Da Dimenticati all'inferno – Un carabiniere nei lager sovietici 1942-1946, Dante Carnevale

Girolamo Carnevale e Giuseppe Mariuz, a cura di, Ugo Mursia Editore, Milano, 2009

 

Si precisa che quanto segue non è una trascrizione, ma la sintesi dell'ottavo capitolo del volume.

 

Dimenticati all inferno copertinaDopo le marce del davai, pensavo che salire su un treno avrebbe significato per noi prigionieri la fine delle sofferenze.

Eravamo allo stremo...

I vagoni, indistinti nel buio della notte, mi parevano un miraggio. Avevo un piede congelato e credevo di essere finalmente in salvo.

Nel giungere accanto al convoglio, ci accorgemmo però che i portelloni erano chiusi.

Dopo un tempo che sembrò eterno, fermi nel gelo – e dopo varie nostre imprecazioni al re, a Mussolini, a Hitler, ai tedeschi, ai russi e alla guerra – iniziarono a farci salire.

Nella calca e tra gli spintoni, finalmente mi trovai sopra, grazie all’aiuto del fedele e giovane carabiniere che mai potrò dimenticare.

Un soldato russo ci stava contando nella sua lingua. Arrivò fino a cinquanta, prima di fermarsi.

Eravamo stipati, ma il carro merci ci sembrava una reggia.

Anzi, con quelle temperature l’essere così stretti ci consentiva di scaldarci un poco.

Per buona sorte ero capitato con le spalle alla parete del carro. Perché fosse una fortuna diverrà evidente con il proseguire del racconto.

Il carro fu serrato dall’esterno. Rimanemmo così per un tempo imprecisato e, quando il treno si mosse, sospirammo di sollievo.

Poveri illusi.

Il vagone non si aprì più ed è immaginabile quanto accadde a mano a mano che i giorni e le settimane passavano.

La pena più grande era la sete.

Ma era terribile anche rimanere pigiati senza potersi allungare un pochino.

E poi... la fame.

Infine, comparvero i pidocchi: per alleviare il prurito, ci grattavamo fino a sanguinare.

Il treno ogni tanto si fermava, e noi aspettavamo che aprissero per darci da mangiare o da bere, o per visitare i malati più gravi. Invece... nulla.

 

Con il trascorrere dei giorni, i bisogni corporali divennero un problema. Dove mettersi?

Le fessure dei portelli sembravano la soluzione più logica, ma anche lì c’erano dei prigionieri. Se qualcuno si avvicinava per orinare o, peggio, per altre... necessità, scoppiavano alterchi a non finire.

Alla fine ci arrendemmo tutti all’evidenza: dovevamo servirci di quelle fessure.

Il freddo – una volta tanto – era un vantaggio, perché le feci divenivano subito dure come la pietra e nessuno si sporcava. L’urina, colando, formava ghiaccioli che rimanevano attaccati alla parete del carro.

 

In queste condizioni gli uomini cominciarono a morire. Durante le lunghe soste – nonostante le nostre urla in una lingua mista che fosse comprensibile per i soldati di scorta al treno – nessuno aprì mai e i morti rimasero a farci compagnia.

Cominciammo ad ammucchiare i cadaveri presso i portelloni: era la posizione meno ambita, perché da lì entravano spifferi gelidi.

Ma, quando dovevamo fare i nostri bisogni, a poco a poco fummo costretti ad arrampicarci sui corpi dei deceduti per far sì che le feci cadessero lungo le fessure.

Sembra impossibile essere arrivati a tanta insensibilità, e io stesso – a volte – penso a tutto ciò come a un incubo spaventoso. Era, invece, la nostra realtà.

 

Uno, più in forza e intraprendente del resto dei prigionieri, si fece issare e – dopo vari tentativi – con il tacco della calzatura ruppe la rete del finestrino posto nella parte superiore del carro merci.

In tal modo riuscimmo, da quel momento, a prendere un po’ di neve dall’esterno per combattere la sete. Certo la manovra non era facile, e neppure esente dal rischio di cadere, soprattutto mentre il treno era in corsa.

Ciononostante, spesso non potevamo fare altro che leccare la parete del carro sulla quale – causa il freddo intenso e la condensazione del nostro fiato – si formava una patina ghiacciata.

Questo era possibile, in realtà, solo per chi come me si trovava con le spalle alla parete. Se altri si avvicinavano scoppiavano litigi e volava persino qualche pugno.

 

Una notte, durante un battibecco, si udì: “State attenti a dove mettete i piedi! Sono un tenente!”

Ma il rispetto e i gradi militari per noi non avevano più senso alcuno.

E giù botte, e confusione, mentre il treno proseguiva con il suo carico di relitti umani.

 

 


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