di Patrizia Marchesini
La foto, seppure modificata, è presa dal sito dell'Associazione Culturale Araba Fenice e
ritrae Simone Cristicchi durante lo spettacolo teatrale Li Romani in Russia,
rappresentato in anteprima a Sezze (LT) il 27 maggio 2010
Difficile riassumere Simone Cristicchi in poche parole. Queste righe danno un’idea di cosa lo appassiona e lo incuriosisce.
Nato nel 1977, Simone inizia a suonare all’età di 16 anni su una vecchia chitarra classica. Nel maggio 2005 esce il suo primo singolo, Vorrei cantare come Biagio, da lui definito “tormentone involontario”, brano ironico che tenta di denunciare gli sforzi – da parte di un giovane artista – di arrivare al successo senza rinunciare alla propria individualità.
Nel settembre 2005 esce il suo primo album, Fabbricante di canzoni, che include anche un duetto con Sergio Endrigo, Questo è amore.
Nel corso di quello stesso anno Simone inizia la sua avventura teatrale con CIM, Centro di Igiene Mentale, spettacolo-riflessione sui disagi della mente.
Nel febbraio 2006 partecipa al 56° Festival di Sanremo con il brano Che bella gente e si classifica al secondo posto nella categoria Giovani. Il brano è dedicato a Mia Martini.
Nel marzo 2007 vince il 57° Festival di Sanremo nella categoria Campioni. La canzone è Ti regalerò una rosa, ispirata alla sua esperienza come volontario presso il CIM di Roma.
Sempre nel 2007 esce – edito da Mondadori – il libro Centro di Igiene Mentale, Un cantastorie tra i matti: Simone racconta persone, luoghi e storie legati al disagio mentale in Italia. Il volume raccoglie anche trentacinque lettere – risalenti in alcuni casi ai primi anni del secolo scorso – scritte dai ricoverati nel manicomio di Volterra.
Viene pubblicato, inoltre, il suo secondo cd, Dall’altra parte del cancello, edito insieme al dvd-documentario omonimo, nel quale Simone è allo stesso tempo attore e spettatore di un viaggio all’interno delle principali ex strutture manicomiali del nostro Paese. Nel documentario anche un’intervista alla poetessa Alda Merini.
Nel 2009 parte il tour Canti di miniera, d’amore, vino e anarchia con il Coro dei Minatori di Santa Fiora. Una sfida, l’ennesimo mettersi in gioco. “Un deragliamento positivo – come dice Simone – fuori dai binari del consueto iter discografico.”
Nel 2010 partecipa al 60° Festival di Sanremo con il brano Meno male, scritto insieme al rapper Frankie Hi Nrg. Esce anche il suo terzo cd, Grand Hotel Cristicchi.
Nel 2010 inizia a recitare il monologo Li Romani in Russia, per la regia di Alessandro Benvenuti, tratto dal libro omonimo di Elia Marcelli.
Numerosi i premi meritati da Simone: dal Premio Cantautori 1998 al Premio Mei 2005 come artista rivelazione, dal Venice Music Awards 2005 come artista rivelazione maschile alla Targa Tenco del 2006 (migliore album d’esordio)... tanto per citarne alcuni.
Sezze (LT), 27 maggio 2010
Eccoci qua, Simone. Allora... ho letto diverse cose su di te. Alcune le sapevo, altre sono state una sorpresa. Devo dire che ho avuto conferma di quanto ho sempre pensato: una persona non può essere o fare una cosa sola. Infatti ho scoperto un uomo con tanti interessi. Ti senti più “un cantautore che mette in scena i paradossi della vita” oppure “un attore prestato alla canzone”?
Un po’ tutti e due. Diciamo che il teatro, rispetto alla musica, è arrivato in un secondo momento, si è insinuato lentamente nelle mie performance. Alcuni in passato hanno rappresentato la canzone come fosse una cosa teatrale, se pensiamo a Gaber, Jannacci o Rino Gaetano. La messa in scena, l’interpretazione fisica di una canzone... questo c’è sempre stato fin dai miei primi concerti, quando suonavo nei piccoli locali a Roma. Come se ci fosse un personaggio che la stesse recitando.
