Eccomi qua, dunque, rientrata da quello struggente viaggio “nel tempo”, verso la Madre Russia e dalle sue sterminate steppe e pianure ondulate, dove pare proprio che il tempo si sia fermato. In questo mio “viaggio nella memoria” ho ripensato più volte a come il tempo sia infinito, soprattutto mentre i miei piedi calpestavano le alte e intricate erbe ingiallite, che si piegavano al dolce vento autunnale, lì, a pochi passi dal Don. E in quel surreale silenzio, proprio degli spazi aperti e infiniti, dove a volte gli orizzonti sparivano in lontananza, perdendosi fra nuvole basse, ho ritrovato la serenità della mia anima, da tempo in subbuglio. Era necessario che io arrivassi lì, che lasciassi le mie impronte sui viottoli accidentati delle balke, dei sentieri quasi invisibili che si intravedevano fra le alte erbe. Era necessario che io avessi almeno l’illusione di ripercorrere le terre, in attesa della neve, che conservavano le migliaia di orme congelate nel tempo, come sono congelati i ricordi nel cuore di tutti noi, parenti d’eroi. Ho rivisto quote, capisaldi, fosse comuni celate ai viandanti, ma conosciute dai semplici e umili abitanti delle isbe d’intorno. Ho cercato di cogliere, appoggiando con timore e rispetto i miei piedi su quelle distese erbose e abbandonate, ora eterne dimore, l’essenza profonda di chi poteva per sempre riposare lì sotto, quasi ad avvertirne la presenza spirituale. Ed ecco che i miei occhi non tardavano ad inumidirsi, mentre le mie mani accarezzavano dolcemente gli arbusti, strappandone gli steli, semplici fiori di campo che sopravvivevano all’arsura, per portarli con me, quasi ad appropriarmi dell’essenza spirituale di quei corpi dimenticati, che ha dato loro nutrimento perenne.
Poi, all’improvviso, il nastro argenteo del Don, placide acque, di cui non si intravedeva la direzione del loro percorso, se non indovinando, osservando il tramonto del sole... tanto erano placide. E lì, sull’argine alto, fra le betulle ondeggianti, dove oltre il fiume spazia la foresta verso Werch Mamon, di cui si intravedono, in lontananza, spiccare i campanili, i ricordi si fanno vivi, e la memoria diventa realtà. Ricordi di parole in fogli ingialliti, di zio Enzo che scrive, in un’ultima lettera di dicembre 1942, quando, inconsapevole dell’attacco imminente che darà inizio alla disfatta totale, proveniente proprio da lì, dove io ora sto guardando, lui descriverà ciò che lo circonda, che incredibilmente appare davanti ai miei occhi velati: l’argine scosceso, dove lui di sentinella, trascorreva le sue notti, ben attento a che “non passi qualcheduno…” (parole sue); il rifugio sottoterra, dove “i topi mi mangiano i calzini…” e dove ora c’è un cippo a ricordare solo coloro che la Madre Russia riconosce come figli. E’ lì, in quell’esatto luogo, che Wassili Prokatov, diciassettenne eroe russo, aprì col suo coraggio lo spiraglio della grande controffensiva; proprio lì, dove zio Enzo, fra un turno e l’altro, e col candore dei suoi vent’anni, nella penombra del rifugio, riscaldato da una stufa arrugginita, alla fioca luce di una candela , faceva sapere a me, dopo 70 anni, che vedeva i campanili oltre la boscaglia, gli stessi che scorgo ora io, in lontananza. Solo che io faccio fatica a vederli, ho gli occhi appannati…forse sarà la luce che filtra fra le foglie ingiallite delle betulle; forse sarà l’umido di quelle acque stagnanti, che sale fino a qui, sul poggio, o forse sono solo gli aliti dei fantasmi del passato, nascosti dietro gli esili tronchi. Fantasmi di anime perse, di giovani eroi, che vagano indisturbati nei luoghi a loro assegnati dal destino. Forse li avverto, basta fare silenzio, e porgere l’orecchio e identificare fra il fruscio delle foglie, flebili richiami, mentre i miei piedi calpestano i granelli di polvere che hanno assorbito i loro corpi e spiriti. Mentre zio Enzo ancora scrive ”se continua così, è da signori… poi ci sarà il cambio, basta arrivare a primavera...” Ma era solo dicembre, e la primavera era troppo lontana... e non ha trovato la strada per giungere fin qui.
Addio Enzo, ti sei perso in un mare di ghiaccio, gelido protettore di un mare d’erba, infinita ultima dimora di quanti non tornarono. Come te, caro ragazzo, fratello di mio padre, mai conosciuto, ma da sempre amato, quasi che la voce del sangue abbia reclamato i suoi diritti, mi hai gettato il filo, per giungere fino a te Ed io l’ho seguito, assecondato, attraverso i decenni e le ali del tempo mi hanno condotto fino a te, attraverso la strada del cuore. Ed io ti ho ritrovato, ne sono sicura: eri lì, nel vento, nelle foglie, nei fili d’erba piegati dal sole. Eri nell’aria che respiravo, negli abbracci delle babuske che mi avvolgevano, nei loro sorrisi e pianti, nelle loro parole incomprensibili, ma sussurrate da labbra consunte, nelle loro mani nodose, molte delle quali hanno conservato il profumo dei vostri corpi insepolti, a cui hanno donato il conforto di una pietosa sepoltura. E soprattutto ho ritrovato la pace, la serenità interiore che da tempo mi mancava in attesa d’incontrarti. O forse è stata solo un’illusione, bellissima, quella di donare alla tua breve vita l’ultimo saluto d’amore, che ti è mancato. Non è forse vero, che l’amore supera il tempo…?