Prima che la memoria mi tradisca – Diario di un pellegrinaggio
(sintesi a cura di Patrizia Marchesini)
Si è preferito lasciare i nomi delle località russe così come trascritti nel testo originale di Evaristo Cecchet, che ringrazio in modo particolare.
Lunedì – 22 maggio 1995
Ore 04.20. Puntuali si parte col pullmino di Albino Bertelle; ci sono già Carletto e Ines. Andiamo a prendere la Bianca e Sergio. Strade quasi deserte, a quest’ora. Arriviamo all’aeroporto di Venezia alle 05.45 e verso le sei aprono lo sportello per l’imbarco per Milano. Prime – e per me nuove – formalità... Si sale su di un pullman che ci porta all’aereo, distante trecento metri. Imbarco, e via: meraviglioso! Distinguo molto bene le Prealpi, il Lago di Garda e poi le risaie a sud di Milano. Atterraggio dopo trentacinque minuti. Ma chi aveva paura: è stato bellissimo!
Milano. Lunga attesa, più di tre ore per l’aereo per Mosca. Verso le 10.30 ci si imbarca sotto il sole già caldo. Fermi sulla pista. Alle 12.25 l’aereo si muove, sospiro di sollievo. Montagne, neve sulle cime. Le Alpi, poi pianure, fiumi... Pranzo in aereo: non c’è male, c’è anche il vino. Sergio e la Bianca sono più avanti. Vado da loro e Sergio mi lascia il posto vicino al finestrino: è bello guardare giù, le strade si distinguono bene, specie se bianche. Un tratto nuvoloso, ma si viaggia sopra, e lassù c’è sempre il sole.
Arriviamo a Mosca alle 17.50. Naturalmente ora locale. Formalità, passaporto, visto, e primo impatto all’esterno... Caos, la nostra corriera non passa, caldo tremendo. Nel frattempo abbiamo conosciuto la nostra guida, Cesare Pellegrino, e l’interprete Oleg. Cena in ristorante: sorprese a non finire e toilette orrende.
Da una delle stazioni ferroviarie di Mosca saliamo sul treno e prendiamo posto nei vagoni letto. Sono con Sergio, Carletto e sua moglie Ines. Treno orribile. Ci sistemiamo. Il treno parte, e gìù... verso Voronez.
Sveglia alle cinque. Verso le sette Carlo, il piemontese, incomincia a cantare. È bravo. Si associano subito la Bianca e la signora Enrica, l’ottantenne di Crespano. Cantano le solite canzoni degli alpini e i Russi guardano con meraviglia. Canto anch’io ed è tanto bello.
Martedì – 23 maggio 1995
Arriviamo a Voronez verso le 08.30. Facciamo la conoscenza di Olga, la responsabile di questa provincia. Prendiamo posto su una piccola corriera. L’autista, Valeri, è piccolo, robusto, capelli neri. La strada è ampia, simile alle nostre autostrade. Senza divisioni e guardrail, però. Interruzioni, molto traffico. C’è una squadra che rifa l’asfalto. Tutte donne.
Attraverseremo il fiume Don nei pressi di Belogorie. Qui c’era la Divisione Tridentina e, più in là, a venti chilometri, Dolscik, sede del Comando presso il quale era dislocato il II Battaglione Genio, quello di Pino.
“Stai tranquilla, cara mamma, non sono in prima linea; sono a 20 km. in piccole case al caldo. Sto benone.” Così scriveva Pino, verso novembre del ’42.
Vorrei tanto passare per quel paese, dove mio fratello ha vissuto gli ultimi suoi tre mesi abbastanza sereno... parlare con le persone anziane, far vedere la foto di Pino. Non si sa mai. Tra poco arriveremo sul Don e il cuore batte forte.
Eccolo, il fiume! Lento, maestoso, placido. Lo attraversiamo a piedi, su un ponte nuovo, naturalmente.
Poco prima di Podgornoje, svolta a destra. Arriviamo quasi subito a un piccolo paese dietro una collina, defilato. Dolscik. La Bianca scende per prima, si precipita alla prima isba, dove si vede una vecchia all’esterno. Esce anche un vecchio. Il marito, suppongo. Parliamo a gesti. La Bianca mostra la foto di Pino: “Lo conoscete? L’avete visto, lo ricordate? Era qui, in questo paese.” L’interprete traduce. Sì, ricordano quei soldati che portavano uno strano cappello con la penna. La Bianca abbraccia la vecchia, le lascia la foto di Pino.
