di Patrizia Marchesini
Ho incontrato il dottor Luigi Tassi, conosciuto anche come Gino, in un giorno d'autunno pieno di quella luce soffusa e dorata che ottobre a volte ci regala. Di rado mi è capitato di incontrare una persona così disposta ad accogliere l'altro. Di rado ho visto quella meraviglia di fronte alle cose dell'universo, che solo i bambini provano. E non mi è mai capitato di tornare a casa – dopo un'intervista – con un po' di crostata ancora calda. Ma il dottor Tassi è così... mi ha aperto la sua casa e regalato i suoi ricordi... ascoltarlo mi ha profondamente commosso.
A lui il mio grazie più affettuoso...
Piacenza, 30 ottobre 2015
Cosa l’ha portata a studiare medicina? Il desiderio di scoprire qualcosa di più su quella macchina meravigliosa che è l’organismo umano? O forse ha seguito una tradizione di famiglia? Oppure, ancora, è stato spinto dal volere essere di aiuto a chi soffre?
Quando fu il momento di decidere come proseguire gli studi all’università, mi consigliarono di fare il dentista. Ma io sono nato in campagna, sono figlio di un agricoltore e ho sempre amato la natura. Intorno a me vorrei sempre vedere il bello e la bontà. Non sarei mai stato in grado di chiudermi in una stanza a fare il dentista... per cui alla fine scelsi medicina, che mi avrebbe permesso anche di aiutare gli altri.
Dopo la laurea – nel ’41 – e l’esame per l’abilitazione all’attività medica – nel marzo del ’42 –, dovevo svolgere il servizio militare. Andai alla scuola per ufficiali medici, a Firenze, e frequentai un corso di tre mesi. Poi mi mandarono subito a Cuneo.
Cosa contemplava il servizio militare per un giovane ufficiale medico? Vi erano un addestramento particolare o testi specifici?
No, niente.
Giunto a Cuneo mi presentai al colonnello Scrimin,[1] che mi disse: “Stiamo partendo per la Russia e ci manca proprio un ufficiale medico. Verrai tu.”
Fui assegnato al Battaglione Borgo San Dalmazzo. Fino a quel momento non avevo mai esercitato la professione.
Lasciata Cuneo il 2 agosto 1942, arrivammo a Izjum, dove scendemmo dal treno convinti di andare verso il Caucaso.[2] Come noto, dopo pochi giorni di marcia, ci indirizzarono al Don, così come l’intero Corpo d’Armata alpino.
Quali furono i problemi, dal punto di vista medico, cui andarono soggetti gli alpini in quel periodo?
A parte la stanchezza dovuta al camminare, ricordo di avere curato più volte lesioni ai piedi causate dall’attrito con le calzature. Mettevo molto cotone a destra e a sinistra, in modo che la ferita rimanesse libera e la pelle potesse guarire meglio e più velocemente.
Essendo un sottotenente medico era fornito di un equipaggiamento particolare?
Come ufficiale ero provvisto di una cassetta con i miei effetti personali, e di una branda. Mi era stato assegnato un attendente che rimase sempre con me fino a quando ci perdemmo nei giorni tragici del ripiegamento.
Avevo poi una cassettina con la strumentazione minima indispensabile: ricordo che conteneva un bisturi, una pinza cava-denti, lo stetoscopio, bende e garze diverse...
Per problemi o interventi medici significativi c’erano gli Ospedali da Campo. Nella mia Compagnia del Borgo San Dalmazzo (la 14ª), ero l’unico medico. Ma bisogna sottolineare che i reparti alpini erano i soli ad avere un ufficiale medico a livello di Compagnia...
Giunti sul Don, dove si schierò il Borgo San Dalmazzo?[3]
Non ricordo una località precisa... Vi erano alcune case qui e là – davvero poche – che farei fatica a definire un villaggio. Nella piana retrostante le nostre posizioni ricordo, invece, grossi covoni di frumento, ancora da sgranare... Ci sistemammo a capisaldi.
