di Tina Levati
Sono l'unica figlia di un fante del 53° Reggimento Fanteria “Vercelli” della Divisione Sforzesca, il caporale maggiore Mario Levati, morto precocemente a causa delle gravi sofferenze patite in Russia.
Il mio papà non ha potuto fare sentire la sua voce, ma conosco una parte di quello che lui avrebbe raccontato e, soprattutto, quanto riguarda il rientro in Italia dopo la lunga prigionia, che ho sentito raccontare più volte dalla mia mamma.
Ora io voglio essere la voce di mio padre.
Mario, nato il 27 maggio 1911 a Gorgonzola (MI), dopo il servizio militare e dopo avere preso parte alle operazioni in Africa (1935-1936), aveva fondato una piccola fabbrica di ceramica, a Legnano.
Richiamato, partì per il Fronte Greco-Albanese nel gennaio 1941, quando io avevo pochi mesi, e rientrò in Italia nel luglio di quell’anno.
Richiamato ancora una volta con la sfortunata classe 1911, divenne caporale maggiore nel febbraio 1942, poi lasciò di nuovo il nostro Paese, diretto al Fronte Orientale, sempre assegnato al 53° Reggimento della Divisione Sforzesca.
Era il 26 giugno 1942.
Il lungo viaggio sulle tradotte lo condusse fino alla zona di Har’kov; poi proseguì a piedi per quasi ottocento chilometri (circa 30-35 chilometri al giorno) con pesante zaino e fucile in spalla nel caldo dell'estate, con la sete e la stanchezza, con la paura della guerra e dell'ignoto e il pensiero volto a casa, a me e a mia madre.
La Divisione Sforzesca giunse ai primi di agosto al fronte del Don, nella zona di Simovskij. Ebbero inizio i combattimenti senza che vi fosse il tempo di preparare il terreno con postazioni e ricoveri adeguati. Sul fianco sinistro era posizionato il 3° Reggimento Bersaglieri.
La Sforzesca arretrò – e con essa mio padre – in una giornata di tempo avverso; tutto infangato, papà si rifugiò in un'isba insieme a un commilitone. Due donne non esitarono a cedere i loro letti ai due Italiani. Papà mi ha sempre parlato bene della popolazione russa che in ogni occasione cercò di aiutare i nostri soldati con quel poco che aveva.
Durante la Prima Battaglia Difensiva del Don la Sforzesca subì perdite ingentissime.
Venne chiamata Divisione Cikai, cioè la divisione che scappa, ma a me non pare giusto. Papà diceva che gli Italiani combattevano con coraggio ma che l’armamento in dotazione non poteva fare molto contro quello dei Russi. Mi domando anche: quando le forze sono così impari, è giusto rimanere sul posto e farsi ammazzare tutti?
Quando poteva papà scriveva alla mamma, che nel frattempo si era trasferita a casa di una sorella sposata per lavorare da lei e mantenere sé stessa e me. Fece grandi sacrifici per non farmi mancare nulla e non perse mai la speranza di rivedere il marito.
Per quarant’anni ho visto nell’armadio il pacco delle lettere che papà le aveva spedito dal Fronte Orientale, ma non mi sono mai sentita di andare a curiosare.
Sono rimasta molto male, addolorata e amareggiata quando, nel 1983, le ho chiesto di poter leggere quei documenti e mi sono sentita rispondere che aveva distrutto tutto solo sei mesi prima, in quanto stava diventando vecchia e non voleva lasciare quelle lettere che considerava private e sentimentali. Perciò posso raccontare solo quanto ricordo.
La notte tra il 21 e il 22 Agosto mio padre venne mandato di pattuglia con quattro suoi soldati. Al buio furono circondati da alcuni Sovietici. Si buttarono in un fossato senz’acqua ma furono costretti a uscire con le mani in alto gridando “Italianski” poiché avevano compreso che i Russi – scambiandoli per Tedeschi – volevano ucciderli.
Mio padre fu l'ultimo ad arrendersi e venne picchiato sulla schiena col calcio del fucile. Da quel momento cominciò la sua odissea disumana e tragica, che richiederà tutto il suo coraggio e tutte le sue forze.
La mamma ricevette un telegramma dal suo Colonnello che dichiarava mio padre “disperso sul fronte del Don il 21 agosto 1942”.
