Da Prigionia: c'ero anch'io, Volume secondo, Giulio Bedeschi, a cura di, Ugo Mursia Editore, Milano, 1991
Testimonianza del sottotenente Emilio Vio, 3° Reggimento Bersaglieri
Il maggiore Prokuranoff era una persona molto intelligente: è un riconoscimento doveroso che non implica un ulteriore sentimento di simpatia [...].
Gli interrogatori di questo ufficiale erano quanto mai fini e sottili e certo non paragonabili a quelli che più tardi condusse un altro politruk, soprannominato dai prigionieri Tommaso Campanella. Prokuranoff era stato in Italia quale addetto commerciale in una delegazione russa e veramente mostrava che non soltanto parlava discretamente la nostra lingua, ma conosceva indubbiamente anche il nostro carattere e i nostri costumi.
Perciò seppe destreggiarsi in modo da far apparire tutto quello che costruiva per le sue mire e per i suoi scopi come un mezzo per creare nel nostro povero ambiente una specie di associazione culturale con speciale interesse ai problemi russi che effettivamente mostravamo di conoscere in modo insufficiente.
A onor del vero questo suo metodo incontrò subito le simpatie più o meno celate della massa, la quale partecipò – all'inizio – unita e interessata alle varie riunioni e conferenze, cercando di ammazzare il tempo che sembrava non dovesse mai trascorrere, aumentando la propria cultura e indirizzandola verso problemi ai quali, prima, non aveva fatto caso.
Così, ben presto, si poté parlare con una certa cognizione e una certa sapienza delle teorie bolsceviche e delle leggi sovietiche che prima erano totalmente ignorate. Ma ben presto la parte più colta della comunità dei prigionieri cominciò non solo ad ascoltare le dissertazioni, ma anche a voler entrare più sottilmente in merito ai vari problemi esposti e a criticare le varie tendenze filo-marxiste appoggiate dai conferenzieri. Si arrivò così nuovamente a una presa di posizione di forza del commissario sovietico e del gruppo antifascista che si era nel frattempo consolidato, e si venne a una nuova rottura nelle relazioni interne, con conseguente diminuzione nei ranghi degli iniziati stessi.
Infatti le teorie democratiche con cui si era cercato di presentare il nuovo strumento di propaganda caddero quando si trattò di addivenire a una vera e propria polemica che trovava i dirigenti della politica di filocomunismo impreparati o inadatti. La presa di posizione di forza dell'autorità dei due commissari trovò subito la sua contropartita nell'astensione in massa della comunità italiana a qualsiasi nuova organizzazione e attività politica e culturale.
Fu quello il tempo dei processi famosi nel lager di Suzdal'.
Due furono i fatti clamorosi di quel periodo che, risibili in apparenza, furono seguiti con un interesse straordinario da tutta la collettività.
Il primo fu il furto dei pomodori nel rispettivo magazzino, avvenuto per colpa di un ufficiale italiano che fu trovato in procinto di asportare alcuni chili della preziosa verdura.
Questo processo, al quale assistettero in qualità di giurati e di giudici tutte le principali autorità disciplinari e politiche, si prolungò per molto tempo, perché i commissari credettero di intravvedere in questo fatto l'inizio di un'azione contraria alle supreme autorità del campo.
Si ricercarono i mandanti e i complici, furono riconosciute le lunghe mani di altri delitti consimili già avvenuti in scala minore, e infine si addivenne alla sentenza che doveva eliminare per sempre quel genere di delinquenza, incomprensibile nella veste di un ufficiale prigioniero.
Il povero delinquente, in seguito a un'eccezionale misura di pietà e misericordia, fu condannato a venti giorni di prigione dura, dopo le varie minacce di essere inviato in qualche lontano campo di punizione. Così terminò il primo dei due grandi processi.
Il secondo fu più breve e si basò essenzialmente sulla grave accusa, lanciata da un appartenente al gruppo antifascista contro un liberale, di aver asportato nell'ora della mensa del mezzogiorno di una domenica un secchio di liquido dolciastro, conosciuto con il nome di kompott, e formato con la cottura e bollitura di qualche pugno di mele secche.
Quello era il dolce domenicale e festivo che ogni tanto, a lunghi intervalli, l'autorità culinaria ci passava e quindi si può immaginare quanto il fatto in se stesso fosse grave nei confronti della massa, cioè del popolo dei prigionieri, che si vedeva sottrarre un secchio intero di quell'ignobile intruglio quando lo stesso secchio doveva essere democraticamente suddiviso in altrettante parti.
Quello che uscì fuori dall'accusa del piccolo bolscevico, uno degli ufficiali più riformati del campo, vi lascio immaginare!
Il liberale si difese valorosamente, dimostrando le assurdità delle affermazioni contrarie e arrivò fino al punto di confessare che lui effettivamente aveva un giorno fatto passare in cavalleria uno dei famosi secchi, cosa che accadeva giornalmente per altri tipi di vivande, ma che questo si riferiva a una domenica precedente a quella menzionata dall'accusatore.
Fu così che, espletate le indagini dalla solita squadra di ben informati, fu tratto in flagrante arresto quale colpevole un capitano che si fregiava di alcuni importanti titoli in campo filo-bolscevico e che fu inoltre trovato, al momento della perquisizione, in possesso di un congruo numero di carote e simili verdure delle quali non seppe dimostrare la legittima provenienza.
Fu così che questo secondo processo, ordinato e portato a termine dalle autorità disciplinari del campo, con esclusione di quelle politiche, portò a un clamoroso insuccesso delle forze del gruppo [antifascista] che videro uno dei loro principali esponenti cacciato a tener compagnia ai topi nello stesso carcere dove già scontava la sua amara pena il ladro di pomodori.
Così terminò la breve storia dei processi per fatti notevoli e gravi: e nessuno dei due giudici, sia politico che disciplinare, si accorse che forse tutto dipendeva non dalla formazione più o meno marxista degli individui incriminati, ma dagli stiramenti continui degli stomaci dei prigionieri, fossero questi di qualsiasi tendenza e di qualsiasi idea filosofica.
Il maggiore Prokuranoff, commissario dell'Enkevedé (N.K.V.D.) scomparve un bel giorno dal campo senza lasciare gran traccia di sé, poiché in definitiva nulla di nuovo e di solido era riuscito a formare nel campo in suo vantaggio.