Ci spiegano dove c’era il Comando e andiamo lì. Esce un uomo; aveva dieci anni, nel ’42. Ricorda che dovettero andare via di casa per lasciare il posto ai soldati. La Bianca parla, sempre aiutata dall’interprete... Io vado per le strade. Qui c’era Pino che nell’autunno del ’42 forse alla sera cantava. Sono emozionato, rido e piango.
Siamo in ritardo, bisogna partire. Vorrei tanto stare qui un giorno, una settimana... saper parlare, accidenti. Troverei di sicuro qualcuno che se lo ricorda. Mi guardo attorno, fisso le isbe, le strade. Immagini che non scorderò. Mi chiamano dalla corriera, sono l’ultimo. Vado...
Dieci chilometri e siamo a Podgornoje. Svolta a sinistra e dopo mezz’ora siamo a Rossosch, allora sede del Comando di Corpo d’Armata Alpino. Grosso paese, periferia povera. Ma il centro è nuovo e ben tenuto. Si cerca l’albergo. Arriviamo alle 14.30.
Alle 16.00, visita alla città. Conosciamo il prof. Morozov. Ha creato uno stupendo museo russo-italiano. Nella sala riservata ai reperti italiani c’è di tutto: fucili, mitraglie, baionette e gavette. Tante gavette. Tutte scritte, incise con qualche chiodo.
Andiamo sulle colline alla periferia di Rossosch, e il professore ci spiega come fu liberata la città. Si rientra per le 20.00. Cena. Stanchi. A letto.
Mercoledì – 24 maggio 1995
Mi alzo presto e decido di andare per il paese... così, a vedere. La Bianca mi segue. Siamo verso sud, in periferia. Le strade sono ridotte male, ci sono case vecchie e qualche fabbricato nuovo. Fotografo un’isba decente e una con il tetto di paglia. Queste ultime, ormai, sono rarissime. Sono quasi tutte ricoperte di lamiera. Pecore e capre al pascolo.
Ore otto, colazione. Strane colazioni: un povero caffè e sempre affettati, insalate di verdura con cetrioli.
Alle nove si parte. Ci accompagna il prof. Morozov. Si va verso Novo Kalitva.
Ci fermiamo a visitare un’isba ben tenuta e abitata. Col tetto di paglia. All’interno, per terra, lungo gli angoli, dei fiori secchi di campo profumatissimi. Altro che deodorante!
Ripartiamo verso Novo Kalitva e saliamo in cima a Quota Pisello. Da questo colle si domina il settore dei combattimenti che fece la Divisione Julia.
Si va verso nord, a Staraja Kalitva. Sulla piazzetta, alcune donne sedute. La Bianca va subito da loro. Anch’io la seguo. Un vecchio esce non so da dove e inizia a parlare con me. In russo, naturalmente. A un certo momento dice in italiano: “Mamma son tanto felice, perché ritorno da te.” Così, senza errori.
Grazie all’interprete abbiamo chiarito. La cantavano sempre gli alpini, tutte le sere. “Avevo dieci anni, allora.”, dice il vecchio “Anch’io la cantavo con loro, e in cambio mi davano pane.” Deve averla cantata mille e mille volte, se la ricorda ancora tanto bene.
Verso le 13.00 rientriamo a Rossosch per il pranzo. Poi a Podgornoje e, a sinistra, verso Opyt. Ecco la salita. Ferma! Qui si è fermato anche mio fratello.
“Il camion non ce la faceva a salire, io sono sceso da una parte, Pino e il capitano dalla parte opposta. Non l’ho più visto.”
Così ci raccontava – piangendo – Serafino Soccal di Pieve d’Alpago. Qui, su questa strada, probabilmente hanno fatto prigioniero Pino.
La Bianca rilascia un’intervista a Cesare Pellegrino, la nostra guida: “Qui è finita la giovane vita di mio fratello.” E piange.
Ho fatto anche la foto. Opyt, piccolo paese nella steppa. Quattro case. Dove il Battaglione Genio si è sacrificato per salvare il Comando del Corpo d’Armata Alpino. Andiamo via da queste strade. Sono di sconfitta, di arresa. Povero Pino!