Papà, dopo avere marciato a lungo, raggiunse il campo n. 50, a Frolovo (nella regione di Volgograd); tra la stanchezza, l'umiliazione della prigionia e la fame ebbe modo di pensare che lui, uomo di pace, ottimista, solare e gioviale di carattere, era stato coinvolto in guerre che gli Italiani non avrebbero dovuto intraprendere. Ma la Patria lo aveva sempre chiamato e il suo dovere era di essere là.
Già quando aveva dovuto combattere in Grecia si era chiesto: “Cosa ci hanno fatto di male i Greci, che noi siamo andati ad attaccare sulla loro terra?”
L'ansia, la paura e i timori dell'ignoto erano, ora che era stato catturato, al massimo e gli interrogativi erano molti: “Sarà breve questa prigionia? Sarà una guerra lampo come ci hanno sempre lasciato credere?” Si ripeteva: “Devo sopravvivere, non mi lascerò morire, devo rivedere la mia bambina e mia moglie e i miei genitori. Devo tornare in Italia, davai Italia... Tornerò in Italia. Questo sarà il mio credo, sarà sempre il mio grido. La guerra un giorno finirà e mi dovrà trovare ancora vivo.”
La sua forza di volontà prevalse su qualsiasi crudeltà, su qualsiasi cosa subita in quei lunghi anni.
Dopo Frolovo venne trasferito al campo n. 100, a Belovolsk (nella regione di Ciuvaska); poi al n. 26, a Čiuamà (in Uzbekistan), al n. 260 a Orsk (nella regione di Orienburg), al n. 262 a Gur’ev (in Kazakhstan) e infine, forse di passaggio sulla via del ritorno, al n. 69 che i Sovietici non hanno mai rivelato dove si trovasse.
Questi trasferimenti vennero confermati negli anni '90 dal Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti, che mi ha fatto avere copia di un elenco del KGB in cirillico nel quale, grazie alla traduzione in lingua italiana, troviamo
Levati Mario, nato 1911, Cap. Mag. Div. Sforzesca 54 Ftr. – II btg - 5ª Cp.
Forse poco prima della sua cattura i resti del 53° Reggimento erano stati uniti a quelli del 54°, o forse si trattò di un errore di trascrizione.
Durante i trasferimenti fra un campo di prigionia e l’altro i prigionieri viaggiavano su carri bestiame; se la distanza da percorrere era notevole i soldati di scorta buttavano loro due saracche a testa che provocavano aspre contese. La fame e la sete erano insopportabili: quando aprivano i carri per scaricare i morti o durante le lunghe soste in aperta campagna i prigionieri si disperdevano per raccogliere e masticare ogni erba, pelle di patata, radice, semi di girasole, osso o avanzo di cibo che riuscivano a trovare.
“Io devo tornare in Italia.” Quindi... via, alla ricerca di qualsiasi schifezza.
Quando rientrò dalla prigionia mio padre fu costretto a rifarsi i denti, rovinati dal masticare le ossa. Mi raccontò che un'unica cosa non era mai riuscito a mangiare: il cuore dei compagni morti. Di notte i cadaveri venivano aperti da chi non ce la faceva più a sopportare i morsi della fame.
Nei lager, anche se si era dimagriti all'osso, bisognava lavorare e chi non ce la faceva riceveva meno brodaglia. I Sovietici avevano stabilito una norma, cioè una certa quantità di lavoro da svolgere (per esempio poteva trattarsi di cotone da raccogliere o di legna da spaccare nei boschi).
I prigionieri più giovani e forti aiutavano spesso papà a raggiungere la norma per la legna altrimenti egli sarebbe rimasto senza cibo.
“Io devo tornare in Italia.” Quindi, tutti insieme... forza e coraggio!
Il campo 26 a Čiuamà distava da Mosca circa settemila chilometri; era situato vicino ad Andižan, in una valle che è tuttora chiamata La Valle della Fame, quasi al confine con la Cina. Quando l'anno scorso ho visitato l'Uzbekistan, una volta arrivata alla capitale Taškent (che mio padre nominava spesso perché l'aveva raggiunta in treno nel suo lungo viaggio verso il campo 26, trecento chilometri verso est) una grande tristezza mi è scesa nel cuore, quasi il rimorso di essere viva; lo stesso rimorso che a volte attanaglia tutti i sopravvissuti ai campi di sterminio di cui parlava Primo Levi, autore del libro Se questo è un uomo.
I due lager in Siberia furono con ogni probabilità i più duri perché la temperatura in inverno raggiungeva anche i 50° sotto zero. In tali circostanze i prigionieri non venivano portati a fare legna, solo perché temperature simili avrebbero schiantato anche le guardie russe.
