Da Morire giorno per giorno – Gli Italiani nei campi di prigionia dell'URSS,
Gabriele Gherardini, Mursia, Milano, 1966
A Krinovaja ci dovevamo stare tre o quattro giorni al massimo e invece ce ne rimanemmo sedici, dalla metà di febbraio sino ai primi di marzo. Fu il periodo più orrendo della prigionia – l'incuranza e la crudeltà erano spinte all'inverosimile –, l'inferno dei vivi.
Ci entrammo in trentamila, compresi prigionieri di altre nazionalità, già lì da una quindicina di giorni circa; ne uscimmo in tremila... ventisettemila se ne andarono in poco più di un mese.
I più morirono di fame, di dissenteria, di tifo esantematico; molti furono divorati ancora caldi dai compagni, di qualcuno si affrettò la fine perché morisse prima e servisse da pasto agli altri. Fu il regno delle sozzure più tremende, l'egoismo e la brutalità umani assursero a forme d'incubo, in due settimane si provò quello che nessuno ha provato mai: la bestia più immonda avrebbe avuto schifo dell'uomo.
Neppure oggi riesco a capire come io abbia potuto sopravvivere. Ormai contavo i giorni, tutti contavano i giorni, i medici ci dicevano ancora cinque, quattro, tre... poi saremmo morti.
Pesavo quaranta chili, non mi muovevo più; sentivo la fame solo quelle rare volte in cui arrivava da mangiare, cento grammi di pane – quando c'era – e una zuppa, ogni due o tre giorni.
La prima settimana non ci hanno dato quasi niente. I nostri soldati erano separati, chiusi in enormi cameroni diacci, e stettero digiuni anche quando a noi ufficiali diedero il primo pasto. La direzione del campo l'avevano certi Ungheresi – con a capo un Ebreo che noi chiamavamo la belva di Krinovaja –, che si accanivano con spietata ferocia contro gli Italiani, sottraendo quello che potevano. In fatto di nutrimento comandavano loro e i Russi non sono mai intervenuti altro che per aumentare i nostri tormenti.
I morti erano tanti che non era possibile smistarli neanche in ventiquattr'ore. C'erano, adibite a questo, delle apposite squadre e ai corpi nudi venivano messe delle corde al collo, e li trascinavano non so dove. [...]
Eravamo capaci delle aberrazioni più incredibili e così una sera cantammo, tutto il campo degli ufficiali cantava, i morti della giornata ci fissavano a occhi sbarrati, con le ossa tese a bucar la pelle. Era terribile il suono della nostra voce, senza espressione né vita, qualcosa di cui noi stessi non ci rendevamo conto, ma fu una specie di follia e durò molto tempo. [...]
Il campo era vastissimo; oltre alla stalla in cui vivevamo noi, apparivano qua e là mucchi di costruzioni in muratura; lo spazio che le divideva serviva da latrina, da cimitero, da fogna. Si defecava vicino ai cadaveri nudi, molte volte ce n'erano tanti che non si sapeva dove mettersi. Un angolo era riservato ai diarroici, se facevano in tempo a correrci, ma non si vedeva che un gran lago giallastro e oleoso a metà ghiacciato, con alcuni sassi per accovacciarsi.
Il puzzo ammorbante si sentiva per tutto il cortile, fin dentro alle stalle.
In occasione del bagno mi resi conto degli effetti del cannibalismo, un fenomeno che si scatenò fra i soldati: non ho mai saputo che avvenisse tra gli ufficiali. Dipendeva, dicevano, dal fatto che i soldati mangiarono, forse, una o due volte in tredici giorni, dopodiché partirono [...].
Sono cose orribili e mostruose oggi, ma allora non lo furono, dovevano avvenire, erano stati i Russi a ridurci in quelle condizioni. A evitarle ci voleva poco; bastavano cento grammi di pane tutti i giorni, e anche meno. Non l'hanno fatto e la conseguenza mostruosamente inevitabile è stata il cannibalismo. [...]
L'antropofagia dei soldati italiani non poteva in effetti essere compresa tra i piani di distruzione sovietici, ma fu la conseguenza della loro noncuranza. [...]
Ci sono riusciti! Hanno potuto dire ancora una volta che gli Italiani non avevano culturnji, educazione, amor proprio, dignità; hanno fatto di noi dei selvaggi, delle belve che si ricercavano per sfamarsi, degli esseri da capestro. [...]
