Da La mia guerra in Russia, Ernesto Barbieri, Walberti Edizioni, Lugo di Romagna, 1986
Venne l'estate.
S'incominciava a parlare di complementi che sarebbero venuti dall'Italia per darci il cambio, anche perché per due inverni, si diceva, non era possibile resistere.
Il morale era molto sollevato, eravamo in luglio e faceva caldo.
Finalmente ci mandarono a riposo in un grande paese: Makievka, vicino a Stalino. Avevamo così modo di pulirci e grazie ai nostri vent'anni non pensavamo più al brutto passato.
Ognuno si cercava una casa per farsi lavare la biancheria. Io trovai una famiglia composta dalla madre, [dalla] figlia e [da] un bambino di dieci anni. La mamma aveva quarant'anni e la figlia sedici; chiesi loro se mi lavavano la biancheria ed esse acconsentirono volentieri. La figlia divenne la mia fidanzata, così in quella casa io ero considerato come un figlio; volevo imparare la lingua russa e loro mi aiutavano così in breve tempo incominciai a cavarmela discretamente. [...]
Passammo così quasi tutto il mese di luglio e gran parte di agosto; io cercavo di rendermi utile in qualche modo e siccome me la cavavo bene a riparare grammofoni, orologi e altre cose del genere, spesso ero chiamato da parecchi borghesi ed eseguivo per loro diverse riparazioni... naturalmente com'era possibile, con i mezzi a disposizione.
Dentro alcune case esisteva un altoparlante che io feci funzionare collegandolo alla radio dello Starosta (l'autorità del paese), così i civili ebbero modo di udire le trasmissioni radio.
Mi chiamavano Makster Pacifon (maestro del grammofono) oppure Makster Ciazì (maestro dell'orologio); in ogni casa esisteva, attaccato al muro, un orologio a pendolo; erano tutti uguali. Quante ne misi in movimento, di quelle pendole!
In parecchie case avevano pure la balalaika e quasi tutte le donne sapevano suonarla; volevano che imparassi anch'io, ma non mi applicai molto, perciò non imparai nulla. Suonavamo dischi, ballavamo e qualche volta facevamo i loro giochi di società (semplici giochi ingenui, ma abbastanza divertenti). [...]
Speravo che durasse a lungo quel riposo perché avevamo bisogno tutti di distendere i nervi dopo tanti disagi e pericoli. Io avevo portato tutta la mia biancheria nella casa dove mi ospitavano così, quando avevo bisogno di qualche indumento pulito, era sempre pronto all'occorrenza.
Glyuba, si chiamava la madre della ragazza... ma io la chiamavo mamà (mamma) e a lei sembrava di avere un figlio in più.
Naturalmente a mangiare e a dormire andavo al mio reparto che si trovava poco distante, anche perché da mangiare ne avevano poco pure loro. Spesso all'ora del rancio vedevo apparire il ragazzo, così la mia razione di minestra la davo a lui, mentre io mangiavo il secondo e a volte solo il pane.
Credo fosse il 23 di agosto quando venne l'ordine di partire immediatamente, perché i Russi avevano rotto il fronte; la famiglia che mi ospitava lo seppe subito e Sura (così si chiamava la ragazza) mi venne incontro piangendo, dicendo che se partivo non sarei più tornato.
Quindi venne la madre e mi propose di restare; mi avrebbero nascosto loro: io rifiutai ma le rassicurai che sarei ritornato presto.
Le rivedo ora come fosse allora, mentre mi supplicavano di restare con quel modo semplice e ingenuo come fosse la richiesta più naturale, poiché nella loro ingenuità non pensavano alle conseguenze cui sarei andato incontro accettando. [...]
Ed ora, mentre scrivo, pur a distanza di tanto tempo, vorrei sapere cosa ha serbato loro il destino...
Oh, Sura! Piccolo fiore ucraino...