Ho letto che il 6 ottobre 1942 – non appena il Borgo San Dalmazzo fu in linea – i Sovietici testarono le difese del Battaglione, prendendo di mira il caposaldo Argentera. Può raccontarmi qualcosa al riguardo?
Ne sentii parlare. Se ben ricordo morì un ufficiale.[4]
Ma, eccetto quell’episodio, fino al ripiegamento non accadde nulla di significativo nel nostro settore. A volte i Russi sparavano qualche colpo, a volte lo sparavamo noi... di tanto in tanto si facevano azioni di pattuglia.
Con l’arrivo dell’inverno e il freddo intenso, si verificarono molti casi di congelamento, prima che lasciaste le linee sul Don?
Vivevamo in rifugi interrati, con il soffitto fatto di tronchi e ricoperto dalla paglia dei covoni rimasti sul terreno... su tutto si era posata la neve. In tali ricoveri ci facevano compagnia i topolini. Piccoli topini da campagna. Erano graziosi, ma si intrufolavano dappertutto.
Il cibo, per le basse temperature, arrivava gelato.
Non ho memoria di casi di congelamento, anche perché gli ordini superiori avevano ridotto i turni a non più di un quarto d’ora, per esporre il meno possibile gli uomini al freddo così intenso. Avevamo una pomata anti-congelamento, ma non l’abbiamo mai usata.
A proposito di turni di guardia... Durante un’azione di pattuglia da parte russa, fu catturata una delle nostre sentinelle.
L’alimentazione del soldato al fronte è di basilare importanza. Ancora di più se un soldato si trova a operare in un ambiente difficile come quello invernale ucraino-russo. Ritiene – per quello che lei ha potuto constatare – che essa fosse sufficiente e adeguata?
Gli alpini del suo Battaglione manifestarono problemi di salute legati a carenze alimentari specifiche?
A mio parere il rancio che gli alpini ricevevano era insufficiente. Davano sempre la solita minestra. Non che vi furono – per quanto constatai io – persone che si ammalarono, ma l’assenza di frutta e verdura fece sì che in seguito parecchi (e anch’io) abbiano sofferto di avitaminosi.
Mai un limone, mai niente che potesse integrare le razioni in tal senso.
Non so dirle se nelle retrovie – dove poi vennero incendiati magazzini enormi e pieni di roba – vi fossero alimenti del genere. In linea arrivava davvero poco.
Il ripiegamento. Vorrei che mi dicesse alcune parole-simbolo che le riportano alla memoria quei giorni, e che mi spiegasse anche il motivo della scelta di quelle parole in particolare.
Premetto che nell’ultimo mese di permanenza al fronte venni trasferito al Comando di Battaglione, per disaccordi fra alcuni ufficiali del Comando stesso,[5] ma nonostante la mia nuova assegnazione, che prevedeva per forza di cose maggiori rapporti con i superiori, non trapelava nulla di quanto stesse accadendo... e sottolineo che già a metà dicembre si sentivano i colpi di cannone sulla nostra destra.[6]
Quindi la prima parola-simbolo potrebbe essere non-consapevolezza... degli eventi che stavano avendo luogo, e di quanto avremmo poi affrontato.
In seguito mi sono chiesto tante volte perché il Corpo d’Armata alpino fosse rimasto sul Don fino al 17 gennaio, quando i nostri avversari avevano sfondato a nord e a sud dei reparti alpini.
Lasciate le nostre posizioni, ci dirigemmo a Valujki secondo gli ordini ricevuti, fiduciosi di sfuggire ai Sovietici che in un primissimo tempo pensavamo stessero incalzando da dietro. Invece, sfondato il fronte in altri punti, ci avevano preceduto, ci aspettavano nei vari villaggi. E ci avrebbero atteso, come noto, anche a Valujki.