In quei giorni si rimaneva sui pagliericci nelle baracche interrate per resistere con quel poco che si aveva. Papà era stato catturato in estate con la divisa estiva e si dovette sempre arrangiare con quanto prelevato dai prigionieri che a mano a mano morivano e che magari erano stati catturati durante il successivo ripiegamento invernale.
Nel mezzo della baracca c’era una grande stufa e papà vide diversi suoi compagni che, rabbrividendo dal freddo, si posizionavano troppo vicino alla stessa e si addormentavano. Al mattino questi ragazzi venivano trovati morti perché lo sbalzo di temperatura era troppo alto. Allora papà – che “doveva tornare in Italia” – piuttosto tremava dal freddo ma non si appoggiava alla stufa.
Cercando di superare l'enorme stanchezza continuava a massaggiare naso e piedi per riattivare la circolazione. I suoi pensieri erano sempre rivolti all'Italia lontana, alla sua famiglia, al mondo di pace che avrebbe voluto; invece la guerra gli stava rubando la maggior parte dei suoi anni giovanili. Gli avevano preso quel poco che aveva: la fede nuziale, l’orologio e la catenina.
Era stato mandato a combattere e a conquistare cosa? Un pagliericcio freddo in un buco in Siberia!
Non so perché abbia cambiato tanti lager: forse bisognava fare posto ai molti prigionieri catturati nell'inverno '42-43. L'estate del '44 lo trovò ancora vivo, anche se ridotto molto di peso e di forze. “Ma io devo tornare in Italia!”
La mamma continuava a pregare e a sperare; andò in bicicletta più volte a chiedere la grazia alla Madonna del Santuario di Caravaggio. Dio – che sembrava essersi allontanato dallo strazio di quei terribili anni di guerra – invece c'era, per il mio papà. Un barlume di speranza si riaccese in mia madre quando – nel primo autunno del 1945, a guerra finita – tornò un prigioniero proprio di Caravaggio che raccontò di essere stato in un lager con papà fino a un anno prima.
Quindi, se era vivo fino all'estate del 1944, mamma si illudeva fosse ancora in vita.
Nel '45 la propaganda comunista nei lager martellava i prigionieri con frasi tipo: “L'Italia è totalmente distrutta, sono tutti morti. Non troverete più nessuno dei vostri cari e i pochi rimasti sono ridotti alla fame.”
In luglio cominciarono i primi rimpatri, ma papà non vi venne incluso. Sempre più deperito, in autunno ebbe il timore di non riuscire a superare un altro inverno in Russia.
Non amava affatto l'autunno, in quanto preludio dell'inverno.
“Io devo tornare in Italia.” Pregava Dio che a ogni appello ci fosse il suo nome, cosa che avvenne il 12 ottobre 1945.
Il viaggio di ritorno fu tragico, interminabile: vennero stipati in cento per vagone; ogni giorno i vagoni venivano aperti per scaricare quanti, anche allora, continuavano a morire. Verso fine novembre papà era sempre più debole, e sempre in viaggio.
All'arrivo a Francoforte, in Germania, i suoi compagni gli suggerirono di scendere e andare in un ospedale. Lui seguì il consiglio ma, non essendovi letti disponibili per tutti, sistemarono due soldati per ogni letto.
Il soldato nel letto insieme a mio padre era gravissimo; durante la notte morì e i suoi pidocchi si trasferirono su papà, trasmettendogli il tifo petecchiale.
Dopo tre giorni, visto che stava sempre peggio e nessuno si curava di lui e del suo stato, uscì dal cancello e, giunto in stazione, prese un treno diretto in Italia. Anche questo trasportava soldati destinati al rimpatrio; dopo qualche giorno essi avrebbero voluto scaricarlo dal treno perché nel frattempo il suo tifo petecchiale era ormai evidente e conclamato; inoltre, causa la forte dissenteria, mio padre sporcava il vagone.
Lui chiese loro pietà. Durante una sosta in una stazione i suoi compagni di viaggio gli indicarono un treno della Croce Rossa fermo su un binario.
Scaricato dal vagone, papà non era più in grado di camminare; radunò le poche forze residue, si mise carponi e piano piano – trascinandosi sulle ginocchia scheletrite – arrivò al predellino del treno della Croce Rossa, dove due braccia amorevoli lo sollevarono e lo portarono su un letto, per la prima volta dopo tre anni e mezzo.
