di Patrizia Marchesini

 

 

Questa, più che un’intervista, è stata una bella chiacchierata a più voci. Ringrazio di cuore il signor Lelio Zoccai per avermi accolto nella sua casa, nonché la signora Lucia – i cui interventi hanno dato un contributo prezioso – e il professor Enzo Segalla, per le puntualizzazioni rigorose.

 

 

 Lelio Zoccai nel 1941

 

 

Parte 1 - I combattimenti di Rossoš’ e la cattura

 

Thiene (VI), Agosto 2011

 

Lei faceva parte del XXX Battaglione Guastatori Alpino, 9ª  Compagnia (detta La Valanga). Per chi non avesse letto il suo libro, potrebbe spiegare cosa faceva un guastatore e in cosa differiva il vostro equipaggiamento, rispetto a quello degli altri reparti?

Eravamo accantonati in un piccolo paese, Arhangel’skoe. Facevamo pattugliamento, soprattutto di notte. Il nostro battaglione aveva il compito di contrastare le formazioni partigiane. In alcuni casi una divisione o un reparto chiesero il nostro aiuto e noi accorremmo. Ma per lo più rimanemmo in questo paesino. Stavamo abbastanza bene... eravamo nelle case dei civili.

 

Arhangel’skoe: poche isbe allineate lungo i lati della pista, così lo descrive nel suo libro. La vita si svolgeva a contatto con la popolazione locale... vecchi, donne e bambini. Ricorda qualche episodio particolare del periodo precedente il ripiegamento?

Ricordo che fummo accolti bene dalla popolazione e non avemmo quasi nessun fastidio dai partigiani. Davamo il sapone alle donne e il cappellano distribuiva santini, che le donne incollavano alle pareti.

Signora Lucia: Uomini non ce n’erano... lo dicevi sempre.

No, uomini non c’erano. C’erano bambini piccoli. Gli uomini in età militare erano arruolati e quelli in età pre-militare o si erano uniti ai partigiani o stavano nascosti.

 

Torniamo all’equipaggiamento.

Eravamo equipaggiati peggio, rispetto ai Russi e ai Tedeschi. Per esempio i Russi avevano i famosi valenki, stivali di feltro che tenevano i piedi caldi e asciutti. Noi, invece, avevamo gli scarponi. E la mantellina che ci arrivava al ginocchio.

 

E il cappotto?

Ce l’hanno distribuito dopo, il cappotto con la pelliccia. Però quando c’erano le tempeste di neve svolazzava e serviva a poco. Invece i Russi avevano delle cinture: i cappotti così stavano aderenti e proteggevano di più dal clima. I Tedeschi avevano dei cappotti lunghi fino ai piedi e gli stivali.

Noi avevamo un grasso antigelo per gli scarponi. Glielo davamo e dopo due ore gli scarponi erano duri come il ferro.

Prof. Segalla: Lelio... però i guastatori alpini erano un’unità tra le più preparate e le meglio equipaggiate.

Nel libro parla di un fucile mitragliatore... e non del moschetto ’91 in dotazione agli altri soldati.

Per l’epoca noi guastatori eravamo bene armati. Solo che con il freddo il fucile mitragliatore dava dei problemi. Avevamo un olio lubrificante, che con il gelo diventava ghiaccio. Di conseguenza l’arma si inceppava. Così iniziammo a usare il petrolio, ma anche quello non andava bene. Occorreva sparare una raffica, una decina di colpi prima che il fucile si scaldasse e cominciasse a funzionare bene.

Avevamo anche i mortai, le cariche antimine e quelle antibunker: queste erano una specie di scatola di esplosivo. Si buttavano nelle feritoie dei fortini.

E poi avevamo i lanciafiamme.

Signora Lucia: I guastatori alpini andavano avanti a preparare il terreno per gli altri.

 

In molte testimonianze si accenna alla battaglia di Rossoš’; nel suo libro ne ho trovato un racconto dettagliato. Vorrebbe descrivere quelle ore difficili, con i carri armati sovietici che scorrazzavano in città?

Il 14 gennaio 1943 ricevemmo l’ordine di spostarci a Rossoš’ per difendere il Comando del Corpo d’Armata Alpino (secondo quanto scritto nel libro di Lelio Zoccai, Un guastatore alpino nei lager sovietici, 1943-1950, edito da Mursia – pag. 22 –, l’ordine giunse il 15 gennaio). Lì c’era il battaglione Monte Cervino, che era già stato decimato in scontri molto cruenti. Noi partimmo verso le tre, le quattro del pomeriggio del 14 gennaio. Abbandonammo i nostri zaini e partimmo a piedi. Rossoš’ sarà stato a una trentina di chilometri da Arhangel’skoe. Arrivati a destinazione scoprimmo che i Carabinieri ormai se n’erano andati, anche se i loro zaini si trovavano ancora lì. Una sorpresa amara, e un brutto segno. C’era il Monte Cervino che, come ho già detto, aveva subito molte perdite. Fu un combattimento... brutto. I Russi avevano i carri armati e noi no. Contro i loro carri armati si faceva poco.

Prof. Segalla: Sottolineo che Lelio Zoccai ha ricevuto un encomio solenne per la difesa di un ponte, durante i combattimenti di Rossoš’. Ne parla Vincio Delleani, un collega dell’altra compagnia dei guastatori (la compagnia di Delleani era chiamata La Tormenta, n.d.r.).

Signora Lucia: Fu il capitano a dirgli: “Zoccai, rimani qui tu, a difendere il ponte.”

 

Il capitano Morelli?

