Da Vita quotidiana durante la Campagna di Russia (1942-1943) - Il diario fotografico inedito di un alpino sul Don,

Pasquale Grignaschi, Interlinea Edizioni, Novara, 2000

 

6 novembre 1942

Stamani, nell'incerta luce dell'alba, due alpini sono stati fatti bersaglio di fucilate sul percorso che segue il grande calanco di confine fra i battaglioni Dronero e Borgo San Dalmazzo. Un alpino è stato ferito al piede.

La pronta reazione del compagno con bombe a mano ha messo in fuga la pattuglia sovietica... tre uomini - hanno detto - che sono scomparsi nel calanco. L'allarme dato dagli scoppi ha fatto accorrere aiuti, ma dei Sovietici assalitori non si è trovata traccia.

Il maggiore Guaraldi pone qualche dubbio sulla versione data e porta attendibili argomentazioni: i Russi in agguato avrebbero colpito meglio; non sarebbero spariti impunemente verso il Don poiché il calanco è minato; anche nella scarsità di luce del primo mattino non sarebbero passati inosservati attraverso le linee; dalla scarpa tolta al commilitone ferito, è  asportato con netto taglio di coltello il pezzo di cuoio attraverso il quale è passato il proiettile. Perché? Per poter togliere la scarpa stessa. Non sembra una giustificazione sufficiente. Si è voluto nascondere la bruciatura di un colpo sparato troppo da vicino? Inoltre un colpo manca dal fucile dell'alpino incolume, che dichiara di aver risposto ai Sovietici.

Conclusione: si potrebbe pensare a una lesione volontaria per farla finita una volta per tutte con questa benedetta Russia.

Il ferito era sempre stato un ottimo soldato; quanto al compagno... da quando si era in Russia niente da dire, ma in Italia meglio non parlarne.

Don Oberto, il tenente cappellano, conciliante sempre, appoggia la tesi dell'aggressione incontrando anche la accondiscendente buona volontà del maggiore, e tutto si conclude con un alpino di meno in linea, avviato all'ospedaletto da campo e poi, addirittura, in Italia. 

Cose che capitano. [...]

 

24 novembre 1942

Ieri hanno ucciso Amisano. Alla posta, così come si abbatte, in montagna, la selvaggina attesa al varco. Stava trasportando in linea il materiale da impiegare la notte successiva. Proprio dove il camminamento volge in discesa verso il Don e quindi è scoperto ai Russi, è stato investito da una raffica di mitraglia. Il sottotenente Mutisio lo trascina, morto, al riparo. È il primo caduto del battaglione sul Don e siamo tutti molto scossi. Oggi l'hanno sepolto ad Annovka.

La  temperatura si irrigidisce ogni giorno di più. Il delicato lavoro di posa delle mine trova il nemico più pericoloso nel gelo che rattrappisce e paralizza le dita, le appiccica all'involucro metallico e le rende insensibili alle delicate operazioni di innesco. Provvidenzialmente non è ancora scesa seriamente la neve: qualche spolverata a cambiare il colore del paesaggio senza troppo infastidire.

Con il freddo arrivano gli equipaggiamenti invernali: cappotti con interno di pelliccia, lunghi mutandoni, passamontagna e calzettoni di lana, paraorecchi e guanti foderati di pelo. Le calzature lasciano desiderare qualcosa di meglio, cioè scarponi confezionati con materiali più resistenti e idonei al gelo.

Il vitto è sufficiente e con qualche acrobazia il furiere e i cucinieri riescono a ottenere un buon rancio. Ingiusto sarebbe lamentarsi. [...]

 

25 dicembre 1942. Santo Natale

Natale di distruzioni, di sofferenza, di sangue. Come è triste questo giorno. [...] Penso a Mariuccia.

Penso a mia madre sola a Novara... Voglio vederla.

Allora apro la cassa dell'orologio e guardo l'onesta espressione di mio padre, morto l'anno scorso quasi di questi tempi, ed il severo sguardo della mamma, e mi sento avvolgere da un ineffabile calore. Non più vento, gelo, fatiche, guerra. Questi sguardi sono gioia, calore, luce e vita.

Qualcuno apre la porta del bunker: una folata di aria gelida deposita sul pavimento bianche stelline di neve ghiacciata. L'incanto è finito.

È notte. Al [caposaldo] Vignolo ci scambiamo le impressioni sui recenti avvenimenti, riscaldandoci con qualche bottiglia - troppo poche - di vino del Reno, inviata per l'occasione della festività dal Comando della 23ª [Compagnia].

Un sottufficiale annuncia che stanno portando un Russo ferito, presentatosi davanti ai cavalli di frisia gettati sul ghiaccio attraverso il Kalitva. Potrei non credere ai miei occhi: una donna, avvolta in coperte, è stesa sulla barella introdotta a fatica dai portaferiti attraverso la stretta porta del bunker. Non ha più di venticinque anni. Chiede insistentemente “Vodà, vodà...”, acqua, acqua. Brucia di febbre. Vestita di pesanti e rigonfi indumenti non si comprende dove sia ferita, mentre abbondante sangue inzuppa la coperta sotto l’addome. Avrà poche ore di vita.

Deve avere attraversato le linee russe, il Don, o piuttosto proveniva da Novo Kalitva e cercava di entrare nelle nostre retrovie attraverso la piana ridiventata calma e silenziosa dopo il recente combattimento? Cercava la casa e la famiglia oppure è una spia?

Il suo sguardo semispento suscita in me di nuovo la ribellione. Contro tutti! Contro i Sovietici, contro i Tedeschi, contro coloro che hanno imposto questa guerra, contro la vedetta che ha sparato, pur compiendo il suo dovere, e anche contro quel residuo di bontà che rimane sempre in ciascuno di noi e che ci induce ogni tanto a pensare come oggi io penso.

Spesso abbiamo paura di essere buoni. Com’è fatto male, a volte, l’uomo.

Viene ricostruito l'episodio. Un'ombra si avvicina ai reticolati, proveniente dalla piana lungo il Kalitva; attraversa i cavalli di frisia provocando lo scoppio di una delle mine ad essi collegate e rimane incolume; continua ad avanzare tra reticolati e trincee; una vedetta lancia il chi va là, nessuna risposta, ma l'ombra si arresta. Al soldato, nell'incerto chiarore diffuso dalla neve, pare che alzi le braccia come per lanciare qualcosa: allora spara, abbattendo l'ombra sulla neve. Solo quando viene raccolta i portaferiti si rendono conto che è una donna.

 

 

 

 


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