La seconda parola, quindi, potrebbe essere speranza: di raggiungere al più presto posizioni sicure... avevamo riempito gli zaini di roba, che poi – per lo sfinimento – fummo costretti ad abbandonare. Molti rimasero con il pastrano, il fucile, e basta.
Dei miei colleghi ufficiali non vidi più nessuno. Ero partito dal Comando di Battaglione con un po’ di anticipo, insieme all’ambulanza, portando indietro un po’ di materiale medico-sanitario, che si riteneva potesse essere utile.
L’ambulanza, che io sappia mai usata in precedenza, fu distrutta – però – un paio di giorni dopo, insieme ad altre cose. Non andava più avanti[7] e in un paesino facemmo un gran falò, per non lasciarla in mano ai Sovietici.
Intanto nella colonna c’erano già i primi feriti e ammalati. Li sistemammo in un’isba perché non avevamo slitte per trasportarli, e fu un momento brutto. Cercammo di rassicurarli: “Quando arriveranno i Russi, vedrete che vi cureranno...”
Noi proseguimmo, da quel momento sempre a piedi.
Ricordo che, il terzo o quarto giorno, mi trovai a cuocere una gallina insieme a tre o quattro alpini. Era saltata fuori anche una cassetta piena di quelli che venivano chiamati generi di conforto... c’era del liquore. Lasciammo ogni cosa, e in fretta, perché i reparti si erano rimessi in movimento.
Popovka. 19 gennaio 1943. Se non erro la sua 14ª Compagnia – insieme a una Batteria del Gruppo Val Po fu sorpresa nel sonno dai Sovietici e subì gravi perdite.[8]
È in grado di raccontarmi alcuni particolari su questo episodio?
No, nulla. Ho il ricordo di un’incursione in cui mi trovai coinvolto con il mio attendente e due-tre alpini infermieri: per sfuggire ai proiettili traccianti ci buttammo nella neve. Non rammento se fu a Popovka.
La battaglia di Novopostojalovka. Un suo ricordo di quelle lunghe ore, durante le quali furono annientati battaglioni alpini e gruppi-artiglieria della Cuneense e della Julia.
Occorre precisare che la Julia aveva già sofferto moltissimo dalla metà di dicembre fino al momento di ripiegare, essendo stata trasferita nel settore del II Corpo d’Armata. Gli alpini della Julia avevano affrontato giorni terribili, senza ricoveri adeguati (con le note condizioni climatiche e ambientali) e subìto frequenti attacchi da parte dei Russi, senza cedere e proteggendo il nostro fianco.
Novopostojalovka... non si salvarono in molti. C’erano queste strisce nere, in mezzo al bianco della neve.[9]
Dopo quella battaglia mi ritrovai solo, distaccato dal mio Battaglione. Certo, procedevo in colonna, ma in mezzo a sconosciuti. Un giorno condividevo il percorso con una persona, poi magari mi trovavo accanto a qualcun altro... Si andava avanti così, senza mangiare... Ricordo un sottofondo indistinto di gente che urlava... erano quelli che rimanevano indietro, perché feriti, o stanchi, o congelati. Passai vicino a uno... i suoi piedi erano un blocco di ghiaccio e non riusciva a camminare. Diceva: “Aiutatemi, come faccio? Come faccio?”
In quei giorni, pur essendo medico, non ebbi la possibilità di dare aiuto... perse le mie poche cose, mi erano rimaste solo bugie piene di pietà: “Vedrai che arriverà qualcuno a salvarti, a caricarti...”
Vorrei che lei capisse cosa si provava... La steppa, tutto quel bianco, bianco ovunque... il ripiegamento si svolse in spazi infiniti, con un paesaggio sempre uguale.
Si camminava. Mai nessuno che dicesse una parola di conforto... Eravamo soli con noi stessi. A un certo punto mi buttai nella neve.