Manlio Maria Morelli era il comandante della nostra compagnia. Torniamo indietro un momento. Quando arrivammo a Rossoš’ era ormai sera e pernottammo fuori, al freddo. Il mattino successivo ci dirigemmo al Comando del Corpo d’Armata Alpino per difenderlo e, strada facendo, vedemmo tutto l’attacco dei Russi con i carri armati. In quelle circostanze fu ferito il capitano Morelli, e il maggiore Mazzucchelli fu ucciso.

Signora Lucia: Allora chi fu a dirti di rimanere a difendere il ponte?

Mi sembra fosse il tenente Palazzolo, che aveva preso il comando in quanto ufficiale più anziano. Comunque non furono combattimenti facili. Io fui mandato su quel ponte per difenderne l’accesso. Avevo piazzato il fucile mitragliatore... rimasi lì due o tre ore. Terminate le munizioni tornai nel centro di Rossoš’. Andai in un seminterrato, con una finestrella a livello della strada. Da lì vedevo passare i mezzi russi – autoblindati e carri armati – e sparavo. Non certo con la speranza di fermarli, quanto perché sui mezzi, seduti esternamente, c’erano soldati russi.

Un episodio. Dalla finestrella mi sembrava di vedere una sagoma. Mi ero convinto fosse un Russo con il binocolo, ma era molto lontano e non ne ero sicuro. Comunque, credendolo una minaccia, mi ero incaponito a sparare.

Signora Lucia: Non l’hai mai raccontato.

Be’, non è un episodio glorioso.

Signora Lucia: E chi era?

Cosa ne so... quando finii di sparare, la sagoma era ancora là. A un certo punto ci diedero l’ordine di ritirarci e noi uscimmo sotto il fuoco dei Russi. Credo di non aver mai corso così velocemente... erano poche decine di metri, ma – nonostante il freddo – grondavo di sudore per l’ansia e la paura di essere colpito. La neve ribolliva per gli spari.

 

In seguito lei proseguì il ripiegamento con la Tridentina.

Fecero un appello per contare i superstiti e ci incamminammo. Al comando c’era il tenente Palazzolo.

 

Lei fu catturato una prima volta e riuscì a fuggire... per poi essere catturato di nuovo il 28 gennaio 1943. I Sovietici la portarono a Valujki. Come furono quei primi giorni di prigionia?

Prima di essere catturato la seconda volta mi trovavo in un’isba e furono le donne russe ad avvertirmi che stavano arrivando i Sovietici. Ero insieme ad altri tre del mio battaglione. Avevamo una slitta trainata da un mulo e ci mettemmo in cammino, ma ormai eravamo spersi, sbandati. Ci prese la cavalleria russa. Facevano rastrellamento e ci catturarono portandoci a Valujki, in un edificio diroccato. All’interno c’erano feriti, congelati... soldati presi intorno al 25-26 gennaio. Fu un periodo durissimo. Non avevamo niente. Freddo, fame... nessuna distribuzione di cibo, nessun tipo di assistenza medica. Eravamo abbandonati a noi stessi.

 

Quanto ho letto nella memorialistica in merito al ripiegamento e alla prigionia evidenzia episodi di solidarietà fra i soldati ma – spesso e volentieri – anche di opportunismo. Ne rammenta qualcuno in particolare?

Mah, solidarietà non ne ho vista. C’era fratellanza fra noi che eravamo dello stesso battaglione. Per il resto... Le faccio un esempio. Sul pavimento c’erano feriti e congelati e chi cercava un posto per sdraiarsi calpestava chi era impossibilitato a muoversi. Con il passare dei giorni, in quella massa di disperati emersero dei capi. Persone che sapevano qualche parola di russo e riuscirono a trarne qualche vantaggio, nei contatti con i Sovietici. Vantaggi personali... di tutti gli altri prigionieri si disinteressarono. Ma, a pensarci bene, quei vantaggi furono poca cosa, perché pane e viveri non ne arrivavano e non c’era nulla da condividere.

 

Nonostante la situazione drammatica, lei cercò di rimanere a Valujki il più possibile.

Si era sparsa la voce che in altri campi ci sarebbe stato da mangiare e la maggior parte dei prigionieri sani, o almeno non particolarmente debilitati, era già partita. Io e gli altri tre, invece, volevamo scappare nel tentativo di raggiungere le nuove linee tedesche e ci rendevamo conto che, più all’interno del territorio russo fossimo finiti, più la fuga sarebbe stata difficile. Alla fine non realizzammo mai il nostro progetto: c’erano degli ufficiali che sarebbero voluti venire con noi, ma non stavano bene. Aspettammo, nella speranza che riacquistassero le forze, e perdemmo l’occasione.

 

Parte 2 - In prigionia: Tambov, Gubaha, Pahta Aral

 

Dopo Valujki, dopo la marcia del davaj e il trasferimento in treno, lei giunse a Tambov. Fu qui che conobbe la signora Torre. Nel libro non ne parla in termini lusinghieri. Tra i fuoriusciti italiani – coloro, cioè, che in disaccordo con il regime fascista avevano preferito trasferirsi in Unione Sovietica, ritenendola un modello dal punto di vista politico e sociale – ce ne fu qualcuno che le sembrò prendersi a cuore davvero le condizioni dei prigionieri?

No, ci accusarono sempre di essere venuti in Russia a maltrattare un popolo che non ci aveva fatto niente. Era inutile ribattere che in Russia ci avevano mandato.

Signora Lucia: Iniziarono con la propaganda.

Sì, il loro scopo era solo quello. Fare propaganda comunista e contro il governo di Mussolini.