Si va verso Ovest, a Postojalyi. Altro paese che la Tridentina ha dovuto conquistare per aprirsi un varco. Dieci chilometri a sud. Novo Postojalovka. Julia e Cuneense, qui, hanno combattuto più di trenta ore. La più grande battaglia della ritirata. Alla fine, pochi si sono salvati. Quanti morti. E dove li hanno portati? Fuori dal paese, in una valletta. Sono state le donne del paese, dopo la battaglia. Andiamo in questo posto e... non possono esservi dubbi: ossa, scheletri scoperti. Dopo cinquant’anni. Sono i risultati di scavi recenti – per cercare qualche medaglia e cimeli vari – di chi non ha pietà per i morti. Sconsiderati!
Bisogna seppellirli. Scendo nella valletta e comincio per primo la pietosa opera. C’è una buca e in quella depongo le ossa. Mi raggiungono altri compagni di viaggio e completiamo questo lavoro struggente. Un nastro tricolore – la Bianca pensa a tutto! – sulle povere ossa, prima di ricoprirle con la terra. Terra che scaviamo con le mani. Piango, senza sapere di piangere. Avevo tra le mani anche un cranio. Vado via.
Si rientra a Rossosch. Dopo cena c’è da vedere un filmato che riguarda l’asilo costruito dai volontari dell’A.N.A.; sono distrutto e mi addormento sulla sedia. A letto per primo. Altro che vedere la partita Milano-Aiax, finale di Coppa dei Campioni!
Giovedì – 25 maggio 1995
Oggi si va a Krinovoje. Là è sepolto Pino. Per questo siamo venuti da tanto lontano. La Bianca si è vestita con gli abiti della festa: “Oggi si va al funerale di nostro fratello; quando saremo sulla sua tomba, suoneranno anche le campane di Travagola!”
Si parte alle nove e si va a nord. A Podgornoje questa volta si gira a destra, verso il Don. Ciao, Don. Un saluto struggente al fiume ce lo riserva a sorpresa Valeri, l’autista. Lungo il ponte – per più di cento metri – suona il clacson. Come avrà fatto a interpretare i nostri sentimenti, lui che è Russo? Piccolo, capelli neri, forse figlio di un Italiano...
È quasi mezzogiorno e non siamo ancora arrivati. E tutti quei prigionieri? Che a piedi hanno percorso queste strade, con il freddo e senza mangiare?
Dieci chilometri prima di Krinovoje ci fermiamo a Bobrov, grossa città. Si devono acquistare dei fiori per la tomba di Pino. Vado al mercato con l’interprete. Fiori non ce ne sono. Parliamo con la direttrice del mercato e questa si commuove. Ci accompagna da una sua conoscente che dal suo splendido giardino ci confeziona due bellissimi mazzi di fiori.
Chiedo alla direttrice del mercato, abbastanza giovane, se i suoi genitori ricordavano le colonne dei prigionieri di guerra. Eccome, se le ricordavano! “Mia madre, quando poteva, dava a quei poveri soldati delle patate. Un giorno diede anche un pezzo di pane e quel soldato si tolse l’anello – la vera – e lo consegnò a mia madre. Ora l’anello ce l’ha mia sorella. Abita a Mosca.”
Chissà se quell’alpino si sarà salvato? Forse no. Perché sarebbe senz’altro tornato da quella mamma per darle altri cento o mille anelli.
La signora dei fiori, di Bobrov. Mi commuovo, nel salutarla. Se tornerò a Krinovoje andrò a trovarla e le porterò un omaggio. Per i fiori, ma soprattutto per le patate di sua madre. Forse potrebbe averne data una anche a mio fratello.
Arriviamo a Krinovoje. Ecco il cartello. Facciamo delle foto. Colazione al sacco all’ombra delle betulle, poi andiamo a vedere.
Grandi... immense, queste scuderie.[1] Dall’esterno, però, non si capisce tanto. Nessun visitatore italiano è mai entrato. La guida va a chiedere il permesso e, a sorpresa, ci concedono di visitare alcuni interni.
Ecco i cortili, i box, di cui parla Don Caneva nel suo libro, Calvario Bianco. Sono proprio come descritti. Furtivamente entro anche in un grande capannone, quello dove morivano i soldati. Grande e tanto buio. Anche la Bianca l’ha visto. Povero Pino, ecco dove sei morto.
Qui hanno disperso la loro giovinezza tanti giovani Italiani. Dove li portavano? Appena fuori dal paese, in una grande balka, nel modo in cui da noi si scaricano i sassi o la legna.