In seguito durante i concerti sono passato a fare brevi presentazioni delle mie canzoni, che sono diventate sempre più ricche, sempre più lunghe, fino a diventare veri e propri monologhi. Così il teatro ha cominciato a prendere il sopravvento, tanto che – se vieni a vedere un mio concerto – si tratta proprio di teatro-canzone, nel senso gaberiano del termine... ogni canzone è legata da un filo conduttore, da un discorso, da una storia unica che si dipana durante il concerto stesso. L’ultimo spettacolo – per esempio – Grand Hotel Cristicchi, è un viaggio all’interno di un hotel immaginario, dove gli spettatori da me accompagnati possono visitare ogni stanza, salire a ogni nuovo piano...
In ogni stanza ho messo un personaggio, una storia da scoprire. Il primo esperimento vero e proprio di teatro-canzone è stato lo spettacolo CIM, Centro di Igiene Mentale, che ora si chiama Lettere dal manicomio. Per questo progetto mi avvalgo anche della collaborazione di due bravissimi attori toscani, Emiliano Terreni e Tommaso Taddei della Compagnia Gogmagog.
Al di là di questo devo dire che dentro di me c’è sempre stata questa voglia di sfidarmi, mettendo in scena un monologo, restando sul palcoscenico completamente da solo. Ma gli impegni connessi alla musica e alle mie numerose tournée mi hanno sempre impedito di scrivere qualcosa di lungo abbastanza per uno spettacolo del genere. Poi, per caso e per curiosità – perché per mia fortuna sono una persona molto curiosa – un giorno andai alla presentazione di questo libro (Li Romani in Russia, n.d.r.). C’era il professor Marcello Teodonio che leggeva il suo adattamento del testo, davanti a forse venti persone. E lì ho sentito una scintilla... mi sono detto: “Vorrei provare a trasformare questa lettura in quello che oggi viene chiamato teatro di narrazione.”
Nel frattempo mi ero molto appassionato al teatro di narrazione di Mario Perrotta, Ascanio Celestini, Marco Paolini e quindi avevo percepito questa possibilità, a fronte di un grande impegno naturalmente. Perché il monologo è la cosa più difficile da realizzare a teatro: tutto si regge su uno studio molto lungo del testo e della sua recitazione. Avendo trovato il testo perfetto per me, che mi lega come sai a una storia personale, ho pensato: “Ecco qui. Adesso sta a me studiarlo, impararlo – che è il primo passo – e poi metterlo in scena con l’aiuto di una regia e di veri professionisti del teatro.”
Ma del libro cosa ti ha colpito di più? A me, per esempio, ha colpito la scelta del dialetto che dà una musicalità, un ritmo che probabilmente sarebbero stati assenti se l’opera fosse stata scritta in prosa.
Sì, ha colpito anche me. Sono romano da undici generazioni; di conseguenza la lingua romanesca – come la chiamava il Belli – ce l’ho nel sangue! Mio nonno, mia nonna erano proprio Romani, nati a Trastevere e Rione Monti, due quartieri simbolo della romanità. Quindi in casa sentivo parlare il vero romanesco, quello che oggi non esiste praticamente più, e che è il romanesco che usa il grande Elia Marcelli. Una voce pura, che non ha bisogno di artifici e che quindi arriva dritta al cuore. I primi esperimenti di anteprima dello spettacolo ho voluto farli a Milano, a Brescia e lì – per assurdo – mi devi credere, c’è stata una reazione molto più entusiastica del pubblico. Mi sono detto: “Se funziona qui, questo testo, allora non ha più confini...”
Ho letto il libro: il romanesco non lo conosco – vengo dalla provincia di Bologna – ma devo dire che è comprensibilissimo. Non ho avuto quasi mai bisogno, a parte due o tre termini molto specifici, di ricorrere alle note dell’Autore.