 

Ai nostri soldati, durante la prigionia, e ai reduci della Campagna di Russia dopo il rimpatrio, in effetti fu sottolineato in diverse occasioni che le nostre truppe avevano invaso un Paese pacifico e aggredito un popolo che non aveva fatto nulla di male. Lei, all’epoca, cosa pensò quando Mussolini decise di mandare le nostre truppe sul fronte orientale?

In generale non ne pensavamo bene. Eravamo contro la Campagna di Russia, perché ricordavamo cosa successe a Napoleone... ma eravamo giovani, poco più che ventenni e l’essere giovani ci aiutava a respingere la preoccupazione. Arrivati in Russia, però, ci trovammo a fianco a fianco con i Tedeschi. Ci trattavano da inferiori.

Signora Lucia: Comunque tu dicevi che erano bravi combattenti, più bravi di voi.

Non so se si possa parlare di più bravi o meno bravi. L’approccio ideologico dei Tedeschi, però, era di sicuro diverso.

Signora Lucia: Ma li hai sempre difesi.

Ho sempre detto che erano organizzati alla perfezione, questo sì. Loro erano un esercito, noi eravamo un po’… scalcinati. Non che non ci tenessimo a essere efficienti. Ma ci mancavano le armi adatte.

 

Qual è stato – secondo lei – il punto debole, prima del C.S.I.R. e poi dell’Armata Italiana in Russia? Cosa vi ha penalizzato di più?

L’idea di essere comandati dai Tedeschi. Era la cosa più antipatica. Noi in fondo ricevevamo ordini da loro.

Signora Lucia: Se ti dicessero oggi di andare, di partire volontario, lo faresti?

Prof. Segalla: Be’, Zoccai fu volontario per l’esercito, non per la Campagna di Russia (significa che si era arruolato prima della decisione di Mussolini di partecipare all’Operazione Barbarossa, n.d.r.). Tanto è vero che fece anche una brevissima esperienza in Albania.

 

Cos’era il klub?

Era il luogo dove si riunivano gli antifascisti. Quelli più meritevoli venivano mandati in altri campi, a frequentare una scuola. A Tambov il klub era il bunker dei brigadieri, quelli – cioè – che comandavano una brigata, composta da 28-30 prigionieri. Se eri un brigadiere ti salvavi la vita, perché mangiavi di più. Ma per essere nominato brigadiere dovevi accettare la rieducazione politica e diventare antifascista. Oltre ad avere la responsabilità della loro brigata, i brigadieri riferivano al comandante del campo e all’NKVD in merito agli umori dei prigionieri, ai loro discorsi.

 

Da Tambov a Gubaha dove, se ben ricordo, finì in carcere per aver raccolto la cicca di una sigaretta gettata da un ufficiale russo.

Mi portarono in un bunker vuoto e lì passai la notte. Al buio completo e al freddo. Per una cicca, per la gran voglia di fumare.

 

A volte, nel leggere le testimonianze di reduci dalla prigionia, mi sono stupita di questa cosa. C’era il bisogno spasmodico di cibo, ma c’era anche il desiderio enorme di procurarsi delle sigarette. Alcuni barattavano il pane per avere tabacco... sembra un controsenso.

L’ho fatto anch’io. Scambiavo pane o altre cose per avere la machorka. A dire il vero era più segatura, che tabacco. Siccome carta non ce n’era, i prigionieri usavano i fogli de L’Alba per arrotolarsi le sigarette.

Signora Lucia (rivolta a me): Lo sa che ne aveva portato un po’ a casa, di quel tabacco?

 

Fin da ragazzo sapeva suonare la cornetta. A Gubaha queste sue competenze musicali le offrirono un vantaggio, in termini di cibo, almeno per un po’ di tempo.

Signora Lucia: Lui sapeva suonare Giovinezza, ma qualcuno fece la spia e disse che era una canzone fascista, così l’incarico di “musicista” fu affidato a un altro prigioniero.

Però suonai anche dopo, quando mi trasferirono nei campi in Asia. Con la tromba davo la sveglia, poi mi presentavo in cucina con la mia ciotola e mi offrivano un po’ di brodaglia, di zuppa. Mangiavo qualcosa in più.

 

Le è mai capitato di vedere cosa mangiavano i brigadieri? E, se lo sa, quali differenze – qualitative e quantitative – c’erano tra il cibo per voi e quello per le guardie sovietiche del campo?

La differenza enorme, sia per qualità sia per quantità, l’ho notata quando in Asia (campi di Pahta-Aral, n.d.r.), arrivarono i prigionieri giapponesi. Ricevevano il doppio o il triplo di quanto davano a noi. Prima dell’arrivo dei Giapponesi... i brigadieri e i capoccioni italiani del campo mangiavano senz’altro molto meglio di noi. Per esempio. Ogni tanto ci mandavano in una zona che chiamavamo la steppa delle tartarughe. Riempivamo una carretta di tartarughe, che venivano poi usate per arricchire la zuppa. Io, però, non vidi mai un briciolo di quella carne. Sempre e solo brodaglie. La carne di tartarughe, quindi, se la mangiavano loro, quelli che comandavano. A volte arrivava anche pesce. Era pesce secco e salato, che spesso era già guasto all’arrivo. Nella nostra ciotola capitavano al massimo due o tre piccole lische. Eravamo fortunati quando ci capitava una foglia di cavolo.

Signora Lucia: E i fuoriusciti?

Mangiavano con i Russi, non con noi.

 

Il cibo come ossessione. Un prigioniero aveva altri pensieri, a parte quello di mangiare?

Non c’era più famiglia, non c’erano altri interessi se non mangiare. Questo valeva per tutti, indistintamente.

