Da La ritirata di Russia, Egisto Corradi, Nordpress Edizioni, Chiari (BS), 1999
Fu alla mensa ufficiali, un giorno dell’autunno 1942, che la radio annunziò l’appena avvenuto sbarco di truppe americane a Casablanca, in Marocco.
Nell’improvviso silenzio seguito alla lettura della notizia, mi scappò esclamato, molto forte: “Ah, ma allora abbiamo perduto la guerra.”
Il generale Umberto Ricagno fissò lo sguardo su di me e ordinò lentamente, freddo: “Corradi, esca.”
Uscii. Ma non mi successe nulla.
Ricagno dimenticò o finse di dimenticare il mio commento. Con Ricagno, o con il capo di stato maggiore divisionale – colonnello Molinari – o con il mio superiore diretto – colonnello Voghera – o altri ufficiali, andavo spesso verso il Don o sul Don.
Si raggiungevano i comandi dei battaglioni e delle compagnie; Ricagno controllava, ispezionava, dava ordini, si informava.
Ripeteva:
“Ora con il Don siamo a posto. Ma quando gelerà non avremo più davanti nessun ostacolo, sarà tutta quanta pianura.”
Vennero i primi freddi, nevicò in abbondanza. [...]
Via via che la temperatura si abbassava eravamo costretti, con un po’ di meraviglia, a constatare le conseguenze del gran freddo sulle armi, sugli automezzi, su tutto.
Dall’Italia o dalle retrovie arrivavano vagoni ferroviari carichi di patate gelate, dure come sassi, a scaricarle dagli autocarri facevano un rumore di ghiaia.
Quante circolari, su questo freddo che ci colpiva.
Per le patate, le circolari asserivano che, benché gelate e sgradevoli al palato, il loro valore alimentare rimaneva intatto. Ogni volta che mi ritrovavo con la penna in mano a redigere una giornata di diario storico trascorsa senza che nulla di importante fosse successo, me ne compiacevo tra me e me. Ancor più me ne compiacevo se era notte e sentivo il vento della steppa fischiare contro il nostro maniero.
“Tanto freddo di meno.”
Ma di freddo, avanti nel tempo, ce n’era una riserva spaventosa. Ne saremmo stati flagellati non lì, sul Don, dove eravamo pronti e protetti. Ma più a sud, in campo aperto.