Da La croce sui girasoli – Diario di un cappellano in Russia (1942-1943)

Aldo Dal Monte, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL), 1998

 

La croce sui girasoli copertinaÈ sera.

Una sera pesante, nervosa, piena di incubi.

B. ha messo sull'attenti cinque o sei Tedeschi che hanno trattato con arroganza un nostro cuciniere. Il direttore è venuto alle prese con il comandante di una Compagnia di Sanità germanica. Adesso è calmo, ma ci deve essere stata burrasca grossa. Si limita a commentare lo scontro dicendo che i Tedeschi sono dei villani insopportabili.

C'è un bellissimo tramonto. Il sole non si vede più, ma il cielo è tutto un incendio di luce che si polarizza, con un rosso di sangue, intorno a pochi cirri di nubi, sospesi a un'altezza vertiginosa. Tra queste case l'atmosfera è satura di polvere irrespirabile, ma lassù c'è una limpidezza vitrea, incantata, che rincrudisce il contrasto tra cielo e terra.

La radio tedesca continua ad assordarci. Una voce d'Italia non c'è? Niente! "... Vor Stalingrad ist..." 

Lasciamo perdere. Stalingrado – ormai lo sappiamo – è una montatura; e la Germania è una macchina mostruosa: un groviglio d'acciaio in cui lo spirito soffoca.

C'è nell'aria un profondo senso di sfiducia: i Russi non solo non mollano, a Stalingrado, ma minacciano qua e là di scatenare un uragano.

Noi ci accorgiamo di essere dei poveri sacrificati e nel guardare in faccia ai miei uomini, che in silenzio si ritirano nelle brande, tristi ma ignari ancora di quello che si sovrasta, mi riempio di stizza per quell'alles gute ist Instinkt dell'ufficiale tedesco che fu nostro ospite giorni fa. [...]

 

Le prime brume in Russia racchiudono tutto l'orrore delle glaciali giornate d'inverno. Il cielo non si vede più, la terra non si vede più; non si vede più nulla.

C'è solo l'uomo raggomitolato su se stesso, chiuso alle immagini e ai suoni, solamente preoccupato di sfuggire alle taglienti e gelide ventate del nord.

Noi ci mettiamo in viaggio così: fra alcuni giorni raggiungeremo Kantemirovka, dove ci attende il nostro Comando.

Incominciamo sostando una mezza giornata ai margini della strada, per aspettare qualche autocolonna. Ci confondiamo con i civili russi che attendono da alcuni giorni; e, senza accorgercene, diventiamo come loro, anzi qualcuno di loro.

Siamo seduti sui sacchi come loro; come loro ci guardiamo attorno pieni di speranza appena sentiamo rumore di macchine; e mangiamo gli scemic che fraternamente loro ci offrono.

"Cholodno. Freddo."

"Ocen cholodno. Molto freddo."

"Ni caros itsi. Non si può viaggiare."

"Ni caros voinà. Non è una bella cosa, la guerra."

Raccontano che ieri, appena il Comando tedesco si è installato nella scuola dell'ospedale italiano, c'è stato un bombardamento.

"Come mai non sono venuti anche prima, quando c'eravamo noi?"

"Italianski dobra. Gli Italiani sono buoni."

Ecco un'autocolonna italiana: c'è posto per tutti, naturalmente. E i Russi – donne e ragazzi – salendo sulle macchine benedicono il nome d'Italia.

Il mio autista è un ragazzo triste che non ne può più della guerra. Ha già fatto un inverno: dice francamente che a un altro non resisterà: "Ho diritto al rimpatrio, se non me lo concedono non ritorno più."

Cerco di confortarlo, ma ormai c'è una cosa sola che lo può allietare: la notizia dell'avvicendamento.

Quest'estate ho deprecato la polvere: ora c'è il supplizio del freddo. Nella cabina si battono i denti e i piedi, mentre l'aria sibila anche dalle minime fessure.

"Questo è nulla, signor tenente: sentirete fra un mese se non viene voglia di piangere. In casa ci si difende, ma se si deve viaggiare è una disperazione..." [...]

 

Kantemirovka.

La nostra nuova sede è una Dom Sovietov, una casa del partito, uno dei più importanti edifici della grossa borgata.

Kantemirovka diventerà il principale centro ospedaliero delle immediate retrovie. Non tanto vicino alla linea da essere disturbato dal movimento della guerra, ma abbastanza per consentire i più urgenti soccorsi nei casi più gravi. [...]

Giungono gli ordini, insistenti, di affrettare i preparativi negli ospedali: prima di quindici giorni il centro ospedaliero deve poter ospitare qualche migliaio di feriti. [...]

 

12 novembre [1942, n.d.r.]

[...] Il freddo si è fatto terribile: in poche ore, stanotte, siamo scesi a 27° sotto zero. Siamo vestiti come Eschimesi, con cascula e cappotto di pelle: ridiamo vedendoci goffi come pinguini, ma non è il caso di far dell'eleganza.

Le prime incrostazioni di neve sembrano connaturate con l'erba e con la terra. L'orizzonte ha un colore bianco, abbagliante. Il camminare è diventato un esercizio di pattinaggio. Il tepore delle isbe è sempre più invitante.

Grandi movimenti di truppa. Sono i vecchi soldati del C.S.I.R. che rimpatriano. Non vedono più nulla, son pazzi di gioia. schiamazzano sguaiati; e tutto questo è tanta tristezza per l'animo di quelli che devono rimanere. Dicono anche che ieri sera i Russi li hanno salutati, sul Don: "Fanti della P., sappiamo che domani mattina lascerete i vostri posti per ritornare in Patria. Lo meritate, perché in dodici lunghi mesi avete fatto il vostro dovere, anche in mezzo a carneficine mai viste: è giusto che ora torniate alle vostre case, alle vostre spose che vi aspettano. Ci rincresce solo per quei disgraziati che dovranno sostituirvi, perché di loro neppure uno ritornerà."

 


 

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