Da Non prendere freddo – Il racconto di un reduce del corpo di spedizione italiana in Russia
Luciano Vigo, Gianni Iuculano Editore, Pavia, 2000
Ci preparavamo dunque a trascorrere il nostro primo Natale di guerra, lontani migliaia di chilometri dalle nostre case, in un clima che di natalizio aveva soltanto il freddo.
L’inverno russo era ormai nel suo pieno rigore: la temperatura scendeva a livelli che gli stessi ucraini affermavano non esser mai stati toccati negli ultimi quarant’anni. In gennaio avremmo poi raggiunto i 42° sottozero, ma già in quella seconda metà di dicembre, nelle ore calde, il termometro non saliva oltre i 20° sottozero.
Comunque, a quei livelli, la differenza tra -20° e -40° non è percettibile se non in termini di tempo di esposizione al freddo. In altri termini, il tempo necessario perché il freddo penetri nelle ossa e, a lungo andare, si arrivi al congelamento, specialmente degli arti, è più lungo a -20° e assai più breve a -40°, ma la sensazione che si prova al momento di uscire all’aperto, dal caldo dell’isba, è esattamente la stessa.
Rovine a Stalino, imbiancata dalla neve
Autunno-inverno 1941
(Immagine tratta dal sito dell'Archivio Centrale dello Stato)
All’aperto gelava tutto: l’acqua, naturalmente, ma anche ogni altro liquido compreso il vino, che infatti si andava a prelevare dalla cucina di battaglione col sacco di juta... arrivava così un grosso blocco di ghiaccio che aveva al centro un nucleo rosso; posto a riscaldare sulla stufa si scioglieva e si trasformava in vino come nel miracolo delle nozze di Cana.
Gelavano la pagnotta, la carne, le uova.
Insomma, qualunque cosa avesse un contenuto ancorché minimo di umidità gelava rapidamente, come in un enorme sconfinato freezer.
Anche l’alito, filtrando attraverso la lana del passamontagna, lo faceva gelare trasformandolo in una specie di barbuta o di celata rigida, che lasciava scoperti soltanto gli occhi e ci faceva somigliare a dei guerrieri medievali.
E infine, gelava anche la pipì e ci fu chi, come accadde a un sottotenente del nostro reggimento, per non essere stato abbastanza rapido a riabbottonarsi i pantaloni, si buscò un inizio di congelamento in quella parte del corpo umano che distingue i maschietti dalle femminucce.
Per contro, all’interno dell’isba faceva fin troppo caldo, tanto che chi dormiva su quella specie di mensola che sporgeva dalla parete proprio sulla stufa, doveva spogliarsi quasi nudo.