Stavamo in una stalla, un gran corpo tra due corridoi; nel corpo tanti box, quattordici per parte, tutti costruiti a regola d'arte, con tre pareti in muratura, la quarta a sbarre di legno. I cavalli ci dovevano vivere a loro agio, era una costruzione razionale, con grandi finestre, abbeveratoi, aria; noi ci morivamo.
I box erano piccoli, tre o quattro metri, buoni appunto per un quadrupede. Ci dovevamo stare in venticinque o trenta, a terra, sull'acciottolato uniforme, e per giaciglio avevamo uno strame di paglia vecchia, forse del tempo della rivoluzione. [...]
Ci eravamo abituati a vivere in pochi centimetri di spazio, ma una cosa così tremenda non l'avevamo mai vista. Nel mio box, che era uno dei più piccoli, la prima sera fummo in sei, il giorno seguente in venti, non finivano più di mandarceli dentro... poi arrivammo sino a ventiquattro. Molti dovevano stare in piedi, ci sedevamo a turno, qualcuno si ammonticchiava al centro [...].
Difficilmente ai feriti era concesso qualcosa, talvolta ci si stringeva per far loro un po' di posto, ma lo spazio non si poteva creare e a star sospeso in aria non riusciva nessuno. Stagnava un lezzo di cancrena purulenta, molti avevano una diarrea spaventosa e non facevano neppure in tempo a muoversi; i pidocchi erano a milioni, la paglia puzzava di sterco fermentato, ma ci si buttava sopra ugualmente, guance, mani, ogni parte nuda, come su un lenzuolo appena stirato. [...]
Durante le rare ore della zuppa pareva un inferno: i Russi ci davano da mangiare nei momenti più impensati, quasi sempre di notte. L'annunzio era dato da uno strano individuo vestito per metà alla russa e metà all'ungherese, che passava per i corridoi agitando una fiaccola e gridando "suppe, suppe" con la voce soddisfatta di chi è pieno fino agli occhi. All'atto in cui il marmittone veniva posato con un tonfo sordo davanti al box, se dentro non c'era luce i Russi tiravano diritto e per quella volta si saltava il pasto. [...]
L'attesa aveva qualcosa di frenetico. Nel buio tutti cercavano i recipienti, erano come tesori e bastava un niente per scatenare il finimondo. Cucchiai non ne aveva nessuno e si doveva sorbire la brodaglia scottandosi mani, palato e gola per far presto, perché qualche volta ce n'era ancora un goccio ed era necessario stare all'erta. [...]
L'altra tragedia era quella del pane. Il pane ce lo dettero tre o quattro volte, erano cento o centoventi grammi a testa da tagliarsi da alcune forme oblunghe e il problema delle divisioni diveniva terribile. C'era uno specializzato, ma si continuava a cambiarlo, perché non ci si sarebbe fidati neppure di nostra madre. [...]
Le malattie si manifestarono non si seppe come; si cominciò a morire a poco a poco, oggi uno, domani tre, due giorni dopo dieci. Si moriva e nessuno se ne accorgeva, meno di tutti quelli che se ne andavano. [...]
Taluni si gonfiavano nelle gambe, poi il gonfiore saliva, e un bel giorno – il mattino – mostravano delle facce paonazze e irriconoscibili. Si credette dapprima che fossero dei fortunati, gente che si procurasse il cibo in chissà quale modo, invece era l'acqua che li gonfiava; e quando arrivava al cuore era finita.
Uno morì mentre sorbiva la zuppa; rimase lì fermo un momento, i suoi occhi non si vedevano più, annegati com'erano nella tumefazione del volto, poi il barattolo gli rotolò di mano, rovesciò la testa all'indetro, morto.
Molti, il mattino, non si muovevano, pareva che dormissero, ma era un sonno senza risveglio. Li trovavamo così; i primi giorni la cosa meravigliò, poi la meraviglia fu solo per quelli che restavano vivi; la sera non sapevamo se avremmo riaperto gli occhi.
La scatola in legno è pregevole opera d'intaglio di Evaristo Cecchet, fratello di Beppino Cecchet,
morto a Krinovaja (Khrinovoje, Hrenovoe) il 21 marzo 1943.
Contiene terreno prelevato dalla fossa comune del campo di Hrenovoe e un po' di sabbia delle rive del Don.