Da Bepi, un richiamato del '13 (in Il sergente nella neve – Ritorno sul Don)
Mario Rigoni Stern, Einaudi Tascabili, Giulio Einaudi Editore, Torino
Eravamo verso la fine di settembre, la terra era secca e arsa, le alte erbe ingiallivano e gli aromi della steppa erano acuti e antichi: specialmente al mattino, subito dopo l’alba, o alla sera dopo il tramonto. Le giornate erano ancora tiepide, ma già le notti preannunciavano l’inverno: le stelle non avevano più quel baluginare estivo, bensì brillavano ferme e nitide, e come il tempo scorreva aumentavano di numero, così da riempire tutto il cielo.
Nel profondo silenzio si sentivano i richiami degli uccelli migratori e se non fosse stato perché si era in guerra, erano notti da camminare senza fine, con amore e felicità.
Qualche volta capitava che facevi il turno di vedetta o la pattuglia come fossi trasognato per quanto ti circondava, e ti lasciavi compenetrare da quella pace fino a quando il vento del sud non ti portava i rumori lontani, come sommersi, e ficcando gli occhi dove il cielo e l’aria si confondevano, scorgevi bagliori di temporali: laggiù c’era Stalingrado.
Anche i visi dei compagni che avevo intorno esprimevano tristezza e dolore: era accaduto che un mese prima, improvvisamente, ci avevano fatto salire sui camion – stavamo camminando verso il Caucaso, nella calura e nella polvere, con gli zaini affardellati – e dopo due giorni ci avevano scaricato in un deserto d’erba.
Entrammo in battaglia in un luogo che non è segnato in nessuna carta; alla mattina partii come caposquadra e alla sera mi trovai comandante di compagnia.
Una compagnia della forza di tre sparute squadre.
E ci lasciarono così per lunghi giorni, con tanta posta che nessuno più poteva ritirare e tante razioni che nessuno voleva mangiare.
Posto avanzato, circondato dal nulla, finché una notte venne un ufficiale e ci disse di ritirarci.
Noi ci sentivamo tanto spaesati e abbandonati, quasi, dopo quella battaglia pazzesca e incredibile da dove così in pochi uscimmo vivi. Tra di noi parlavamo ancora sottovoce e tutto intorno sembrava vuoto e smisuratamente ampio. Ampio e vuoto non perché non vedevamo villaggi, fiumi, terre coltivate, ma perché troppe morti avevamo dentro.