Da Cento lettere dalla Russia – 1942-1943

Guido Vettorazzo, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto (TN), 1993

 

Cento lettere dalla Russia copertina22 gennaio. Gli alpini dormono ancora, anche i feriti e i congelati sono quieti e riposano. Scambio qualche parola con chi è già sveglio. Mentre sto parlando (non ricordo con chi, forse l'attendente di Maso?) sento con sorpresa prima, con angoscia poi, delle raffiche di mitragliatrice e qualche colpo sordo. Il gracidare continua, si fa più vicino e insistente, il sospetto si rivela fondato.

Guardo dalla finestrella e vedo gente che corre dal fondo del paese verso il mio pozzo e oltre. Sono terrorizzati, e corrono gridando I Russi, i Russi.


Il cuore mi pulsa forte in petto, ho appena il tempo di riavermi dalla sorpresa e di pensare al da farsi, che tra le isbe laggù vedo sbucare un grosso mostro corazzato: il solito T34 che rincorre la nostra povera gente senza difesa. Spara all'impazzata dalla torretta col cannone e dalle feritoie colle mitragliatrici, investe colla sua massa qualche povera isba con la gente che vi riposa e passa poi oltre, scendendo davanti a me, tra gli orti, verso la valletta boscosa. Un altro mostro, laggiù alla mia sinistra, sulla pista a lato del paese, avanza per chiudere la strada ai fuggiaschi. Non c'è tempo da perdere.

Saluto in fretta, col cuore in gola e le lacrime agli occhi, quelli che non mi possono seguire, do uno sguardo al bel mulo cui rinuncio per non essere più impacciato e meglio individuabile e sono d'un balzo sulla piazzetta del pozzo. Talamo e Villa mi passano davanti correndo verso la valletta boscosa alla mia destra, dietro alla folla dei fuggiaschi terrorizzati, in mezzo ai quali fioccano i colpi di cannone e di mortaio.

Penso per un attimo che non li devo seguire, che devo camminare isolato per avere più probabilità di salvezza. Miotti si sbraccia e grida che sono Tedeschi, che vengono ad aiutarci e sbraita insolenze contro i fuggitivi per richiamarli alla calma. Poveretto, forse il cervello non regge più a tanto susseguirsi di vicende spaventose. Non lo rivedrò più.

In mezzo a tanto tafferuglio noto la voce di Maso che mi chiama e scorgo poi la sua figuretta che mi viene incontro. Dietro di lui sono altri, fra cui Malattia Luigi che avevo perso di vista. È questo il primo e unico momento che io abbia visto Maso un tantino scoraggiato. Ricordo le sue parole: "Caro Ceo, ghe semo, xe meio 'ndarghe incontro!"

Io mi oppongo deciso; data una sbirciatina al sole e individuato approssimativamente l'ovest, gli espongo in breve il mio piano: intendo procedere in gruppetto isolato avanti dritto, oltre la mia isba, nella neve vergine, fuori dalle piste. Forse i carri e le autoblinde non si avventureranno a cercarci, guadagneremo il calanco là in fondo e il boschetto laggiù... poi siamo salvi, o almeno fuori tiro. Mentre ci scambiamo le nostre opinioni, alcune raffiche di mitraglia ci fischiano vicine. Sparano su di noi: ci buttiamo a terra presso un'isba, dietro la siepe che recinge un piccolo orto. [...] Qui urge filare lontano. [...]

 

Fa freddo e la neve geme pestata dai nostri stivali di feltro.

Parlottiamo fra noi incoraggiandoci a vicenda. "Ragazzi – dico agli altri – animo, che in fondo a questa marcia c'è l'Italia."

Penso a casa: arriverò, riuscirò, resistero? L'ora serale è sempre pregna di una certa nostalgia, anche nelle brutte situazioni. Ho l'impressione che anche gli alpini abbiano i miei stessi pensieri. Maso dice che non resisteremo a lungo camminando così a caso per piste non battute. Si va incontro all'ignoto, magari in zone disabitate, senza rifugio alcuno. Fino a quando? Io tengo duro e sostengo deciso la mia parte: proseguiamo diritto in direzione ovest, mettendo fra noi e gli inseguitori il maggior spazio possibile, tenendoci lontani dalle vie battute e di maggior traffico. Avanti per la steppa gelata e inospitale, per dove siamo sicuri di non incontrare vivente, amico o nemico, sulla neve vergine, tra gli sterpi e i girasoli stecchiti, fin che potremo, fin che saremo fuori dall'accerchiamento, al sicuro. Allora mangeremo e dormiremo, ora urge camminare, e presto.

Poveri noi, io che così pensavo e loro che si convincevano così facilmente! Sperduti in quella landa sterminata e bianca di neve, senza appoggio alcuno, braccati e insidiati dal nemico avanzante, senza viveri né riparo alcuno, ci illudevamo di vincere gli eventi, la steppa, i carri armati, i partigiani, la fame, la sete, la stanchezza, il gelo, la morte.

Poveri uomini, piccoli e pur con sì grande fede.

La luna piena ghignava gelida su di noi, illuminandoci bene la via nevosa.

 


 

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