di Patrizia Marchesini e Marco Ricchiuti

 

Nel luglio 1941 il C.S.I.R. parte per il Fronte Orientale. Su una delle tradotte vi sono anche Gino Tiburzi e Nicola Federici.

Gino, nato a Bracciano nel 1909, abita a Civitavecchia.

Nicola, invece, è del ’18 ed è originario di Orte, dove risiede.

 

Gino Tiburzi, a sinistra - Nicola Federici, a destra

 

Entrambi sono assegnati al 52° Reggimento Artiglieria della Divisione Torino. Si conoscono bene: Gino ha sposato Renza, sorella di Nicola.

Gino manda alcune foto in Italia. In una di queste compare infagottato nel pastrano militare, con sciarpa, passamontagna chiaro e malachai,[1] il tipico copricapo di pelliccia russo, che reca – nella parte anteriore – lo stemma dell’artiglieria italiana. Sul retro dell’immagine, risalente con ogni probabilità al febbraio 1942, Gino ha scritto con una certa spavalderia i 40 gradi sotto zero ci fanno un baffo.

 

Gino malachai e scritta sul retro

 

Il Foglio Matricolare di Nicola, invece, racconta che fu promosso prima caporale, poi caporal maggiore; infine, il 19 novembre 1942, arriva la nomina a sergente.

Un mese dopo la Divisione Torino inizia a ripiegare. Passa per la fornace di Arbuzovka, affronta l’assedio di Čertkovo, finché i superstiti – pochissimi – riescono a raggiungere le linee tedesche.

Gino e Nicola non tornano a casa e Renza li aspetta entrambi a lungo... così a lungo...

Resta schiacciata dal dolore di quella doppia perdita e muore pochi anni dopo.

Concetta – la madre di Gino – è a sua volta incapace di rassegnarsi a quella scomparsa: cercherà notizie sulla sorte del figlio sino alla fine dei suoi giorni.

Storie vecchie, di soldati italiani.  Non di rado sottratte all’oblio solo grazie ai racconti di tante nonne, che hanno saputo tramandare ai nipoti la memoria di quelle piccole vicende individuali, insignificanti per la Storia, sconvolgenti per molte famiglie.

 

Marco Ricchiuti è cresciuto con la storia di Gino, fratello di sua nonna Mema, volatilizzatosi nella steppa durante la ritirata di Russia. Ancora risente la voce della nonna raccontargli di come lei e la madre Concetta, disperate, avessero interpellato maghi e veggenti nella speranza di sapere qualcosa...

Gino e la moglie, prima della partenza per il Fronte RussoNonna Mema raccontava anche di Renza, la bella moglie di Gino, che non si riprese mai da quel dispiacere tremendo. Echi del passato, custoditi nel cuore di un bambino.

Poi – a distanza di molti anni – quelle storie sono affidate a un altro bimbo: Daniele, figlio di Marco, nella sua ingenuità non si capacita di come nessuno sia ancora andato in Russia a cercare zio Gino. Giusto, è ora di darsi da fare!

Si fruga tra i ricordi dei figli di Mema e si scopre che Gino era inquadrato nella Divisione Torino. In seguito Daniele confronta le foto che Gino aveva spedito dal Fronte Russo con quelle presenti nel suo librone di uniformologia. Ipotizza che Gino fosse un artigliere e che, quindi, appartenesse al 52° Reggimento Artiglieria.[2]

Piano piano il fantasma disperso nelle steppe russe comincia a riemergere dalla nebbia del tempo. Arriva la conferma che Gino era effettivamente nel 52° Reggimento, si consulta la banca-dati di Onorcaduti. Ma non c’è altro. Nulla sulle circostanze della sua morte, né sul luogo in cui riposa, da allora. Torna a essere un fantasma.

Marco, però, non ha ancora considerato la memoria eccezionale di suo zio Armando, un ragazzo di appena novant’anni: rammenta che Gino era al fronte insieme al cognato Nicola, fratello della moglie Renza. Questo particolare, a prima vista secondario, si rivelerà fondamentale. Armando ricorda ogni cosa, riguardo a Nicola... Nome, cognome, classe, persino la paternità. Da una nuova ricerca nel data-base di Onorcaduti emerge che Nicola morì in prigionia, nel campo n. 58 di Tёmnikov.

Allora Marco decide di rivolgersi all’U.N.I.R.R., si iscrive al forum e racconta in un post la storia di Gino e Nicola, fornendo i dati di cui è in possesso. Segue i consigli ricevuti, contatta l’Albo d’Oro e...  dal fascicolo di Nicola viene fuori la testimonianza diretta di un commilitone, Luigi Clarici Catalucci. Grazie a tale deposizione, rilasciata il 7 marzo 1950 presso la Stazione dei Carabinieri di Spoleto, Marco ha scoperto cosa accadde: il prozio Gino, suo cognato Nicola e il signor Catalucci furono catturati il 24 dicembre 1942. La loro colonna di prigionieri camminò per quattrocento chilometri prima di salire sul treno diretto a Talitsa. Solo dopo sei giorni di viaggio fu distribuito ai prigionieri un po’ di pane ed è facile immaginare quali fossero le condizioni dei nostri soldati una volta giunti al campo di prigionia. Il sergente Nicola Federici era talmente debilitato da morire subito dopo il primo bagno.[3]

Risulta difficile, ora, pensare che un bagno possa provocare la morte di una persona. Consideriamo, però, che per uomini così indeboliti il minimo sforzo ulteriore richiesto all'arrivo nel lager poteva essere la goccia che faceva traboccare il vaso.[4]

Il maresciallo Gino Tiburzi morì il giorno successivo nel lazzaretto del campo, per tifo.[5] Gino e Nicola furono seppelliti in una fossa comune, a duecento metri dal lager.

