Da Russia 1942-1946 – Memorie di guerra e di prigionia, Mario Gullino, Edizioni L'Arciere, Cuneo, 1992
Giunto al paese di Suravskaja, il cap. Sentra, il s. ten. Gilio e io fummo separati dai soldati e fatti entrare in un'isba che credo servisse da corpo di guardia; ci fu data a ciascuno una scatoletta di carne e fummo avvertiti di non tentare la fuga, perché ci avrebbero uccisi.
Verso sera un soldato mi chiamò e mi fece entrare in una camera accanto, separata dalla prima solo da degli assi.
C'erano altri tre soldati molto robusti e anziani, i quali cominciarono a interrogarmi, ma io allora sapevo poche parole di russo e conversammo più che altro a segni; un caporale, visto che avevo un anello al dito, me lo chiese e io glielo diedi; era stato fatto da un mio soldato con un rublo d'argento.
Per ringraziarmi mi diede una gran pacca sulla spalla, facendomi arretrare di qualche passo; capii che avevo a che fare con gente alquanto semplice e con nessuna intenzione di farmi del male, perciò risi anch'io e gli feci capire che era molto forte; se non l'avessi fatto sarebbe stato meglio per me, perché anche gli altri – per far vedere che non erano da meno – incominiarono a picchiarmi sulle spalle, sballottandomi per almeno cinque minuti, finché inciampai e caddi sul pavimento.
Si calmarono subito e, dopo avermi stretta la mano, mi congedarono. Rtornato con i miei amici, feci appena in tempo a dire al cap. S[entra] di non reagire e di mantenersi allegro anche se lo sballottolavano un po'.
Anche lui fu introdotto nell'altra camera e dopo un po' sentii delle risate e dei rumori; ero già preoccupato, ma dopo circa un quarto d'ora ritornò, un po' pesto ma vivo.
Nel frattempo avevo raccomandato al dottor Gilio come doveva comportarsi e di non dire che era chimico, perché quella era la prima domanda rivoltami dai Russi e, siccome avevano insistito, era meglio non dirlo.
Gilio purtroppo non ritornò più dall'interrogatorio; l'indomani i soldati di guardia erano cambiati... alle mie domande mi dissero che non ne sapevano niente ma, dato che insistevo, mi dissero in malo modo di pensare per me.
Durante tutta la prigionia non mi stancai mai di domandare a tutti gli Italiani che incontrai se l'avessero conosciuto, ma nessuno lo vide mai. Tale enigma mi addolorò molto, perché il mio compagno era molto buono, quasi ancora un bambino.
Il giorno dopo ci fecero proseguire per un altro paese, ci fecero fermare sotto una tettoia ove, sulla paglia, erano coricati circa 200 feriti italiani.
Mentre ero vicino a un sottotenente che stava morendo, un soldato russo mi disse che un suo generale voleva parlarmi.
Lo trovai all'entrata, mi presentai; lui molto cortesemente mi strinse la mano, mi disse che era il commissario politico della Divisione e, se ne avevo voglia, avrebbe gradito conversare un po' con me.
Mi domandò se avevo fame e gli risposi di sì, ma che non avrei mangiato se prima i nostri feriti non fossero stati curati.
La mia risposta gli piacque e diede subito ordine perché fossi accontentato (e infatti dopo un po' arrivarono delle infermiere), ma aggiunse che sarebbero stati curati solo i feriti leggeri, perché per quelli gravi non erano attrezzati e non curavano nemmeno i loro. [...]
Verso sera un sergente venne a prendermi e mi accompagnò, attraversando il paese, a un'isba che credo fosse vicina al Comando; mi fece entrare in uno stanzino, che era diviso da delle assi sconnesse da una stalla; trovai tre ufficiali tedeschi i quali, per sfuggire alla morte, si erano fatti passare per Cecoslovacchi.
I Russi, per fare il controllo, facevano dire qualche parola in serbo-croato. Se la sapevano, bene; altrimenti li uccidevano subito; infatti due sottotenenti tedeschi che sembravano ancora due ragazzi e che non seppero rispondere furono giustiziati sul posto da un soldato che si era posto dietro di loro.
In seguito ci fu portata entro dei grossi barattoli un'ottima minestra di fagioli con carne sciolta dentro.
Uno dei Tedeschi che, essendo ferito, aveva freddo, attraversò gli assi e si avvicinò a un grosso bue e, piano piano, per paura, si accovacciò tra la pancia e la coscia dell'animale.
E in seguito assistetti a una scena davvero impressionante; per lunghi periodi il grosso bestione leccò le mani del ferito e bisognava vedere – quando si doveva muovere – con quanta delicatezza lo faceva, per non fare male al suo coinquilino.
A me, che avevo ancora negli occhi l'uccisione a freddo dei due Tedeschi, venne di pensare che l'uomo non sempre nel suo comportamento è superiore alle bestie.
L'indomani mattina fui riaccompagnato ove c'erano i feriti, ma per poco non ci rimisi la pelle.
Il graduato russo si era fermato a parlare con una ragazza e mi disse di proseguire; dopo una quarantina di metri incontrai una slitta carica di soldati sovietici feriti; uno di essi – che aveva una gamba gravemente colpita – fece fermare il veicolo e puntandomi il parabellum mi disse che mi avrebbe ucciso perché erano stati gli Italiani a ferirlo.
Riavutomi in fretta dalla brutta sorpresa gli dissi che anch'io ero ferito; lui mi disse di fargli vedere la ferita e, dato che aveva rialzato l'arma, cominciai piano piano a spogliarmi e intanto guardavo indietro verso il mio accompagnatore, facendogli dei segni.
Finalmente riuscii ad attirare la sua attenzione e arrivò di corsa, giusto in tempo per salvarmi; se tardava un minuto ero spacciato.
Arrivato ove il giorno prima c'erano i feriti, non trovai più nessuno; un po' più avanti stava formandosi la colonna di prigionieri alla quale fui aggregato; iniziammo così quella che fu chiamata la marcia del davai (in russo avanti) che in circa undici giorni doveva portarci – tra inenarrabili sofferenze – a Kalač, ove prendemmo il treno per Tambov che fu il mio primo campo di concentramento.
Eravamo accompagnati da dei partigiani giovanissimi che non ci trattarono male; li comandavano un sergente e due caporali. Tutti gli accompagnatori cercavano continuamente fra di noi i soldati tedeschi e come li trovavano li uccidevano; io che allora ero biondo – e anche per la mia statura – diverse volte fui scambiato per un nostro alleato e rischiai di venire liquidato.