Da Isbuscenskij – L'ultima carica

Il Savoia Cavalleria nella Campagna di Russia – 1941-1942

Lucio Lami, Ugo Mursia Editore, Milano, 1970

 

Isbuscenskij l ultima carica copertinaLa mattina del 24 agosto [1942, n.d.r.] la pattuglia del sergente Comolli uscì, com'era stato stabilito, alle tre e trenta dopo aver dato ai cavalli un po' di biada e aver cercato invano dell'acqua con cui abbeverarli. L'aria era ancora fredda e gli uomini del Reggimento dormivano avvolti nei pastrani, il capo protetto dal passamontagna. [...]

I cavalli presero a trottare leggeri tra i campi di girasoli e i morbidi tappeti sui quali il grano era stato mietuto da poco: c'era una nebbiolina lattiginosa che rendeva il paesaggio quasi irreale. In testa alla pattuglia marciava Bottini, guastatore, seguito dal caporale Legnani e dall'appuntato Petroso; gli altri tre uomini, guidati da Comolli, procedevano a un centinaio di metri, armi alla mano.

«[...] a una cinquantina di metri vidi qualche cosa che si muoveva e luccicava in mezzo a un campo di girasoli: sembrava un elmetto. "Forse è la pattuglia tedesca che ci viene incontro", dissi e, sollevandomi in piedi sulle staffe, gridai: "Ehi, camarade!"

Ma non udimmo risposta. Allora accesi una sigaretta e mi avviai tra i girasoli, verso il centro del campo. Ero a una ventina di metri quando l'elmetto raffiorò e questa volta lo vidi bene: era color oliva con al centro una stella rossa. Ricordo che in quel momento, forse a causa della paura, riuscii a fare – in una frazione di secondo – una intera serie di considerazioni: montavo una cavalla ombrosa ed ero armato con un parabellum russo; se avessi sparato a raffica la cavalla mi avrebbe quasi certamente disarcionato; accanto a me, invece, c'era Petroso che montava Olwo, il cavallo più tranquillo del Reggimento...

Quasi istintivamente gridai: "Spara tu, Petroso, spara!"

Petroso, da buon siciliano, non si scompose: teneva il moschetto sotto il braccio e lasciò partire un colpo che colpì il Russo proprio al centro della fronte, un dito sotto il filo dell'elmetto.

Fu come un segnale: si scatenò l'inferno.» [Da un'intervista dell'autore con Aristide Bottini, n.d.r.]

 

Al Reggimento dormivano quasi tutti: solo qualche gruppetto di soldati stava rigovernando i cavalli o sorbendo il caffè; la sveglia venne data dalle prime raffiche e soprattutto dalle esplosioni dei colpi di mortaio che fortunatamente cadevano lontano dal quadrato. Gli ufficiali saltarono giù dalle loro brande o dai camion sui quali dormivano, i soldati si alzarono rapidamente da terra e, raccolte le loro cose, corsero a recuperare i cavalli. Bettoni raggiunse la radio [...]. [...]

I mitraglieri, intanto, avevano cominciato a rispondere al fuoco e sgranavano caricatori, mentre il maggiore Albini e il capitano Solaroli di Briona, delle batterie a cavallo, avevano messo in azione i loro soldati.

 

La fronte del nemico veniva rivelata, alla tenue luce dell'alba, dalle fiammelle azzurrognole delle armi automatiche: era ampia circa un chilometro e non distava, ormai, più di ottocento metri. I Russi erano arrivati durante la notte, forse avevano sentito i rumori e le voci provenienti dalla zona dove sostava il Savoia e si erano preparati, scavando buche e schierandosi a semicerchio, a sferrare l'attacco al mattino. Era stato probabilmente per non rinunciare alla sorpresa che non avevano aperto il fuoco per primi sulla pattuglia esplorante.

Ora però le loro intenzioni erano chiare. Il nemico, infatti, forte di duemila uomini (due battaglioni di Siberiani) contro settecento e in vantaggio per la posizione favorevole che occupava, poteva essere sicuro del successo.

 

Bettoni non ebbe dubbi, pensò di attaccare [...]. [...]

Lo squadrone uscì rombando dal quadrato, descrisse un ampio semicerchio sulla destra e si infilò in un canalone naturale che lo defilava al tiro nemico. [...]

Dal Comando di Reggimento videro allontanarsi ondeggiando quella lunga scia: gli elmetti luccicanti, le groppe tonde dei cavalli, le trombe d'ottone e le bandoliere ballonzolanti sulle schiene ricurve. [...]

Lo squadrone raffiorò all'improvviso dal leggero avvallamento, vicinissimo al fianco sinistro del nemico; un attimo d'attesa, poi "Galoppooo!". E subito dopo "Caricaaaat!", un grido al quale rispose un coro fragoroso: "Savoia!"; il boato coprì il frastuono della carica e giunse nitido fino al Reggimento.

Il galoppo divenne allora carriera sfrenata e i plotoni irruppero come un fiume straripante sulle linee nemiche gridando, sciabolando, sparando, lanciando bombe a mano.

I cavalli sembravano guariti dalla fatica e rampavano schiumanti, saltando trincee e nidi di mitragliatrici, cacciandosi a frotte verso l'obiettivo indicato dallo sprone e scomparendo entro enormi nubi di polvere, seguiti dal tuono del loro zoccolio e dal crepitare furioso delle armi.

Molti venivano colpiti e dalle loro ferite, per centinaia di metri, zampillava il sangue vermiglio, a ogni tempo di galoppo.

«Sembrava incredibile, ma c'erano cavalli già morti che continuavano a galoppare come fantasmi, schiantandosi poi al suolo, di colpo, come querce colpite dalla folgore.»

[Da un'intervista dell'autore con Giordano Gallotti, n.d.r.]

 

 


 

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