Un chilometro a est delle scuderie c’è un grande cimitero. Qui, nella parte vecchia, c’è questa balka. Onorcaduti ha provveduto a spianarla e a erigervi un semplice cippo commemorativo. Abbiamo deposto i fiori, pregato e ricordato Pino, tutti insieme. “Le senti le campane del nostro paese? Suonano per te.”, dice la Bianca.
Foto di gruppo. Commossi, andiamo via. Ciao, Pino.
Andiamo a Voronez. Cena, e poi alla stazione. Salutiamo Olga, l’interprete responsabile di questa provincia, e Valeri, l’autista. Treno per Mosca. Si viaggia tutta la notte, il mattino si canta nel corridoio e i Russi ci guardano meravigliati.
Venerdì – 26 maggio 1995
Arriviamo a Mosca verso le nove. Altra corriera. Si va al Cremlino. Visita interessante, bellissime chiese con le cupole dorate. Un grande cannone e una campana immensa.
Pranzo in un ristorante moderno. Pomeriggio dedicato alla Piazza Rossa. Grandiosa. San Basilio: chiesa stupenda.
Andiamo all’albergo: quattro parallelepipedi bianchi, alti più di cento metri! Noi siamo al ventiquattresimo piano. Cena, e poi a letto.
Sabato – 27 maggio 1995
Sveglia presto. Saranno le quattro e si va per Mosca, con Sergio, a vedere. È già chiaro. Strade deserte. Bellissima vista sulla Moscova, al sorgere del sole. Alle cinque aprono la metropolitana e la città si sveglia: scendiamo in una stazione a vedere. Tutti corrono. Rientriamo in albergo alle sette. Colazione e poi partenza per Tula-Aleksin.
In corriera. Saranno 150-200 chilometri, per Tula. Fa tanto caldo. Arriviamo verso mezzogiorno. Visita al Cremlino. Ogni città importante ha il suo cremlino-fortezza. Pranzo ottimo. Nel pomeriggio si va ad Aleksin, a trenta chilometri.
Ecco il paese. Ecco le prigioni.[2] Non possiamo entrare. Poco lontano, in mezzo agli orti, troviamo la fossa comune. Anche qui c’è un cippo, a ricordo. In questo luogo è sepolto il padre di Roberto, il piemontese nostro compagno di viaggio. Anche il marito di Enrica – padre di Julia e nonno di Angela[3] – è sepolto qui. Era tenente del III Battaglione Genio della Julia. Nel novembre 1942 era in licenza, a Crespano del Grappa. Ritornò sul Don, dove – nel gennaio 1943 – fu fatto prigioniero.
Nell’agosto 1943 nacque una figlia: è stata chiamata Julia, come la Divisione alpina.
E se fosse stato un maschio? Armir, come la nostra Armata in Russia.
Si rientra tardi, a Mosca. Saranno le 22.00. Cena, e poi a letto.
Domenica – 28 maggio 1995
Sveglia alle sei. Con la Bianca si va al mercato, vicino al nostro albergo. Stanno sistemando le bancarelle. Grande, questo mercato... si paga il biglietto per entrare!
Torniamo in albergo. Colazione e poi – in corriera – visita al bellissimo villaggio di Kolomenskoje. C’è una chiesa stupenda, entro. È domenica e c’è tanta gente. Sono molto devoti. Nel giardino vi sono querce di oltre duemila anni, tanto grosse che non bastano quattro persone per abbracciarne la circonferenza.
Ultimo pranzo a Mosca e poi via... all’aeroporto. Fa sempre un gran caldo e sul fiume si vedono tantissimi bagnanti, come a Jesolo. Altro che Russia fredda! E tutti i maglioni nella mia valigia!
Dogana, passaporto, visto. Ho perso gli occhiali. L’aereo decolla alle 14.30.
Ciao, Russia, forse tornerò. Sono vicino al finestrino e il ritorno è tanto breve. Cambio di aereo a Milano. Puntuali, siamo a Venezia alle 22.45. C’è il pullmino che ci aspetta. Siamo a Pedavena a mezzanotte e trenta.
Ecco, sono ritornato a casa. Ma ora so che lassù, sul Don, c’è il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace e un grande silenzio. La finestra della mia stanza inquadra i boschi e le cime, ma lontano – oltre le Alpi, i grandi fiumi e le sconfinate pianure – vedo sempre quei villaggi e quelle betulle dove dormono tutti quei giovani che non sono tornati a casa. E Tu sei con loro, fratello mio.