 

Come ha già anticipato, nell’estate 1943 lasciò Gubaha: in settembre giunse nella zona di Pahta-Aral. Molti Italiani lavorarono in questo complesso di campi, coltivando e raccogliendo il cotone. Come lei spiega nel suo libro, si trattava di un’attività molto impegnativa. Anche una zappa poteva fare la differenza. Vuole raccontarci qualcosa al riguardo?

C’era un magazzino con gli attrezzi e ai deboli capitavano sempre gli attrezzi più pesanti e difficili da maneggiare, perché i prigionieri più forti riuscivano a correre e raggiungevano il magazzino per primi. C’erano delle zappe che pesavano l’ira di Dio e nessuno le voleva. Ma tutto questo accadde in seguito. Quando arrivammo noi – nel settembre 1943 – il cotone era già piantato, quasi pronto. La raccolta del cotone sembra facile ma, al contrario, è un lavoro molto gravoso. Anche a causa della famosa norma. Bisognava raccogliere quel tanto, altrimenti non si mangiava.

Signora Lucia: Facevano la pipì dentro al sacco, per appesantire il cotone e raggiungere la norma. (Ride)

 

Questo nel libro non c’è. Descrive altri stratagemmi per imbrogliare i Sovietici quando arrivava il momento di pesare il sacco con il cotone raccolto.

Il problema era che la norma veniva fissata dai brigadieri. Riuscivano a raccogliere anche trenta-quaranta chili, loro. Perché mangiavano. Io, tanto per fare un esempio, non riuscivo neppure a fissarlo, il fiocco di cotone. Ballava davanti agli occhi per la debolezza. Cercavamo di usare entrambe le mani, per andare più in fretta e raggiungere i trenta-quaranta chili stabiliti. Ci davano un sacco che legavamo alla cintura. Bisognava trascinarlo... all’inizio era leggero, ma quando raggiungeva una ventina di chili...

 

La norma – cioè il risultato lavorativo minimo da raggiungere per evitare decurtazioni sulla razione di cibo giornaliero – divenne qui il suo incubo, tanto che – in condizioni critiche – venne ricoverato all’ospedale di Kokand. Come fu assistito?

Successe per colpa dell’erba grassa: molti prigionieri – per la fame – iniziarono a cibarsi di questo tipo di erba. Io vedevo che chi la mangiava produceva una bava verde e per un po’ resistetti. Anzi, consigliai di non mangiarne, perché immaginavo fosse nociva. Alla fine, però, la mangiai anch’io... pur di mettere qualcosa sotto i denti. Così finii all’ospedale, moribondo. C’era un soldato che mi curò amorevolmente, e una dottoressa bravissima. Era anziana e buona. Mi diedero la zuppa con il pomodoro: da tanto non ne mangiavo, mi sembrò una cosa straordinaria perfino annusarne l’odore.

Mi fecero anche delle trasfusioni di sangue.

Signora Lucia: Una volta mi hai raccontato che in ospedale c’era un gran vetro. Ci passasti davanti...

(rivolta a me) Non riconobbe il suo riflesso, da tanto non si vedeva allo specchio e quella sagoma era cadaverica...

(rivolta a Lelio Zoccai) Quanto pesavi?

Quarantasei chili. Appena giunsi all’ospedale mi fecero delle punture che subito migliorarono il mio stato. Non so che roba fosse. Dopo il rimpatrio chiesi informazioni ai medici italiani, ma non seppero rispondermi. Quelle iniezioni producevano un effetto strano, una vampata di calore. E io mi sentivo bene, rilassato. I Russi avevano dei medici efficienti e dei farmaci efficaci, per quanto ho potuto sperimentare io.

 

In ospedale dormiva su un vero letto?

Era una specie di branda, con le lenzuola. Quello fu l’unico periodo della prigionia in cui stetti bene. Anche se avevo sempre una gran fame.

 

Dopo l’estate 1945 iniziarono i rimpatri. Nei cinque campi della zona di Pahta-Aral – a ottobre – rimasero pochissimi prigionieri italiani. In seguito, come lei racconta, in questi campi arrivarono prigionieri di guerra giapponesi. Ne ha accennato anche poco fa. Ebbe qualche contatto con loro?

I Giapponesi arrivarono con le loro armi bianche. Sciabole meravigliose. I Russi gliele requisirono e i Giapponesi protestarono parecchio. Erano armi da samurai. In quel periodo tutti i prigionieri italiani ormai erano partiti, io ero rimasto solo. Avevo imparato qualche parola di russo. Lavoravo in un magazzino, ed ebbi la possibilità di mangiare zucchero e burro salato, finché volevo. Mi irrobustii. Con una carretta trainata da cavalli andavo fino alla ferrovia – che distava una quindicina di chilometri – e riportavo al campo quanto era necessario...

Ricordo sacchi di una specie di riso o grano e quando poi li scaricavo, i Giapponesi, piuttosto piccoli di statura, commentavano stupiti: “Guarda l’Italiano, com’è forte!”

 

Riferendosi alla catena di comando nei campi di prigionia sovietici, lei parla di organizzazione piramidale. Può spiegare – in pratica – in cosa consisteva?

A Pahta-Aral esisteva una gerarchia abbastanza rigida. C’erano il comandante russo del campo, il comandante italiano, il comandante di colonna – che controllava tre o quattro brigate di lavoro – e infine c’erano i brigadieri delle singole brigate.

Questa organizzazione – però – l’ho vista soltanto nei campi di Pahta-Aral. In precedenza era tutto più confuso, da quel punto di vista.

All’esterno del campo si trovavano le baracche dei soldati russi addetti alla nostra sorveglianza. Erano territoriali, feriti o invalidi. Al di sopra di tutti, però, a dare le direttive c’era l’NKVD.

 

Come veniva scelto il comandante italiano?

