Ricordiamo il dottor Melchiorre Piazza con questa scheda relativa alla sua figura:
nato a Palermo il 22 agosto 1904
morto a Milano il 16 febbraio 2010
- coniugato e con due figli
- laureato in chimica
- ha diretto importanti incarichi presso società in Italia e Francia
- ha partecipato alle operazioni belliche sul Fronte Russo quale capitano, comandante una Compagnia di lanciafiamme
- decorato di Medaglia d'Argento al Valor Militare
- catturato nel dicembre 1942 e sottoposto a particolare sorveglianza e trasferito per ben sette volte in lager di punizione per le sue manifestazioni di italianità
- liberato nel luglio 1946
Si è subito adoperato per la costituzione dell'U.N.I.R.R. che nacque l'8 agosto 1946, riuscendo ad ottenere poi il riconoscimento giuridico dell'U.N.I.R.R. NAZIONALE.
Da allora si è impegnato per quasi sessant'anni a favore di reduci, caduti, morti in prigionia e dei famigliari, riuscendo ad ottenere il rientro in Patria di caduti e a conscere la sorte toccata ad alcuni prigionieri.
Ha allestito una mostra fotografica itinerante sulla Campagna di Russia di rilevanza storica. Il 28 maggio 2004 il Presidente della Repubblica gli ha conferito l'onorificenza di Cav. di Gr. Croce al merito della Repubblica Italiana.
E' rimasto al Suo posto di guida dell'U.N.I.R.R. fino all'aprile 2004, ormai centenario.
Nella sua lunghissima vita Melchiorre Piazza è morto tre volte. Ucciso sul Fronte Russo. Inghiottito da un lager. Perito con tutti i passeggeri in un disastro aereo. Questa è la sua storia. La storia di un uomo vissuto tre volte.
"Sono nato a Palermo il 22 agosto 1904. Nel ’26 mi sono laureato in chimica industriale e l’anno dopo sono partito per Milano. A Rho sono diventato direttore di una fabbrica con un centinaio di operai che utilizzava cellulosa. Con la guerra è stata requisita. Non avevo avuto il richiamo alle armi, come direttore ero stato esonerato.
Ogni mattina e ogni sera passavo davanti alla portineria dello stabilimento. Il portinaio era un giovane tornato dalla Grecia con le gambe amputate. Un giorno ho deciso: sarei partito anch’io. Sono andato negli uffici dell’Esercito, in via Torino, per dire che rinunciavo all’esonero."
IL DOTTOR Melchiorre Piazza diventa il tenente Piazza, assegnato alla Divisione di Fanteria Torino, dove gli viene affidato il comando di una Compagnia lanciafiamme. E’ il 1941 quando parte per la Russia. Ritirata dal Don. Il capitano Piazza marcia con gli altri in quella che in realtà è un’avanzata all’indietro. Non può sapere che sta marciando verso la sua morte. La prima.
"Andavamo verso Arbusow. A un passaggio obbligato abbiamo incontrato un nido di mitragliatrici che davano parecchio fastidio. Mi ha chiamato il colonnello Enzo Russo: 'Capitano, va’ laggiù e fa’ tacere quelle mitragliatrici, altrimenti qui non si va avanti.' Ho esitato per un momento. Il colonnello si è infuriato. 'Questo è un ordine', ha tuonato. In uno scatto di rabbia mi sono tolto il berretto e l’ho scagliato a terra.
All’interno erano ricamati il mio nome e il grado, tutti i miei dati, l’indirizzo. Un soldato che aveva assistito alla scena l’ha raccolto e se l’è messo in testa. Ha percorso cento metri ed è rimasto ucciso. L’hanno soccorso, qualcuno ha visto il berretto. La notizia si è diffusa in un lampo: 'Il capitano Piazza è morto'. Di bocca in bocca, di Comando in Comando, è rimbalzata fino a Roma e di lì al distretto.
Hanno convocato mio padre. 'Suo figlio è morto combattendo eroicamente. Verrà proposto per la Medaglia d’Oro al Valor Militare'. Mia moglie Lidia non vuole crederci: 'No, no, è vivo. So che è vivo'. E si rifiuta di prendere il lutto."
Piazza non sa di essere morto. Ha raccolto dieci soldati, hanno strisciato fino al nido dei quattro mitraglieri russi, li hanno eliminati. Attorno è l’inferno. E’ la valle della morte di Arbusow. Piazza è convinto di ricongiungersi ai suoi. Vainapleina, intima invece una voce. Prigioniero. Sono arrivati i Russi.
MELCHIORRE PIAZZA inizia a morire per la seconda volta. Una morte lentissima, dolorosa. Intruppato nella colonna dei prigionieri, cerca di nutrirsi masticando neve o leccando sulla terra i resti delle gamelle, minestra raffreddata e fango.
C’è chi muore per il gelo, gli stenti, il tifo petecchiale, e chi impazzisce. Nel lager Piazza è davanti al commissario politico: "Non ho niente da dire. Sono italiano e sono prigioniero di guerra.", "Non vuoi tornare a casa tua, da tua moglie, dal tuo bambino?", "Sì che lo voglio, ma non a queste condizioni." Si fa la fama di duro, di irriducibile, di anticomunista senza cedimenti.
Dopo la guerra Melchiorre Piazza non è più tornato in Russia, ma è riuscito (facendo ballare un po’ di dollari) a ottenere le copie degli incartamenti redatti dai suoi carcerieri. Un soggetto pericoloso. Non solo non si piega ma svolge propaganda patriottica fra gli altri internati. Per questo continuano a spostarlo, Oranki, Suzdal, altri lager.
Quando, nel ’46, lo liberano, è sceso da 74 a 33 chili. Per la seconda volta la morte l’ha risparmiato. Melchiorre Piazza rinasce per la seconda volta: "Era il mese di giugno quando il treno ci ha scaricati sotto le tettoie della Stazione Centrale. Ci siamo salutati con l’impegno di non dimenticare quello che era accaduto e soprattutto i nostri fratelli d’arme che non erano tornati. Abbiamo fondato l’U.N.I.R.R., Unione Nazionale Italiani Reduci di Russia. Siamo riusciti a riportare in Italia le salme di dodicimila caduti. Sono stato il presidente fino a cinque anni fa, quando ho compiuto cento anni."
MELCHIORRE PIAZZA è a casa. Per giorni e giorni non riesce a sedersi a tavola con gli altri, mangia da solo, sul pavimento. La notte dorme su un materasso gettato a terra. Il tempo trascorre, torna la normalità. Piazza riprende il suo lavoro nella fabbrica di Rho. Costruisce un macchinario ultramoderno, un colosso lungo un centinaio di metri.
Piovono offerte di lavoro dall’estero. Sceglie quella che gli viene dalla Francia perché conosce la lingua. E sceglie anche di morire per la terza volta. "Sono stato direttore prima di uno stabilimento a Valanchennes e poi di un altro a Condé sur Escort, vicino alla frontiera con il Belgio." Era il mese di luglio del 1956.
"Dovevo andare all’aeroporto di Bruxelles e prendere l’aereo per Milano. Ho perso il volo per un soffio. L’apparecchio si è schiantato sulle Alpi, non si è salvato nessuno. La mattina dopo mi sono ripresentato al lavoro. La gente mi guardava con gli occhi sbarrati come se fossi stato uno spettro. 'Ma lei non è morto?'. 'No, perché dovrei?'. Ancora non sapevo della sciagura."