Luigi Clarici Catalucci, in poche parole essenziali, ci fa comprendere come fu difficile sopravvivere ai primi mesi di prigionia: dei quasi 8.000 prigionieri italiani presenti nel campo all’inizio del 1943, solo 750 erano sfuggiti alla morte, a fine maggio di quell’anno.[6]

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Leggi gli allegati:

. Foglio Matricolare Gino Tiburzi - Pag.1

. Foglio Matricolare Gino Tiburzi - Pag.2

. Foglio Matricolare Gino Tiburzi - Pag.3

. Foglio Matricolare Nicola Federici - Pag.1

. Foglio Matricolare Nicola Federici - Pag.2

. Foglio Matricolare Nicola Federici - Pag.3

. Foglio Matricolare Nicola Federici - Pag.4

. Copia dell'atto di morte di Gino Tiburzi

. Copia dell'atto di morte di Nicola Federici

. Deposizione di Luigi Clarici Catalucci - pagina 1

. Deposizione di Luigi Clarici Catalucci - pagina 2

. Lettera da Onorcaduti sul luogo di sepoltura di Nicola e di Gino

 

 

 

[1] In cirillico: малахай.

[2] Una deduzione logica: il 52° era infatti il Reggimento Artiglieria della Divisione Torino.

[3] Secondo Clarici Catalucci, il primo bagno fu predisposto sei-sette giorni dopo essere giunti al campo n. 165 di Talitsa. L’atto di morte di Nicola Federici, redatto il 17.03.1950, riporta come data del decesso il 29 gennaio 1943.

[4] A tale proposito ecco un brano tratto dal libro di Carlo Vicentini, Noi soli vivi, edito da Mursia, 1997, pagg. 140-141: Mi fecero spogliare e tutte le mie cose furono buttate in un mucchio, alla rinfusa, insieme a quelle degli altri. Ero scioccamente preoccupato per la fodera di pelliccia del mio pastrano, ma soprattutto avevo paura che mi facessero sparire le scarpe Vibram e volevo portarmele dietro. I miei timori non furono infondati perché anche quelle ultime cose rimastemi, tra quelle portate dall’Italia, andarono perdute. [...] Quando mi spinsero con gli altri in quello stanzone, saturo di vapore e di disinfettante, dove a mezz’aria stagnava una bruma bollente, mentre i piedi poggiavano sul pavimento freddo di cemento, la testa mi si svuotò e dovetti fare un grande sforzo per stare in piedi. [...] Lo stanzone era strapieno, ci si urtava l’un l’altro. La luce delle lampadine accese al soffitto era assorbita dal vapore e i corpi nudi, osceni nella loro magrezza, si muovevano in un’atmosfera surreale; visi stralunati apparivano e svanivano. C’erano delle bacinelle con le quali attingere acqua calda a un rubinetto e con essa ci si lavava i piedi; i pochi pezzi di sapone erano contesi; per risciacquarmi dovetti chiedere l’intervento di due compagni perché mi rovesciassero addosso il contenuto della bacinella; mi fecero sedere per terra perché non avevano la forza di sollevarla più di tanto. Sul pavimento c’era gente sdraiata, sopraffatta dallo sforzo e soffocata da quell’aria irrespirabile. Un bagno turco non era la terapia più adatta per uomini debilitati come noi e il cuore di molti, affaticato e indebolito da due mesi di digiuno e dagli strapazzi delle marce, non resse oltre. Anch’io feci la stessa fine. A un certo punto, non fui più capace di stare in piedi e così, nudo e  bagnato, mi sdraiai sul pavimento, incurante dell’acqua saponata e sporca che mi scorreva sotto la schiena, indifferente se mi calpestavano. Capii che mi raccoglievano, asciugavano e vestivano di maglietta e mutandine poi, avvolto in una coperta, mi misero su una barella portaferiti. Fuori nevicava fitto mentre mi trasportavano al lazzaretto [di Oranki, n.d.r.]; i brividi mi scuotevano e mi facevano sobbalzare come se fossi percorso dalla corrente.

[5] L’atto di morte di Gino Tiburzi, compilato il 2 ottobre 1950, afferma – però – che Gino morì il 9 febbraio 1943. Da cui sembrerebbe che Gino fosse deceduto dieci giorni, e non uno soltanto, dopo la morte del cognato Nicola.

[6] Secondo il Ministero della Difesa, i decessi ufficialmente registrati nel campo 165 di Talitsa furono 2.241. Vedi C.S.I.R.-Arm.I.R. Campi di prigionia e fosse comuni, Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti in Guerra, a cura di, Roma, 1996, pagina 96.


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