Da Morire giorno per giorno, Gabriele Gherardini, Ugo Mursia Editore, Milano, 1966
Dopo ogni scontro col nemico, che faceva il colpo come un ladrone da strada, senza mai rischiare in campo aperto, buttando sotto carri e mitragliamenti alle spalle e sganciandosi subito, dalla colonna che riprendeva la via della speranza e della morte si staccavano tanti punti grigi, simili a manciate di chicchi: i morti.
Restavano lì, immobili, quieti, quasi stupefatti di essere stati proprio loro i prescelti; forse si accorgevano che stavano per essere abbandonati e si lamentavano al modo dei morti, piano, senza disturbare.
A voltarsi indietro, si distinguevano netti e precisi: a gruppi, soli, vicini, lontani, ma tutti fermi, così ordinati talvolta da far pensare a gente che prima di addormentarsi si fosse riunita per sentir meno il freddo e la solitudine.
Chi erano? Con chi hanno parlato l'ultima volta, prima di essere abbattuti? Chi recherà a casa il nome e il racconto della loro fine? Forse nessuno, perché forse nessuno tornerà! E anche se torneranno, non potranno dire altro che i caduti erano tanti che anche se ci si fosse fermati a contarli ed a riconoscerli, non si sarebbe fatto in tempo e tutti correvano via e nessuno voleva perdere un minuto; perché un minuto voleva dire dieci, venti passi di più, qualche metro ancora, verso l'occidente, così freddo e lontano.
I morti, i nostri morti ignoti ed umili; che rimanevano, sfilacciature di una sciarpa frustata dal vento, ad indicare i gradini di una scala insormontabile, senza sepoltura, sotto un cielo diverso dal loro: che come gli altri, i superstiti, dovevano avere detto che anche questa volta forse sarebbero riusciti a sfangarla, che tra poco, due o tre ore, anche la tappa sarebbe finita e i chilometri fatti non sarebbero stati più da contare.
Sembrava, da lontano, che si tenessero per mano, come fanno i bambini: le braccia, con i corpi, formavano una croce, la croce che nessuno ha piantato, che nessuno mai pianterà per loro.
Più ci si allontanava e più si stringevano in un corpo solo, in un'unica speranza indistinta. Forse sorgeva in loro un timore nuovo, che rinsaldava ancora la stretta delle mani e li faceva scivolare l'uno addosso all'altro, sul catafalco vetrato: il timore di essere dimenticati, così lontani e soli, mentre gli altri, quelli vivi, scomparivano laggiù, confusi nella colonna sempre più sottile, più vuota e sanguinante.
Nessuno dimenticherà, nessuno potrà dimenticare: né oggi né mai.
Ho rincorso cinque soldati, due alpini e tre radiotelegrafisti che si sono gettati come una muta di mastini verso una capannaccia sconnessa, appena fuori dalla strada. La porta era sbarrata, dall'interno nessun segno di vita.
Famelici, cupi, irresponsabili, hanno dato di piglio ai fucili e hanno cominciato a menare contro le assi fradicie certi colpi d'ariete, secchi come pistolettate; e poiché quelle non cedevano - chissà cosa ci avevano ammassato dietro! - uno ha scostato violentemente gli altri e, imbracciata l'arma, ha tirato a bruciapelo proprio lì, tra la serratura e lo spigolo. La porta ha scrosciato in avanti come un ponte crollato, rimbalzando sui gradini lisci di ghiaccio e spalancando un rettangolo nero nel quale gli scassinatori si sono cacciati di furia.
Al mio entrare, tutto era già stato fatto: al centro della stanza da un saccone sventrato come una carogna sbranata, usciva un pagliame putrido e nauseabondo; l'anta di un armadio, trascinato lontano dal muro, pendeva dal cardine superiore, a sghimbescio; due orcioli a forma d'anfora, color terracotta, impastati di untume nero, giacevano coricati, spandendo dalle cave bocche circolari lezzo di cavoli salati; i frantumi di una ciotola sul pavimento umidiccio e appiccicoso biancheggiavano come ossa umane; da una cassapanca senza coperchio miseri cenci aggrumati erano stati rovesciati qua e là alla rinfusa.
Più che vederli, li ho intuiti quei quattro occhi che mi fissavano da un angolo, bianchi come i cocci sparsi per terra, dilatati, insostenibili. Due donne, decrepita la prima e ripugnante nell'aspetto orrendo di strega, poco più che adolescente la seconda e minuta; discinte, a brandelli, inverosimilmente incrostate di sudiciume, si stringevano l'una all'altra con un uggiolìo di cagne battute; dalle labbra della più giovane, per il mento color bronzo, un filo di sangue colava giù per la gola, sino all'apertura bruna del seno.
I cinque saccheggiatori, vedendomi, si sono immobilizzati. Udivo distintamente battere i denti, non so se della vecchia o dell'altra. Ho guardato loro, poi i soldati che fissavano l'impiantito, fermi come statue, mutati.
"E allora, avete trovato qualcosa?"
Mi ha risposto lo stridìo insistente, là nell'angolo. Uno si era chinato, affaccendandosi intorno alle scarpe; un topo si mise a squittire, invisibile.
"Fuori!"
I cinque, impacciati, hanno raccolto goffamente l'arma e il casco d'acciaio, gettati via nell'ansia della rapina, e hanno cominciato a scivolare fuori, guardandosi intorno con un'aria tra melensa e indifferente. L'ultimo, un pezzo di alpinaccio che per passare dalla porta era costretto ad accartocciarsi tutto nelle spalle, si è fermato, piegato a mezzo sulla soglia, esitante, il viso rivolto verso di me.
"Fuori, ripeto!"
La mano mi è scivolata lungo la fondina della rivoltella. L'altro ha seguito rapido il gesto, gli occhi hanno assunto una espressione singolare, quasi infantile, è stato un momento in forse, poi si è sollevato all'interno, venendo dentro con brevi passi incerti. Giunto al tavolo, ha sfibbiato il tascapane, ci ha frugato dentro a lungo - si vedeva che stentava a trovare - e ha posato lì qualcosa di bianco, come due bioccoli di bambagia. Dopo, se n'è andato, più deciso, leggero, quasi frettoloso; per un istante la figura stretta nel vano della porta ha oscurato la bicocca.
Quando la luce è tornata, mi sono avvicinato: sul piano slabbrato del tavolo, due involtini, uno regolare, ancora sigillato, intatto come gli era stato dato, l'altro informe e appallottolato, quasi fosse appena uscito da un pugno. Il primo l'ho subito riconosciuto: un pacchetto di medicazione.
Nel secondo, avvolto in carta opaca e dura come pergamena, un frammento di galletta, grande come un fondo di bicchiere.
Le due donne mi erano venute alle spalle, in punta di piedi: ne sentivo il respiro ancora anelante e l'odore sgradevole di indumenti non lavati; i denti non battevano più.
Attratte dalle curiosità, entrambe mi si pigiavano addosso per osservare, dimentiche della paura: un seno della ragazza, un piccolo seno di bambina, mi premeva l'omero come una cosa viva e staccata. Volgendo piano il capo, l'ho guardata: sotto l'onda arruffata dei capelli color del grano già passato di maturazione, gli occhi erano di un verde spento, simili a certe foglie in autunno. Quando con mossa stanca ha sollevato lo sguardo verso il mio viso, da quegli occhi pallidi, velati di ombra, è scesa una lacrima, una sola, che scivolando lungo la guancia smunta, è andata a morire nella riga secca del sangue, come una perlina di vetro liquido.