Poteva essere un soldato qualsiasi. L’importante era che sapesse parlare russo.

 

Di recente ho letto un libro che parla dei prigionieri di guerra italiani nella ex Unione Sovietica. La differenza basilare tra chi venne catturato sul fronte orientale e chi – invece – sugli altri fronti di guerra fu il massiccio tentativo di rieducazione ideologica operato dall’NKVD. Dopo il suo rientro in Italia, ha conosciuto reduci da altri fronti? Cosa le hanno raccontato?

Conosco una persona che fu catturata dagli Inglesi sul fronte africano e trascorse la prigionia in Inghilterra: lui e altri soldati italiani formarono una squadra di calcio e giocarono delle partite. Noi stavamo in piedi a malapena, figurarsi correre dietro a un pallone. Mangiava bene e, al momento del rimpatrio, ricevette dei soldi per il lavoro che aveva svolto in prigionia. E, da quel che so, anche per quelli che finirono in America fu così.

La nostra tragedia fu la norma: qualunque tipo di lavoro ti fosse assegnato tu dovevi raggiungere un obiettivo minimo, che però era calcolato sulle possibilità di un uomo forte. I Russi calcolavano quanto lavoro riusciva a svolgere un uomo in buone condizioni fisiche in un’ora, e moltiplicavano quel tanto per otto o dieci ore, a seconda delle mansioni. E a quell’obiettivo dovevano arrivare i prigionieri. Naturalmente la maggior parte di noi non ci riusciva. E allora veniva diminuita la razione di pane.

 

L’intento di rieducare i prigionieri italiani portò a una sorta di frattura evidente all’interno dei lager. Fratture in alcuni casi dolorose, se si pensa ad amici che si trovarono a pensarla in modo diverso.

Chi diventava brigadiere – e come ho detto i Russi assegnavano tale compito a chi si dimostrava antifascista – riusciva a mantenere la sua mansione soltanto comportandosi in un certo modo. In parole povere i brigadieri italiani dovevano trattare male gli altri italiani prigionieri, altrimenti i Russi avrebbero assegnato il posto di brigadiere a qualcun altro. E siccome i brigadieri mangiavano di più...

 Inoltre, come ho detto prima, i fuoriusciti e l’NKVD si aspettavano dai brigadieri dei rapporti settimanali sul clima esistente fra i prigionieri. E molto spesso, pur di conservare i loro privilegi, pur di avere qualcosa da raccontare ai Russi, si inventavano le cose, o perlomeno le esageravano. E questo comportamento fu adottato anche da alcuni miei amici.

 

La fiducia, nel lager, era diventata un lusso?

All’inizio era naturale – fra prigionieri, soprattutto fra amici – parlare degli avvenimenti di guerra e delle esperienze in cui eravamo stati coinvolti. Un mio amico andò a raccontare al commissario politico del campo, e quindi all’NKVD, che noi andavamo nei villaggi russi per saccheggiarli, per prendere ostaggi e fucilarli.

Prof. Segalla: Erano esagerazioni. C’era una guerra, sì, ma il compito dei soldati italiani e dei guastatori non era certo quello di entrare nei villaggi, sequestrare le persone e ucciderle. Questo non fu mai fatto. Ma, proprio per il suo rifiuto di accettare tali accuse durante gli interrogatori successivi, Lelio Zoccai fu trattenuto in Unione Sovietica.

Signora Lucia: Fino al 1950.

 

A causa di queste delazioni, l’NKVD la teneva maggiormente sotto controllo, rispetto ad altri prigionieri. Come già accennato dal professor Segalla, venne sottoposto ai primi interrogatori. Vuole parlarne?

Erano interrogatori pesanti. Con la spada di Damocle della Siberia.

Dicevano: “Ti facciamo morire.” Durante questi primi interrogatori mi trovavo ancora a Pahta-Aral. Cercarono di convincermi: “Tu non hai nessuna colpa. La colpa è del tuo governo. Se riconosci che hai partecipato a dei saccheggi, noi ti mandiamo a casa. Perché sappiamo che un soldato deve obbedire agli ordini superiori e quindi tu non hai alcuna responsabilità.”

Io non ho mai ammesso nulla, perché nulla del genere era mai successo.

Signora Lucia: Fecero pressioni per avere dei nomi di ufficiali da accusare. Alcuni degli ufficiali prigionieri, per esempio il dottor Reginato, dopo il rimpatrio vennero a trovare mio marito. Venne Ioli. Vennero i tre generali, Battisti, Pascolini e Ricagno.

Un ricordo molto brutto di quel periodo, quando mi trovavo a Pahta-Aral e diventò abbastanza netta la suddivisione fra chi aveva deciso di seguire la propaganda sovietica e gli altri che invece non l’accettarono, fu quando a un gruppo di antifascisti, quelli ritenuti più meritevoli, più affidabili, venne affidata la mansione di scortarci al lavoro. Noi, prigionieri italiani in Unione Sovietica, eravamo sorvegliati da altri italiani armati.

 

Zoccai

 

Parte 3 - Odessa 1946: trattenuto in prigionia

 

Nell’estate 1946 si trovava a Odessa.

Sì, stavano per rimpatriare anche gli ufficiali, ma fui rinchiuso – insieme a un gruppetto – in uno stanzone. Gli altri partirono e noi rimanemmo lì. Fu un momento terribile.

 

Non ebbe nessun preavviso di quanto accadde? Niente le aveva fatto pensare che l’avrebbero trattenuta?

No, nulla.

 

A Odessa per qualche giorno lavorò in una fabbrica, insieme ad alcuni civili, con i quali ci furono pochissime occasioni di incontro. Una loro frase – che lei riporta nel suo volume – mi ha colpito: “In Russia un terzo della popolazione è in galera, un terzo c’è già stato, un terzo dovrà andarci.” Desidera commentare?