Pensavo a casa mia, e non ce la facevo proprio più.[10]
Allora... lì, nella neve, ho chiamato il Signore e gli ho chiesto: “Non farmi morire qui. Fammi tornare a casa, e poi... sia quel che sia. Ma non voglio rimanere qui.”
Lui ascoltò. Piano piano trovai la forza di alzarmi. Stava passando un alpino che conduceva un mulo. Sul mulo, un maggiore della Cuneense. Lo conoscevo, era piuttosto anziano, sui cinquant’anni.
Mi attaccai alla coda dell’animale e mi feci trainare.
A un certo punto, in mezzo a tutto quel bianco, vidi in lontananza un carro armato. Gli sparai un colpo di rivoltella. Fu l’unica volta che usai la Beretta in dotazione. A pensarci adesso è così assurdo...
Giungemmo poi in un paese e trovai ricovero in uno stanzone dove si trovavano già molti altri... Gente sfinita, affamata. Feriti, congelati.
Qualcosa – non molto – riuscii a fare, per dare sollievo a quei soldati.
Non so dirle come si chiamava la località, era vicina a Valujki.
All’improvviso le porte del capannone si aprirono ed entrarono i Russi, sparando.
Ci fecero prigionieri. Era il 27 gennaio 1943, e tre giorni dopo avrei compiuto ventotto anni.
L’impatto con i Sovietici.
Non furono particolarmente sgarbati. Ma ci perquisirono, prendendo quello che avevamo, soprattutto gli orologi. Ciassì, ripetevano...[11]
Dopo due o tre giorni ci incolonnarono. Camminando ebbi modo di notare che i nostri avversari usavano camion americani. E, in quanto al loro cibo, anche molte scatolette erano di provenienza statunitense.
Aggiungo – saltando un pochino avanti – che dopo circa tre mesi le nostre condizioni migliorarono leggermente proprio grazie agli Americani, che fecero pressioni sui Sovietici per un diverso trattamento dei prigionieri. Ricordo che il pane che ci davano era più buono, rispetto a prima.
Le marce del davai. Fame, stanchezza, freddo. So di un regalo, una pera cotta... Vorrebbe parlarne?[12]
Quanta fame... Una volta una donna, vedendo la colonna di prigionieri, uscì dalla sua abitazione lanciando cinque-sei pere cotte. Ci buttammo come non so cosa e io ne presi una.
In un’altra occasione un vecchietto mi diede due bietole bollite.
I Russi, durante le marce, non si curarono di noi... non distribuirono cibo.
Nella mia stessa colonna c’era Don Turla.[13] Io e un altro lo aiutammo, sorreggendolo perché non ce la faceva più: chi rimaneva indietro veniva ucciso dai Sovietici che ci scortavano.
Anche se sembra incredibile, oltre alla fame soffrivamo una gran sete.
La neve, polverosa come farina, non dissetava.
Un giorno, durante la sosta in un paese, a me e a pochi altri fu ordinato di spostare in un locale alcune pagnotte di pane scuro e gelato. Non erano destinate a noi prigionieri, ma solo alla nostra scorta. Con la fame che avevo, ne nascosi una sotto il pastrano.
Un Russo – avendo intuito il mio gesto – mi fece aprire il pastrano e la pagnotta cadde a terra. Subito lui mi puntò il fucile alla testa, pronto a spararmi. Riuscii solo a dire: “Mamma, mamma...”
Il patto stretto giorni prima con il Signore mi salvò ancora. Nel sentire pronunciare quella parola, del tutto simile anche in lingua russa, l’uomo abbassò l’arma e mi fece cenno di allontanarmi.
Se torniamo alle parole-simbolo del ripiegamento – dopo inconsapevolezza e speranza, e ripensando al suo racconto – potremmo forse aggiungerne una terza, preghiera.
Sì, è vero. Feci un patto e Lui – allora – mi ascoltò. Ero certo, una volta in Italia, di dover morire... ma forse poi si è dimenticato. Chissà...