Ed è ancora più comprensibile se lo dici... Quando lo leggi, si avverte sempre una... pesantezza; nel momento in cui quella cosa scritta diventa racconto è tutto molto più chiaro: basta sapere studiare l’orchestrazione del monologo. Dovendo recitare e interpretare diversi personaggi, è quasi come la direzione di un’orchestra. Ognuno col suo ritmo, i suoi movimenti, la sua voce, la sua mimica... La cosa difficile nella messa in scena di questo spettacolo è la narrazione, perché l’ottava classica è una metrica molto rigida.
Rischia di diventare una cantilena difficile da reggere dopo i primi dieci minuti. Quindi molto del mio studio è proprio sulla recitazione del testo per renderlo discorsivo, narrativo, per non avvertire la... la...
La nenia tipica delle poesie recitate da bambino? Ho capito cosa vuoi dire... Tutto questo lavoro fa parte un po’ del tema della profondità, no? Un tema che ti sta a cuore. La profondità di certi tuoi testi musicali, del non fermarsi all’apparenza... la profondità della mente umana, vedi il lavoro che hai fatto con Dall’altra parte del cancello, la profondità fisica della miniera (riferimento al Coro dei Minatori di Santa Fiora, con cui Simone Cristicchi ha iniziato a collaborare e a esibirsi dal 2009 n.d.r.)... Qua, cosa c’è? La profondità del passato, la sua rilevanza?
Al di là del fatto storico, importantissimo, è altrettanto importante scoprire dove può andare a cadere un uomo, vedere il baratro in cui può finire un individuo che si trova in una situazione come questa (il riferimento è alla Campagna di Russia, n.d.r.).
È interessante, e nel libro esce fuori bene: l’uomo si trasforma in un animale, non riconosce più gli amici, non c’è più senso di solidarietà. Ho scelto questo testo proprio perché non ha toni buonisti, è assente il preconcetto degli Italiani brava gente. Vengono addirittura descritti episodi di cannibalismo, di gente che si ammazzava per un nonnulla. E questo è l’orrore, la crudezza della guerra. Poi c’è il fatto storico, a detta degli storici uno degli eventi più drammatici di tutta la Seconda Guerra Mondiale.
A casa ho una sessantina di libri sull’argomento. Anche mio nonno, come il tuo, partecipò alla Campagna di Russia. Faceva parte del Reggimento Artiglieria a Cavallo e non è tornato, mentre tuo nonno – mi sembra – era nella Divisione Torino. Quello che si evince dalle tante testimonianze, è che i giorni del ripiegamento, avvenuto prima per le Divisioni di fanteria e poi per il Corpo d’Armata Alpino, hanno scatenato sentimenti antitetici. C’era la solidarietà, lo spronare l’amico che rimaneva indietro e non ce la faceva più, ma c’era anche l’indifferenza totale nei confronti di quelli che si accasciavano ai bordi della pista. C’era la condivisione di una galletta o il rubare agli altri, magari durante il sonno...
A volte mi piace, nelle cose che scrivo, esagerare nel realismo, diventare quasi cinico. In diversi passi del poema di Marcelli questo cinismo esce fuori. Ho un seguito di ragazzi giovani e per me è importante raccontare questa storia, non tanto per il fatto storico in sé.
Nello spettacolo teatrale non viene recitato tutto il testo del libro per ovvi motivi di lunghezza. Qual è stato il criterio di scelta?
Il testo teatrale è un adattamento del professor Marcello Teodonio, esimio studioso di Gioacchino Belli e di cultura romanesca. Io mi sono limitato ad aggiungere alcuni capitoli, come la Messa prima della partenza per il fronte, la prima neve, e il momento in cui arriva l’ordine di ripiegamento...
Cosa sai di tuo nonno, dell’esperienza che ha vissuto?