All’epoca nessuno dei Sovietici era contento del regime di Stalin, ma avevano tutti il terrore di dire quanto pensavano. Perché chiunque, persino un familiare, poteva denunciarti e farti finire alla Lubianka o in un campo. Quei prigionieri, civili, si confidarono un pochino, sapendo che anche noi eravamo prigionieri. Dicevano: “In Italia c’è il caldo, si sta bene...”

Lavoravano malvolentieri e il meno possibile e imbrogliavano sistematicamente per raggiungere la norma.

 

Di sicuro c’erano anche Sovietici orgogliosi del loro Paese, al punto da apparire ingenui. Mi viene in mente un episodio nel suo libro: racconta di un Sovietico che si vantava dell’elettricità, che permetteva di accendere le lampadine, convinto che noi fossimo molto più arretrati.

Sì, è vero; alcuni sbandieravano – per esempio – la radio, come se da noi in Italia non esistesse ancora. Noi raccontavamo che a casa usavamo il rasoio elettrico per raderci, o che le donne usavano aghi d’acciaio per cucire. Loro non ci credevano... non avevano nulla.

 

Ottobre 1946, Kiev. Interrogatori dell’NKVD, e poi la prigione. Di cosa, in concreto, venne accusato?

Il ritornello era sempre quello: “Ammetti che voi Italiani avete trattato male la popolazione, firma questo foglio, e noi ti lasciamo tornare a casa.”

Desideravano un pretesto qualsiasi per incolpare gli ufficiali rimasti, ma noi – mi riferisco a quelli che erano stati trattenuti dopo il rimpatrio di tutti gli Italiani tra il 1945 e il 1946 – eravamo solidali. Facemmo anche lo sciopero della fame. Ci rifiutammo di lavorare. Eravamo un gruppo unito, tredici o quattordici, più quegli ufficiali a cui, come noi, era stato impedito il rimpatrio. I prigionieri ungheresi e tedeschi presenti in quel campo a Kiev ci ammiravano per la nostra compattezza, e noi ne eravamo orgogliosi.

 

Immagino il suo stato d’animo: per lei cominciò una prigionia diversa e ancora più difficile da sopportare, nonostante avesse già vissuto momenti molto duri da quando era stato catturato. Cosa le pesava di più? Mi riferisco agli anni dal 1946 al 1950.

La solita fame. Il carcere. Gli interrogatori notturni. C’era un ufficiale che con un righello mi colpiva la schiena e il collo. Il giorno successivo non riuscivo neppure a muovere la testa.

 

I lager nazisti sono tristemente famosi. Quelli sovietici, pur essendo durissimi, vengono ritenuti diversi sotto alcuni aspetti. Se ci riferiamo in modo particolare ai campi per prigionieri di guerra, si è detto spesso che le condizioni di vita erano sì davvero difficili, e che la sopravvivenza – soprattutto nei primi mesi – fu quasi impossibile. Ma si parla più che altro di disorganizzazione, di impreparazione nel gestire un così alto numero di prigionieri, e non di maltrattamenti fisici veri e propri. Quanto mi sta raccontando, e ciò che ho letto in alcune pagine del suo libro, smentisce questa opinione.

Durante gli interrogatori venivo quasi sempre picchiato.

Prof. Segalla: Utilizzavano anche una specie di bara, dove il prigioniero veniva rinchiuso, senza che gli venisse detto se e quando l’avrebbero tirato fuori. Credo sia facile, durante un’esperienza simile, sfiorare la pazzia.

 

Per quanto tempo un prigioniero veniva lasciato in questa sorta di cassa da morto?

Questa bara si trovava nel carcere, all’ingresso dello stanzone dove venivano prese le impronte digitali. Chiuso lì dentro mi sembrava di impazzire. Poi mi resi conto che quello era un modo per evitare qualunque contatto fra i prigionieri in attesa di interrogatorio e quelli che, invece, i Sovietici avevano appena finito di interrogare e venivano riportati in cella. Temevano che in qualche modo riuscissimo a comunicare, ci scambiassimo informazioni.

 

Quanto influì l’impossibilità di corrispondere con la sua famiglia durante tutti i lunghi anni della prigionia? Se non erro lei riuscì a far giungere a Thiene un’unica lettera, in modo davvero fortuito.

Ogni tanto distribuirono delle cartoline, in effetti. Ma sapevamo che erano un mezzo dell’NKVD per ottenere informazioni di qualunque tipo su di noi e sulle nostre famiglie.

La lettera di cui parlo nel libro fu nascosta all’interno di una spazzola, che affidai a un ufficiale ungherese in procinto di tornare a casa. Una volta rimpatriato, la spedì ai miei familiari. Solo allora seppero che ero ancora vivo.

 

Fu un modo ingegnoso. Ma questa persona rischiò molto.

Sì, nel caso lo avessero scoperto non lo avrebbero lasciato partire.

 

Suppongo che dai suoi familiari lei non abbia mai ricevuto posta.

Mai. Nel 1946, quando lasciai Pahta-Aral per raggiungere Kiev – pensando di essere rimpatriato insieme al grosso degli ufficiali – passai per Mosca, dove c’era un altro gruppetto di prigionieri. Le guardie, convinte che saremmo tornati a casa, furono molto permissive. Una di loro ci accompagnò nei pressi della Lubianka, non ricordo bene, e ci mostrò uno stanzone pieno di nostra corrispondenza. La sorella di Togliatti – a quanto mi dissero – era incaricata della distribuzione della posta a noi Italiani. Mi riferisco alla posta proveniente dal nostro Paese, lettere e lettere che le famiglie inviavano nella speranza di avere notizie. Lettere che non vennero mai consegnate ai prigionieri.