Avrà pensato che qui ci sarebbe stato bisogno di lei...
Non so.
Riprendendo il mio racconto... La notte successiva all’episodio della pagnotta, probabilmente per l’angoscia e il pericolo scampato, fui preso da spasmi intestinali molto violenti.
L’inferno di Hrenovoe (Khrinovaja). Tanto se n’è parlato. Lei è uno dei pochi sopravvissuti. Se la sente di raccontare qualcosa?
Noi ufficiali eravamo sistemati nei box per i cavalli,[14] provvisti di uno strato di paglia che, purtroppo, era infestata di pidocchi. Ci davano un mestolo di brodaglia tutti i giorni.
Nel mio box eravamo quindici-venti ufficiali. Eravamo come inebetiti da quanto avevamo passato. Ogni tanto provavamo ad affrontare ciò che era accaduto e perché era accaduto. La sera cantavamo canzoni alpine, per tenerci su di morale.
Oppure si elencavano i piatti tipici delle rispettive regioni di provenienza. Chi era piemontese citava la bagna cauda, gli emiliani parlavano di tortellini... e così via.
La truppa, invece, era separata da noi e non riceveva quasi mai cibo.
I decessi erano numerosissimi e la conseguenza di tale trattamento fu il cannibalismo. Un colonnello ci consegnò dei bastoni, in modo da compiere delle ronde notturne ed evitare quell’orrore. Nel grande cortile si vedevano di frequente dei fuocherelli sospetti.
Non ricordo quanto rimanemmo a Khrinovaja... Prima di lasciare il campo di prigionia, ebbi occasione di incontrare il furiere del mio Battaglione. Parlammo dei casi di cannibalismo. Mi disse: “L’ho fatto anch’io.”
Le grandi epidemie. Dal punto di vista medico, cosa sarebbe occorso per salvare la vita ai tanti prigionieri che morirono nei primissimi mesi?
Sarebbe bastato che tutti voi aveste ricevuto un pochino più di cibo? In fondo, un organismo indebolito supera con più fatica malattie e infezioni e l’alimentazione del tutto insufficiente di certo ebbe il suo peso sul tasso di mortalità.
La maggioranza di noi era ormai così debilitata che non si sarebbe potuto fare niente per combattere le epidemie che causarono poi il decesso di moltissimi prigionieri. Organismi che avevano perso venti-trenta chili in un tempo relativamente breve non potevano più difendersi. Non so se il mio carattere abbia contribuito a salvarmi: molti – devo dirlo – impazzirono. Come si poteva vivere così?
I campi successivi. La vita come prigioniero e ufficiale medico allo stesso tempo.
Partimmo da Khrinovaja in treno. Vedemmo foreste sterminate e arrivammo a Oranki, dove truppa e ufficiali erano sistemati in baracche di legno, senza distinzione di grado. Lì ebbi il conforto di rivedere un amico e collega delle mie parti, il dottor Alberto Bosi.
A Oranki mi ammalai di tifo petecchiale. Febbre altissima, a 41°, e nessuna medicina per curarci, eccetto un po’ di permanganato di potassio. Bosi fu contagiato a sua volta. Prese anche la broncopolmonite. Io, dopo qualche giorno, iniziai a riprendermi. Il mio amico, invece, non ce la fece. Lo portarono via e non lo vidi più.
In seguito fui colpito da avitaminosi e mi spostarono nel famoso convalescenziario di Skit, dove si stava peggio che nel campo di prigionia vero e proprio.
A Oranki rimasi sino quasi alla fine del 1943.
Ricordo che durante i mesi estivi accompagnai – in qualità di medico – molti ufficiali incaricati di tagliare gli alberi nei boschi. Ma in realtà come medico non facevo nulla.
Nel campo di Oranki veniva una donna... si chiamava Torre. Una fuoriuscita che ci faceva propaganda politica. Il suo intervento si limitò a questo... non ci aiutò mai in modo concreto.
