la Croce Rossa Internazionale e gli alleati che i prigionieri in Unione Sovietica ricevevano un buon trattamento.
Secondo i calcoli di Girolamo, al momento dello scatto Dante era a Vol'sk da due-tre settimane, dopo tre giorni in ritirata, un combattimento accanito e la cattura... dopo avere camminato sette giorni e sette notti con un’unica sosta ed essere sopravvissuto a quella notte, quando i Sovietici di scorta alla colonna raggrupparono i prigionieri e li mitragliarono senza motivo alcuno, solo per snellirne il numero... dopo avere sopportato un intero mese di treno in carro bestiame – mai aperto e ovviamente non riscaldato – senza cibo né acqua. Questo costrinse i prigionieri a bere la propria urina.
Giunti infine a Vol'sk, nel vagone di Dante erano vivi dodici uomini sui cinquantatré iniziali, talmente deboli da non reggersi sulle gambe. Vennero caricati di peso sui camion per essere trasferiti al lager ospedale.
Dopo averla preparata, Girolamo mostra la foto alla madre. Con emozione intensa, la signora – che ha quasi cento anni – identifica il marito, senza esitare.
Le parole a volte non bastano, per raccontare certi momenti, per rivedere e rivivere attimi precisi che Dante aveva più volte descritto dopo il rimpatrio.
Renato è qui, in Italia, ma credo che il suo cuore sia ancora là accanto al Volga, su quel pendio... dove l'erba alta sussurra nel vento – per chi vuole sentire – i nomi di chi non ha fatto ritorno, e ne veglia il riposo.