 

Quando la sua famiglia ricevette quell’unica lettera, grazie all’ufficiale ungherese, e scoprì che lei era ancora vivo, quali iniziative intraprese, a chi si rivolse nel tentativo di riaverla a casa?

So solo che i miei familiari contattarono un ufficiale russo a Sanremo, gli diedero dei soldi per avere mie notizie, ma fu tutto inutile. Non scoprirono nulla.

Prof. Segalla: Si viveva in quel periodo una fase di omissione di informazioni da parte sovietica e di tentativi poco efficaci da parte della politica e della diplomazia italiana per cercare di scoprire qualcosa sulla sorte dei prigionieri di guerra in U.R.S.S.

Signora Lucia: Però poi ci fu quel processo... Ci andò anche quella che sarebbe diventata mia suocera. Il processo servì a dare risonanza alla questione dei prigionieri italiani in Russia.

 

Sta parlando del Processo D’Onofrio (1949, n.d.r.).

Signora Lucia: Sì. Il processo servì anche a fare capire che qualche prigioniero era stato trattenuto, e che gli sforzi per riportare quei soldati a casa dovevano proseguire. Vero, Lelio?

Si raccontava che esistevano soldati italiani che si erano uniti con donne russe ed erano quindi rimasti volontariamente in Unione Sovietica. Devo precisare di avere conosciuto due o tre Italiani che avevano vissuto un’esperienza simile. Ma erano finiti nel lager come tutti gli altri. La popolazione non poteva rischiare di nascondere dei soldati italiani.

 

Mentre era in carcere, in isolamento – non ho capito se a Rossoš’ o a Kiev – trovò un amico particolare. Un passerotto.

Signora Lucia: Glielo portarono via.

Questo mi fece stare male per parecchi mesi. E ci sto male anche adesso, nel ricordare. Quel passerotto era un compagno, per me. Il mio compagno di cella. Mi seguiva. Prendeva le briciole di pane dalle mie labbra.

Signora Lucia: Ma cosa ti disse quella dottoressa russa?

Disse che il passerotto era nato libero e libero doveva ritornare. Disse che io – proprio perché ero prigioniero – sarei dovuto essere contento di ridargli la libertà e che non potevo desiderare di fargli fare la mia fine.

Prof. Segalla: Questa fu una giustificazione di tipo consolatorio... In realtà i Sovietici si erano fatti una loro idea su quell’uccellino.

In seguito, durante un interrogatorio, quelli dell’NKVD mi dissero: “Guarda che sappiamo tutto, di te. Sappiamo che hai addestrato un passero per mandare messaggi agli altri prigionieri.”

 

E quella dottoressa le era sembrata sincera, invece?

Sì, lei era davvero dispiaciuta, continuava a ripetere che il passero doveva tornare libero... mentre io purtroppo sarei dovuto restare lì. Dalle donne russe devo ammettere di avere sempre ricevuto un trattamento molto gentile. Un comportamento ben diverso adottarono i funzionari dell’NKVD e la polizia politica.

 

A proposito dell’NKVD e degli interrogatori... lei era in grado, a quel punto, di esprimersi in russo o aveva bisogno di un interprete?

Sì, mi facevano le domande in russo e in russo rispondevo. A volte era presente un ufficiale russo che conosceva l’italiano. Questo succedeva quando insistevano per farmi firmare il foglio con le solite accuse. L’ufficiale a sua volta cercava di convincermi, spiegandosi in italiano. Ma io rifiutai ogni volta perché – nonostante ormai sapessi parlare il russo e comprendessi bene quanto mi dicevano – non riuscivo a leggere il cirillico. Proposi loro di presentarmi un foglio con le accuse in italiano, ma la mia richiesta cadde nel vuoto.

Interrogatorio dopo interrogatorio, emerse anche l’accusa principale nei miei confronti: dicevano che avevo ucciso un Russo durante un combattimento, ma con crudeltà, con accanimento.

Anche agli altri trattenuti (a tale proposito è utile la lettura del libro di F. Bigazzi ed E. Zhirnov, Gli ultimi 28, edito da Mondadori, n.d.r.) furono mosse accuse specifiche, con il protrarsi della prigionia: a Sardisco, per esempio, contestarono il furto di un tascapane di patate; per gli ufficiali l’imputazione era di avere favorito il fascismo e di avere fatto propaganda fascista; il maggiore Zigiotti, che soffrì sempre moltissimo di questa accusa, fu incriminato per avere aperto delle case di tolleranza.

 

E non era vero.

No.

 

Però c’erano case simili per i soldati italiani.

Sì, è vero, c’erano. Ma il maggiore Zigiotti non c’entrava nulla.

 

Lei sa come venissero organizzate?

Non le ho mai viste. Però c’erano, si sapeva.

 

Parte 4 - Il rimpatrio

 

Nel luglio 1950 finalmente il rimpatrio. Come fu il viaggio di ritorno?

Il viaggio andò bene... eravamo contenti di tornare a casa. Solo che in treno con noi c’era un certo Mottola.

 

Tristemente famoso.

Avremmo voluto scaricarlo dal treno perché fu uno di quelli che più si accanirono a raccontare fandonie all’NKVD. Anche su se stesso: si era spacciato per ufficiale dell’aviazione, mentre era un normalissimo soldato. Prima di arrivare in Italia salirono sul treno dei carabinieri che lo portarono via. Non lo vidi più.