Alcuni prigionieri in seguito a tale propaganda lasciarono il campo per frequentare dei corsi. Fu grazie ai fuoriusciti che noi imparammo che il fascismo era caduto e venimmo a conoscenza dei fatti dell’8 settembre 1943...
Poi gli ufficiali furono trasferiti a Suzdal’, dove si stava abbastanza bene, rispetto a quanto avevamo vissuto in precedenza.
Molti fra noi ebbero modo di fare sfoggio di abilità particolari. Un esempio: vennero realizzati dei mazzi di carte da gioco molto simili a quelli che si potevano comprare in Italia.
Vi furono persino dei tornei di football e spettacoli teatrali, con i costumi arrangiati in qualche modo e con tanta creatività.
Fra gli ufficiali si erano creati buoni rapporti e si cercava di stare bene in compagnia. Anche i cappellani militari a Suzdal’ contribuirono alla coesione. Si formarono legami che permasero anche negli anni successivi, dopo il ritorno in Italia: noi sopravvissuti alla prigionia eravamo soliti ritrovarci, nel ricordo di quell’esperienza...
Nel 1944 – con un altro ufficiale medico[15] – fui trasferito in un campo situato nel Donbass. Non ricordo il nome della località, ma so che rimanemmo in treno a lungo.
Lì, oltre a noi due medici italiani, ve n’erano due tedeschi.
I prigionieri nel campo – tedeschi e ungheresi (non vi era nessun italiano, eccetto noi due) – lavoravano nelle miniere della zona.
In due occasioni il dottor Quarti (l’altro medico italiano) e io fummo chiamati dal comandante sovietico del campo, una volta per curarne la figlia – che era ammalata – e una volta perché ci invitò a mangiare.
Non ricordo cosa ci venne servito ma – per quello che era il cibo solito – era senza dubbio roba buona.
Ci regalò qualche avanzo da riportare ai nostri alloggi, ma le guardie ce lo sequestrarono.
Ho letto che riuscì a salvare un prigioniero ungherese.
Si era ferito in miniera, a causa della caduta di un masso che gli aveva spezzato il femore. La frattura era esposta. Non vi erano medicinali, e sarebbe morto nel giro di poco tempo, perché la ferita stava andando in suppurazione.
Decidemmo di operarlo.
A capo dell’ambulatorio del campo vi era un infermiere russo che era contrario all’intervento. Forse, proprio a causa dell’incompetenza evidente, l’infermiere fu mandato via dopo due-tre giorni e venne sostituito da una dottoressa, il cui marito – di simpatie zariste – era stato prelevato una notte dalla polizia e non se ne sapeva più nulla.
Tra parentesi... la dottoressa ci raccontò che i prigionieri politici sovietici, considerati nemici della Patria, venivano trattati molto peggio dei prigionieri di guerra.
La dottoressa si era affezionata a me, al punto che quando fu il mio compleanno mi regalò un’arancia e una bottiglia di champagne. Pensi! Brindammo insieme... Portai poi a casa il tappo della bottiglia per ricordo.
Tornando all’Ungherese, gli amputammo la gamba in ambulatorio, con un coltello da cucina e una sega da falegname, usando una corda come laccio emostatico e un po’ di vodka come anestetico e disinfettante. Alcuni cordini sottili ci servirono per chiudere i vasi sanguigni recisi.
Per le trasfusioni che si resero necessarie, il dottor Quarti prese il sangue da me con una siringa, per poi iniettarlo al paziente.
L’uomo sopravvisse e, quando arrivò – per me e per il collega – il momento del rimpatrio, venne a salutarci. Piangeva come un bambino, e ci ringraziava per avergli salvato la vita.
Con procedimento simile fummo costretti ad amputare un braccio a un altro prigioniero.
Per la sua esperienza, i medici dell’ex Unione Sovietica e il personale sanitario in genere erano sufficientemente preparati?
