Non prendere freddo – Il racconto di un reduce del Corpo di Spedizione Italiano in Russia
Luciano Vigo, Gianni Iuculano Editore, 2000
Il piano di avvicinamento comportava marce quotidiane di 40-45 chilometri, per tre giorni consecutivi alternati a uno di sosta.
La tabella di marcia era di cinquanta minuti di cammino e dieci di fermata ogni ora.
E marciammo così, dieci ore circa al giorno, per giorni per settimane per mesi, tutta la rimanente estate e l'autunno.
Mi è rimasta nelle gambe, dopo tanti anni, la stanchezza di quei milleseicento chilometri percorsi a piedi, un passo dopo l'altro.
E, forse peggiore della stanchezza fisica, fu l'abbrutimento di quelle noiose, interminabili giornate, tutte eguali, vuote.
Si partiva all'alba, dopo avere smontato in fretta le tende e senza aver completamente smaltita la stanchezza del giorno prima. Un gavettino di caffè, un boccone di pagnotta, si accendeva la prima sigaretta, si caricavano sulle spalle armi e bagagli. Su due file indiane, ai bordi della pista, e avanti.
All'inizio si cantava, finché durava la voglia: le solite vecchie canzoni dei soldati, quelle dei nostri padri e dei nostri nonni, qualcuna magari un po' oscena, ma di una oscenità semplice, ingenua, direi quasi pulita:
E tengo una pistola caricata... zum-pa-pa
caricata con due pallini d'oro... zum-pa-pa
la punto contro te, con gli occhi bianchi e neri
la punto contro te, biondina dammela...
[...]
Ma presto, man mano che i chilometri passavano e la stanchezza aumentava, passava la voglia di cantare e poi anche quella di parlare.
Si camminava in silenzio, un passo dopo l'altro, lo sguardo rivolto a terra: nel naso la polvere sollevata dal compagno che cammina[va] davanti, e il suo puzzo di sudore e di sporco e il suo gas di scarico da cibo mal digerito. Ricordo ancora la battuta di un soldatino del mio plotone, che camminava in coda a tutti e che, investito da un odore particolarmente sgradevole, invitò i compagni che lo precedevano ad assorbirne ciascuno la sua parte, per diminuire la quota di sua spettanza, con un: "A fij de 'na mignotta, famo n'annasata per uno e passa 'a paura."
Col passare delle ore, sempre più lunghi sembravano i cinquanta minuti di marcia, sempre più pesante l'attesa dell'ordine che partiva dalla testa della Compagnia: "Alt! Materiale a terra. Riposo!" Sempre più brevi e insufficienti i dieci minuti di sosta e sempre più duro il riprendere la marcia.
Spina Vincenzo, catanese, era un ragazzone robusto che da borghese faceva il manovale. Era un mezzo selvaggio: i compagni giuravano, forse esagerando, di averlo visto uccidere un topo a morsi, per poi mangiarselo abbrustolito. Chissà come c'era capitato, nel mio plotone; poiché era uno dei più forti, portava il fucile mitragliatore.
Un giorno, allo scadere dei dieci minuti di sosta, non obbedì all'ordine di ricaricarsi l'arma in spalla e di riprendere il cammino: "Signo' tenente, non me fido cchiù..."
"Alzati, Spina, vergognati, sei forte come un bue!"
"Nun me fido cchiù, nun c'ia faccio..."
"Allora ti lascio indietro e ti denuncio per diserzione!"
E me ne andavo. E Spina Vincenzo si alzava d'un balzo, si gettava a tracolla il fucile mitragliatore e con grandi risate raggiungeva di corsa il resto del plotone. [...]
Povero Spina Vincenzo: fu tra i primi, in inverno, a congelarsi tutti e due i piedi e, da quel momento, non si fidò cchiù per davvero.