Un signore in treno, saputo che stavamo tornando dalla Russia, ci diede 5.000 am-lire. Pensammo di avere ricevuto una fortuna, invece non sapevamo che, con la svalutazione, quella somma non valeva mica tanto. Arrivati a Tarvisio, andammo a mangiare e la signora del ristorante, dopo avere sentito da dove venivamo, non ci fece pagare nulla.

 

Rientrare dopo tanti anni, ritornare a una vita normale fu di sicuro complicato. Cosa pensava di trovare in Italia, e non trovò, e cosa non si aspettava di trovare e invece trovò?

A Tarvisio pensavo di trovare un’accoglienza calorosa, mica mi aspettavo la banda. Però...

Ci portarono in un magazzino pieno di indumenti americani e ci dissero: “Sceglietevi un vestito.” Noi eravamo coperti di stracci e ricordo che presi per me un abito marrone.

Signora Lucia: Invece della fanfara ad accoglierlo c’era sua madre.

Sì, mia madre venne a prendermi con una macchina che ci portò da Tarvisio a Thiene.

Signora Lucia: In macchina Lelio cominciò a lamentarsi del trattamento ricevuto dai comunisti.

Cercai di spiegare il regime comunista a mia madre.

Signora Lucia: E la madre gli diceva: “Sshh, sta’ zitto che l’autista è comunista anche lui.”

Come faceva sua madre a sapere che quell’uomo era comunista?

Lo sapeva perché aveva noleggiato l’auto e il conducente a Thiene. Lo conosceva di vista.

 

Chi arrivò a Tarvisio insieme a lei?

Ricordo alcuni nomi... Sardisco, Passafiume, Spolveroni, Santaniello, Schellenbrid...

 

Come fu accolto, una volta a Thiene?

Tornato a casa, ero convinto che il popolo italiano fosse così intelligente da non potere essere comunista. Invece in molti avevano abbracciato quelle idee. Due o tre giorni dopo il rimpatrio, vennero a trovarmi alcuni amici. Mi chiesero di raccontare la mia esperienza. E io, senza nessuna cautela, dissi cosa mi era successo. Mi invitarono anche in Comune: “Zoccai, ci dica qualcosa...” Io iniziai a parlare a ruota libera. Mi fermarono subito, in maniera diplomatica: “Abbiamo capito, Zoccai, grazie. Sappiamo quanto ha sofferto.” Non riuscii più a proseguire il discorso.

 

Burocrazia e istituzioni. Ho letto nel libro una sua lettera molto amara, indirizzata all’Ufficio Pensioni di Roma. Mi pare che lei abbia rinunciato al suo diritto di percepire una pensione di guerra.

Avevo delle ferite e, poco dopo il rimpatrio, mi ricoverarono all’ospedale. Vi rimasi quasi due anni. Quasi un anno a Padova, e poi a Torino. Mi curai, tra l’altro, a spese mie. Mi assegnarono 1.200 lire di pensione al mese.

Signora Lucia: Ma la condizione per ricevere quella piccola pensione era di passare quindici giorni all’ospedale militare.

Sì, periodicamente avrei dovuto presentarmi a Roma, per le visite di controllo. Siccome avevo iniziato a lavorare, decisi che non valeva la pena assentarmi dal lavoro e trascorrere quindici giorni a Roma, per percepire una somma così modesta. Rinunciai alla pensione.

Signora Lucia: Arrivarono i Carabinieri, per ritirare il libretto della pensione a cui Lelio aveva rinunciato. Ma lui rispose che aveva incorniciato il libretto come ricordo e che non lo avrebbe consegnato.

Esatto. Dovrebbe essere ancora nella sua cornice.

 

Lei tornò molto amareggiato, inutile negarlo, e desideroso di avere un confronto con chi, a causa di delazioni e false denunce, aveva contribuito al prolungarsi della sua prigionia. Nel libro è presente anche il testo di una lettera che lei – più di sessant’anni dopo quelle vicende – scrisse a un commilitone che, come è scritto nel volume, a Pahta-Aral vendette l’onore per un mestolo di brodaglia. Ha mai ricevuto risposta?

No, nessuna risposta. Sapevo che quella persona era viva, ma non sapevo dove cercarla. Quindi gli scrissi attraverso le pagine del mio libro... quella lettera non fu mai spedita, in realtà.

 

Questo non l’avevo capito, a dire il vero.

Non riuscii a rintracciarlo. Quindi pubblicare la lettera sul libro fu il mio modo di comunicare con lui.

Prof. Segalla: Vorrei sottolineare che a Lelio Zoccai, contrariamente a molti reduci dalla prigionia, non fu mai assegnata nessuna decorazione. Per rimediare, pur a tanti anni di distanza, l’Associazione Nazionale dei Guastatori consegnerà al signor Zoccai un riconoscimento all’inizio di settembre.

 8 settembre 2011 - Lelio Zoccai riceve un'onorificenza dall'Associazione Nazionale Guastatori

 

La poesia come antidoto alla disperazione: nei lunghi giorni dell’isolamento nel carcere duro di Rossoš’ lei compose versi che, sprovvisto di carta e penna, impresse a memoria nella sua mente. Mi ha colpito Anticamera del Gulag, dedicata alle prigioniere politiche che lei scorgeva a fatica dal cortile del carcere. Sarei felice se mi desse l’opportunità di pubblicare almeno le ultime due quartine, come conclusione di questa intervista.

 

E ora vorrei immortalare

la storia, o bella straniera,

di queste, votate a penare

ma bada, la voglio sincera.

Ti prego, racconta di tutte,

o meglio, non dirmi più niente,

tanto vi ho già conosciute

e credo ognuna innocente.

 

 Lelio e sua moglie Lucia - Settembre 2011

 

 

Fine

 
 
 

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