Mi è difficile dare un giudizio. Perché non c’era niente, per chi stava male. Pochissimi farmaci, strumentazione più o meno nulla. L’unica cura prescrivibile era il riposo.
Quanto rimase nel Donbass?
Fino alla primavera del 1946. Poi gli ufficiali italiani vennero radunati a Odessa, in previsione del rimpatrio. Ci sistemarono in uno stabilimento di cura, una specie di convalescenziario. Giravamo per la città, andavamo persino al mare, a pescare. I Russi non ci sorvegliavano molto, a quel punto.
Restammo a Odessa un bel po’; durante il nostro soggiorno fu trasmesso un messaggio-radio – captato e ritrasmesso dalla radio vaticana – con l’elenco di quanti stavano per rientrare in Italia. Fu allora che un mio cugino, sentendo il mio nome, riuscì ad avvertire i miei genitori del fatto che ero ancora vivo.
Prigionia = angoscia, dolore, oppressione...
Sembra un’uguaglianza impossibile a contraddirsi. Vi fu mai un momento di gioia, seppure transitoria?
Non ne rammento nessuno. Però, a Odessa, mentre camminavo per strada, da una finestra aperta sentii il suono di un pianoforte. Non ricordo che brano fosse. Provai una sensazione indescrivibile... quella musica mi riportò a casa, mi fece sentire vicino alla mia famiglia e alla vita che avevo vissuto in Italia, prima della Russia.
Il ritorno. Fu difficile, dopo un’esperienza come quella vissuta nei lager sovietici, reinserirsi in famiglia? Vi fu qualcosa che – magari se ne rese conto proprio dopo il rimpatrio – che in prigionia le era mancato moltissimo?
In treno, dopo avere varcato il Tarvisio, raggiunsi Milano, dove alcuni amici vennero a prendermi con una macchina... cosa non certo usuale, per i tempi. In quel periodo la mia famiglia risiedeva a Borgonovo, in provincia di Piacenza, e fu bellissimo riabbracciare tutti. Mio fratello era agricoltore e gli chiesi di uccidere un vitello.
Invitammo tante persone – amici, colleghi di lavoro – e facemmo un po’ di baldoria. Reinserirmi nella vita di prima fu semplice, circondato com’ero dall’affetto dei miei cari.
La famiglia – e soprattutto il papà, che adoravo e con cui avevo tanti punti in comune – mi era mancata moltissimo ed essere di nuovo a casa mi restituì la serenità.
Però... Due giorni dopo il mio arrivo venne a trovarmi una signorina, di nome Bianca. Era la fidanzata del dottor Bosi, di cui ho già parlato. Il mio collega – e grandissimo amico – a Oranki non faceva che ripetere “La mia Bianchetta, la mia Bianchetta...” Ne era innamoratissimo. La signorina era già stata informata della scomparsa di Alberto ma – sapendo quanto lui e io eravamo legati – sperava che riuscissi a dirle di più. Le raccontai ogni cosa, e si può immaginare il dolore che provai nel riferire certi dettagli.
Rivivere ancora una volta la morte del mio amico fu un grande dispiacere, che offuscò un pochino la gioia del ritorno.
Quanto incisero sulla sua professione di medico gli anni trascorsi prima al Fronte Orientale e poi nei lager sovietici?
Vi fu un approccio diverso nei confronti della sofferenza?
Ciò che avevo vissuto influì molto, in seguito, sul mio essere medico. Avevo imparato che non bisogna tenere il cuore chiuso.
Quando ancora esercitavo la professione, andavo a trovare i miei pazienti anche se non mi avevano chiamato. Nel vedermi, erano stupiti: “Oh, dutur!”
Ma si capiva che erano molto contenti della visita inaspettata...
Perché una parola di bontà è una grande medicina.
