Da Fronte Russo: c'ero anch'io, Vol.1°, Giulio Bedeschi, a cura di, Ugo Mursia Editore, Milano, 1983
Testimonianza del tenente Luciano Loveriti, III Battaglione,
38° Reggimento Fanteria, Divisione Ravenna
Fu nelle prime ore della notte, una notte estiva russa del 1942, presso la riva del Don, in un villaggio che si chiamava Krassno Orechovo, situato alla base sinistra della grande ansa che il fiume forma presso Verch Mamon.
Anche in quella zona la riva destra su cui eravamo schierati, a differenza della sinistra pianeggiante e boscosa, era alta e brulla e, quando non digradava in scoscendimenti calcarei, solcati da balke, scendeva in pendio più o meno ripido verso la sponda del fiume. Il villaggio era costruito in piano o quasi, prima del pendio, ed era un povero villaggio con le solite due file di isbe che delimitavano l'unica via.
Era stato completamente abbandonato dagli abitanti, certo perché troppo vicino alle linee del fuoco e troppo esposto al tiro delle armi russe.
La via del paese era probabilmente visibile dall'altra sponda e vi era ordine di non attraversarla di giorno.
I russi infatti li sentivamo vicini.
Si udiva a volte perfino l'eco di un coro nella notte e, a una certa ora, anche il rombo di un autocarro che, supponemmo, andava a rifornire i capisaldi russi percorrendo vie defilate dietro la boscaglia.
Il nostro Battaglione (il III del 38° Fanteria Ravenna) restò per diversi giorni nelle isbe di Krassno Orechovo verso la fine di agosto del '42, dopo i sanguinosissimi combattimenti di quei giorni nella zona all'interno della grande ansa intorno a quota 220.
Era un momento di relativa calma ma, anche se il soggiorno nel villaggio rappresentava un tempo di tregua, non era certo molto allegro.
Dire che in querra si possano avere presentimenti di sventura può sembrare ovvio. Eppure in certi momenti, più che in altri, credo di aver avvertito che qualcosa stava per accadere. [...]
Un povero gatto scheletrico aveva miagolato lamentosamente e a lungo davanti alla mia isba. Uno dei miei soldati, cui i nervi avevano ceduto, aveva afferrato un attrezzo e l'aveva massacrato. Avevo avuto un senso di nausea anche se ben altre visioni di morte avevo dovuto sopportare, solo pochi giorni prima.
Avrei voluto rimproverare il soldato per il suo gesto inutile, ma restai così, senza dire nulla, a guardare gli occhi verdi e fosforescenti dell'animale, rimasti aperti e brillanti nel buio. [...]
Fu in quelle ore notturne che lo vidi.
Non so nulla di lui; neppure ricordo bene come ci incontrammo. Io occupavo la prima isba del villaggio, che si trovava venendo dalle retrovie, e forse qualcuno mi avvertì che un collega aveva chiesto di avere qualche informazione.
Era un sottotenente di un altro reparto, che non avevo mai visto.
Mi disse che, con i pochi uomini che aveva con sé, doveva raggiungere, non so più se per una ricognizione o per altro motivo, una certa zona verso est, ma che per arrivarci doveva passare vicino a un campo minato di cui era nota l'esistenza.
Certo non l'avrebbe mai confessato, ma mi accorsi che aveva paura. Non ne dava segni evidenti, ma io compresi egualmente. Avrebbe probabilmente preferito andare all'assalto o sentirsi fischiare vicino le pallottole nemiche piuttosto che avanzare nella notte con l'ansia disperante che ogni passo potesse essere l'ultimo.
Il colloquio fu breve. Mi sembrò improvvisamente di avere davanti un fratello che bisognasse aiutare, ma non potevo fare altro che dire alcune parole rassicuranti che non sarebbero comunque servite a nulla.
Dopo un po' si congedò e si incamminò con i suoi uomini nella direzione che prima mi aveva indicata.
Rimasi seduto a pensare, poi mi mossi ma non mi allontanai dal luogo.
Passò un po' di tempo, non saprei più dire quanto, ma non mi pare sia stato molto.
A un tratto, più che vedere, sentii avvicinarsi gente. Nel buio mi parve di scorgere quattro uomini che reggevano un cappotto militare, come fosse un telo, dentro al quale c'era qualcosa di pesante.
Quando gli uomini furono vicinissimi mi resi conto che si trattava della squadra che era passata poco tempo prima.
Uno dei soldati mi disse che il loro ufficiale era stato dilaniato da una mina. Nel cappotto militare c'era un troncone sanguinolento senza braccia e senza gambe.
Vidi ben poco, per il buio che ci circondava.
Il drappello si incamminò verso le retrovie e sparì come fosse stato soltanto una visione. Tornai a sedermi accanto all'isba.