Lui raccontava pochissimo. Come tanti reduci aveva rimosso quell’esperienza dalla sua memoria, o semplicemente non voleva parlarne. Mi raccontava solo degli aneddoti. Per esempio... lui aveva perso il padre e la madre quando aveva otto anni così, quando rientrò dalla Russia e scese dal treno a Roma, tutti gli altri soldati della sua Compagnia avevano genitori e parenti ad accoglierli. Invece lui non aveva nessuno. Mi raccontava anche – e ci rideva sopra – che, quando in Russia dovevano fare i bisogni a quaranta sotto zero, mettevano a scaldare una pietra in una grotta. La pietra era incandescente. A turno uscivano, con i pantaloni già abbassati, e rientravano di corsa dopo aver fatto i loro bisogni, posando le chiappe – così le chiamava – su quella pietra. “Ecco perché – diceva – tanti soldati della mia Compagnia avevano delle piaghe, delle ustioni sul sedere.” Poi mi raccontava che quando arrivò a casa dormì per tre-quattro giorni di seguito, e faceva fatica a stendersi sul letto... per alcuni giorni successivi al suo arrivo dormì sul pavimento.
Questo è successo ad altri, sai? Si erano disabituati al letto normale, soprattutto quelli che rientrarono dalla prigionia. Vissero in condizioni davvero molto difficili, soprattutto nei primi mesi dopo la cattura. Ho parlato con alcuni reduci, non molti perché dalla prigionia sono tornati in pochissimi. Un ex alpino mi disse di avere delle ecchimosi permanenti sulle anche, ben visibili anche dopo sessant’anni... perché durante la prigionia dormì quasi sempre sul terreno, sdraiato sul fianco e addossato a un altro prigioniero nel tentativo di farsi caldo a vicenda. Altri ricordi del nonno? Per esempio, Marcelli fa una descrizione molto bella del momento della partenza della tradotta verso la Russia...
No, di questo non so nulla. So solo che un po’ dopo il suo ritorno lo richiamarono per l’ennesima volta, ma lui disertò. Non volle più saperne.
Quindi non sai dirmi se nel viaggio verso la Russia avesse incontrato delle tradotte di ebrei...
No, di fatti storici non parlava mai. Mi ricordo che nonno Rinaldo aveva sempre freddo, anche d’estate. Lui aveva una casa al mare e ad agosto, la sera, si metteva sul balcone. Faceva caldissimo, trentacinque gradi, ma lui voleva sempre una coperta sulle spalle. Ho scritto un racconto – Il freddo di nonno Rinaldo – che parla della sua convivenza con questo freddo che gli era entrato nelle ossa e viveva dentro di lui.
Ho passato periodi leggendo solo di questo, totalmente immersa nell’argomento e devo ammettere che la sera non riuscivo mai ad addormentarmi perché appena chiudevo gli occhi sentivo questo freddo... Qual è stato un libro che ti ha colpito?
Quello di Corradi.
Ah, sì. Egisto Corradi, La ritirata di Russia. In effetti è scritto benissimo.
Mi è piaciuto molto. E ora sto leggendo un libro di Arrigo Petacco.
Un reduce me ne ha dato un giudizio negativo e me l’ha sconsigliato. Se ho ben capito, tratta moltissimo degli alpini e molto poco delle altre Divisioni. Non so se hai notato questa cosa. Molti – oggi – sono convinti che a quella Campagna di guerra avessero partecipato solo gli alpini, mentre c’erano dieci Divisioni.
A un certo punto del poema, Marcelli scrive: “La tragedia degli alpini fu tale e quale quella nostra, solo che quella loro fu un po’ più reclamizzata.” Lo dice in maniera benevola, naturalmente...
Certo, senza nulla togliere al loro valore, ma bisognerebbe riconoscere che anche le altre Grandi Unità hanno fatto il loro dovere... Altri libri?
La lettura più difficile è stata Tutti i vivi all’assalto, di Alfio Caruso. È di una puntigliosità, di una precisione maniacale, sembra di essere lì con loro, in mezzo alla neve, ora dopo ora...
Sono interessanti anche le raccolte di testimonianze curate da Giulio Bedeschi, come Fronte Russo, c’ero anch’io, Nikolajevka, c’ero anch’io, Prigionia, c’ero anch’io... nei quali Bedeschi ha raccolto tante voci diverse, dalle relazioni di alcuni ufficiali alle poche righe – semplici ma ugualmente efficaci – dei normali soldati di truppa, di tutte le Divisioni.
Tu credi saranno contenti dello spettacolo, quelli che l’hanno vissuta, o i familiari?
