Da Né vivi né morti – Guerra e prigionia dell'ARMIR in Russia – 1942-1945
Fidia Gambetti, Ugo Mursia Editore, Milano, 1972
La notte successiva all’ottavo giorno, appena il treno si ferma a una delle tante stazioni anonime, una voce di donna ci parla nella nostra lingua, ripetendo di vagone in vagone:
“Italiani, il campo di concentramento si trova a quattro chilometri. I feriti e i congelati non si muovano.”
Siamo dunque arrivati. [...]
Scendendo, apprendiamo che negli altri vagoni la percentuale dei morti è stata altissima. Nessuno ha pensato o è riuscito ad accendere le stufe che, d’altronde, non c’erano in tutti i carri.
Si esce dalla piccola stazione alla rinfusa. È notte inoltrata. Questa volta non ci contano.
Comincia la pista gelata e insidiosissima in mezzo a un grande bosco di betulle e pini altissimi. Mi sento abbastanza in gamba. [...] Quattro chilometri non fanno paura. Eppure, per altri, sono troppi. Il colpo di grazia. La tomba.
È come camminare sul filo. Più facile scivolare che stare in piedi con queste mai abbastanza maledette scarpe chiodate.
Ecco i reticolati del campo. Tutto quello che si vede dal di fuori sono i tetti spioventi dei bunker interrati.
Ora ci inquadrano a scaglioni di cinquanta. Fanno uscire i sottufficiali e a essi affidano il comando dei singoli plotoni.
Varchiamo la soglia dell’ampio cancello di legno sormontato da una stella rossa e da un numero: 188.
Prigioniero è una parola.
Sono qui che ci penso, sdraiato sulla sabbia fredda e umida di un bunker – così come li chiamano i tedeschi che li hanno inventati –, con la testa posata sulle scarpe, le mani in tasca, le gambe e i piedi immobilizzati sotto il corpo di qualcuno. [...]
Sia per l’eccessiva stanchezza, sia per la posizione soffocante, non riesco a prendere sonno. Ed è un guaio, perché quando non si dorme si pensa, e quando si pensa – sai com’è – il cuore s’intenerisce, quindi disarma, non sa più lottare, fa kaput.
Qualora i miei calcoli siano esatti, oggi – se non è ancora mezzanotte – dovrebbe essere l’8 gennaio. Cioè, contando sulla punta delle dita, il ventunesimo giorno di questa storia.
Ecco, prigioniero-da-tre-settimane, adesso sì non è più una parola. Per lo meno non è una parola semplice, ma una parola composta del tempo, dello spazio, della neve, della sete, della fame, della stanchezza, della morte, tutti i personaggi che popolano queste cinquecentoquattro prime ore, questi tremiladuecentoquaranta minuti di introduzione a una nuova vita.
Spero che il libro sia meglio di quello che l’introduzione fa temere. Anche se sarà lungo, molto lungo da leggere.
[...] la parola prigioniero comincia a staccarsi dai frontespizi della letteratura, dai cartelloni del cinema e del teatro, si impasta con i miei pensieri, con la mia carne, con il mio sangue, è questa sabbia fredda e umida su cui sono coricato, è il respiro dei compagni nel sonno, è il buio impenetrabile del bunker, è la vita che mi resta.