Occorre guardarsi intorno e aiutare chi ne ha bisogno... amare tutto e tutti, non solo le persone, ma anche il proprio lavoro, le montagne, i ruscelli e quanto ci circonda. A volte – quando esco e vedo dei fiori – chiedo: “Ma come fate a essere così meravigliosi?”
Questo è il messaggio che, come reduce di Russia e come uomo, vorrei trasmettere ai ragazzi di oggi...
Sono grata ai signori Rinaldo Riva e Roberto Lupi. Entrambi hanno reso possibile questa intervista. Le due fotografie d'epoca sono state gentilmente fornite dal dottor Tassi e costituiscono l'unica testimonianza della sua permanenza al Fronte Orientale.
[1] Il colonnello Luigi Scrimin era il Comandante del 2° Reggimento alpini (Divisione Cuneense).
[2] L’ultima tradotta della Cuneense giunse tra Uspenskaja e Izjum verso il 18 agosto 1942. Il trasferimento dall’Italia dell’intera Divisione aveva richiesto circa venticinque giorni.
[3] Il sito www.plini-alpini.net menziona Kulalovka.
[4] L’attacco fu all’alba, senza preparazione di artiglieria. Gli avversari attraversarono il Don su alcuni barconi. L’intervento del Gruppo Val Po fece retrocedere i Sovietici. Tra i feriti e caduti, il comandante della 13ª Compagnia, il capitano Fulvio Movia, colpito al ventre e deceduto all’ospedale da campo di Annovka. La Divisione alpina Cuneense al Fronte Russo (1942-1943), di Carmelo Catanoso e Agostino Uberti, pag. 31.
[5] Luigi Tassi ha accennato al trasferimento di un ufficiale che si trovava presso il Comando, in concomitanza con la sua nuova destinazione.
[6] Il dottor Tassi fa riferimento agli attacchi subiti dal II Corpo d’Armata, schierato subito a destra della Cuneense. Nello specifico, a contatto con la Divisione suddetta si trovava la Cosseria. Nel settore, a partire dal 17 dicembre 1942, furono inviati il Battaglione Alpini Sciatori Monte Cervino e la Julia (quest’ultima preceduta da un gruppo d’intervento costituito da alcuni suoi reparti).
[7] Il dottor Tassi non è sicuro se per un guasto, per il gelo, o per mancanza di carburante.
[8]La Divisione alpina Cuneense al Fronte Russo (1941-1943), opera citata, pag. 55.
[9] Con ogni probabilità il dottor Tassi fa riferimento alle esplosioni dei colpi di artiglieria...
[10] Questo momento della narrazione è stato molto intenso per il dottor Tassi, e anche per chi scrive. Mi resta il rammarico di avere suscitato memorie così dolorose e intime.
[11] In cirillico, l’orologio da polso è часы, che si pronuncia, appunto ciassì.
[12] L’episodio è citato in un articolo del 2013, in www.anapiacenza.it.
[13] Don Guido Maurilio Turla, classe 1910, fu cappellano del Battaglione Saluzzo (Divisione Cuneense). Nel suo 7 rubli per il cappellano ha descritto le condizioni durissime dei prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica. Dopo il rimpatrio, per tenere fede a un voto espresso in Russia, si adoperò per la realizzazione di una chiesa a Darfo Boario Terme (dove era stato destinato come parroco). Dedicato alla Madonna degli Alpini e in ricordo dei caduti al Fronte Orientale, il santuario fu inaugurato il 28 settembre 1957.
[14] Il lager n. 81 di Hrenovoe (Khrinovaja) aveva sede in una caserma di cavalleria dell’epoca zarista, le cui scuderie in disuso furono destinate a essere alloggio per i prigionieri. Le condizioni di vita in tale campo – che registrò un’altissima mortalità – lo resero tristemente famoso.
[15] Il dottor Tassi ha riferito che si trattava di Marino Quarti, valente neurochirurgo, che – dopo il rimpatrio – divenne capo dell’equipe di neurochirurgia, presso l’ospedale di Padova.