Ho parlato, a suo tempo, con parecchi reduci e ho potuto toccare con mano due reazioni opposte. Una è quella di tuo nonno, e di quelle persone che hanno cercato di rimuovere tutto, che non hanno piacere di parlarne, che ritengono quel passato troppo doloroso. Al contrario ci sono reduci che hanno proprio voglia di essere ascoltati. Ne ho trovati alcuni che mi hanno raccontato tanto... quasi con il timore che la gente si sia dimenticata di loro e di quegli avvenimenti. Perché se ne parla poco.
Come ti spieghi – nonostante la nostra fosse una guerra di invasione, al seguito dei Tedeschi che si erano comportati in un certo modo e si erano di sicuro inimicati gli Ucraini – l’instaurarsi di rapporti piuttosto buoni fra le nostre truppe e la popolazione locale?
A proposito di questo mi sono un po’ ricreduto leggendo un libro scritto da un Tedesco, Invasori non vittime. L’Autore dice: “I Tedeschi erano terribili. Quando arrivavano loro, la popolazione tremava dalla paura. Quando arrivavano gli Italiani non che i civili fossero contenti, ma avevano senza dubbio un’altra reazione.” Detto questo, però, lui nel libro racconta anche di donne stuprate dagli Italiani. Non so dove stia la verità, sicuramente nel mezzo. L’Italiano di indole non è così... cattivo. Lo vediamo poi da quanto successe nel nostro Paese quando furono i Tedeschi a dover ripiegare. Un episodio che mi ha colpito molto è quello di Sant’Anna di Stazzema. Mi piacerebbe approfondirlo...
Ho letto testimonianze che possono sembrare incongrue, se riferite a una Campagna di guerra... I nostri soldati dividevano il rancio con i bambini, affamati perché i Tedeschi requisivano tutto o quasi, i medici curavano la popolazione locale... credo che il nostro atteggiamento abbia poi influito sul modo di comportarsi della popolazione durante la ritirata.
C’è una cosa importante che voglio chiederti. Ho stampato una nota dedicata allo spettacolo Li Romani in Russia, presa dal sito dedicato al tuo ultimo cd. Nella nota è scritto: “partono in 220.000 ragazzi, ne tornano 20.000”. Da dove hai tratto queste cifre?
Sì, infatti... so che non è esatto...
Ne tornarono molti di più. La forza massima dell’ARM.I.R. subito prima del ripiegamento era di 229.000 uomini circa.
In effetti, leggendo diversi libri, ho sempre trovato numeri discordanti e non riesco a capire quali siano quelli esatti.
Un buon libro da leggere, al riguardo, è quello di Maria Teresa Giusti (I prigionieri italiani in Russia).
Secondo quanto riporta il testo ufficiale dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito – Le operazioni delle Unità italiane al Fronte Russo (1941-1943) – i superstiti a seguito del ripiegamento furono circa 114.000, oltre a più di 29.000 feriti e congelati rimpatriati per primi. Riguardo ai dispersi, purtroppo non sapremo mai non esattezza quanti ne morirono durante il ripiegamento e quanti in prigionia; il testo suddetto ne indica circa 85.000 complessivi (conteggiati nel marzo 1943, quando i superstiti della nostra Armata si radunarono nella zona di Gomel').
Il libro di Maria Teresa Giusti afferma che nei tabulati sovietici, dopo l’apertura dei loro archivi all’inizio degli anni ’90, sono presenti circa 64.500 nomi di prigionieri italiani. Di questi 38.000 risultano deceduti nei lager.
In realtà quando oggi ci si riferisce alle perdite, si parla di quasi 90.000 militari non rientrati, considerando anche le circa 5.000 perdite – tra caduti e dispersi – relative al primo anno di Campagna, dall’estate 1941 all’estate 1942, quando operò il C.S.I.R.. Delle circa 85.000 perdite relative all’ARM.I.R. si stima che 20.000 circa siano quelle connesse al ripiegamento... le altre, confermate anche dai tabulati sovietici, sono da riferire a Italiani morti in prigionia. Dai campi tornarono solo 10.030 uomini dell’ARM.I.R..