Diceva sempre: “Per me la guerra è finita in quel momento!”
Le crocerossine gli chiesero cosa volesse mangiare. Papà aveva visto qualcuno stare malissimo, fino a morire, mentre ingoiava avidamente un cucchiaio di cibo dietro l'altro, in quanto lo stomaco non era più abituato a ricevere alimenti in certa quantità.
Allora poiché “doveva tornare in Italia” trangugiò un cucchiaio o due. Poi, per resistere alla tentazione, si rannicchiò nel letto sotto le coperte per uscirne dopo un po' e proseguire in quel modo, terminando gradualmente la razione.
Il 4 Dicembre 1945 giunse alla frontiera italiana e venne smistato all'Ospedale Esperia di Merano (ogni albergo era diventato un ospedale mantenendo il proprio nome originario) dove diede a un Cappellano le indicazioni per rintracciare i suoi cari.
Poi divenne gravissimo. Il 12 Dicembre arrivò a casa nostra il più bel telegramma del mondo: “Mario Levati trovasi Ospedale Esperia di Merano”. Era vivo!
Mia madre e la mia nonna paterna partirono da Milano e arrivarono a Merano dopo un viaggio avventuroso durato tre giorni. L'Italia era semidistrutta, le ferrovie interrotte; cambiarono treno più volte e pernottarono persino all'aria aperta tra le gelide macerie della stazione di Verona.
Percorsero addirittura un tratto in camion, sistemate in due pentoloni da cucina di ospedale. Infine viaggiarono su un'ambulanza che le portò all'Ospedale Bellaria, dove papà era stato nel frattempo trasferito tra gli infettivi gravi.
Lo trovarono in fin di vita. In delirio, con la febbre a 42°, affetto – oltre che dal tifo petecchiale – da una dissenteria continua, e con la scabbia. Pesava 43 chili. Non riconobbe la moglie e la mamma. Il medico le esortò a sperare: “Se ce l'ha fatta fino a oggi, forse...”
Papà sopravvisse e dopo circa quattro mesi di cure intense, tornò a casa a metà marzo 1946. La guerra era finita da quasi un anno. Dopo altri quattro mesi di convalescenza trovò un posto di lavoro. La lunga prigionia non aveva intaccato il suo carattere bonario e generoso. Visse sereno in famiglia per quindici anni, ma le arterie indurite dal gelo della Siberia gli davano qualche problema con il freddo: in quelle occasioni i suoi arti diventavano blu. La mattina della Domenica delle Palme del 1961 morì per infarto mentre stava andando in gita con i suoi colleghi.
Il papà, che non avevo avuto vicino nella mia infanzia, l'ho perso in un attimo.
La sua forza d'animo è sempre stata di grande insegnamento ed esempio per me.
Vi attingo nei momenti bui per superare gli ostacoli e le durezze che trovo lungo il cammino della mia vita. Ringrazio Dio per avermelo lasciato almeno quindici anni, ma rimpiango che mio figlio Mario Fabio non abbia avuto la gioia di conoscerlo.
Ho poche memorie dei primi anni di vita vissuti con mia madre, con i miei zii e le mie cuginette, ma un ricordo è nitido nella mia mente... sembra essere avvenuto soltanto ieri sera: l'arrivo di un uomo sconosciuto che abbraccia la mamma e viene circondato dai parenti.
Io sono piccola, mi intrufolo e mi aggrappo a una sua gamba guardando all'insù e chiedo: “È questo il mio papà?”
Termino, in ricordo di mio padre, con una poesia di Charles Péguy.
L'Amore non finisce mai
La morte non è niente, io sono solo andato
nella stanza accanto.
Io sono io. Voi siete voi.
Ciò che ero per voi lo sono sempre.
Parlatemi come mi avete sempre parlato.
Non usate un tono diverso.
Non abbiate l'aria solenne o triste.
Continuate a ridere di ciò che ci faceva
ridere insieme.
Sorridete, pensate a me, pregate per me.
Che il mio nome sia pronunciato in casa come
lo è sempre stato.
Senza alcuna enfasi, senza alcuna ombra di
tristezza.
La vita ha il significato di sempre.
Il filo non è spezzato.
Perché dovrei essere fuori dai vostri pensieri?
Semplicemente perché sono fuori dalla vostra vita?
Io non sono lontano, sono solo dall'altro lato
del cammino.