Da Vainà kaputt, Gino Beraudi, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto, 1996
Salgo le scale che portano allo studio dell'avv. Pugliesi. È mio collega e amico. È di Rimini. Saprò finalmente quale sorte i miei hanno subito.
Ma a mezza scala mi fermo sbalordito. Tra un minuto saprò. Eppure non sento niente, non sento niente. Sono dunque un criminale o un relitto?
Ecco Pugliesi. Gli dico chi sono, altrimenti come farebbe a riconoscermi? È commosso. Io no.
"Tua moglie, i tuoi bambini, i tuoi genitori sono vivi e stanno bene. Anche tua suocera. Tuo suocero è morto. Non so se la tua casa sia in piedi. Non so se i tuoi siano a Rimini o a Morciano, dov'erano sfollati."
Mi prega di stare a pranzo con lui. Rifiuto e, poiché insiste, gli dico che ho i pidocchi. E l'argomento è decisivo.
La mia casa è in piedi, anche se ha il sordido aspetto che la guerra conferisce a ogni oggetto che sfiora.
Ho per la strada – una via sconosciuta piena di visi sconosciuti – incontrato l'avvocato Monti e l'ho fermato.
Si offre di precedermi, perché l'emozione dei miei non sia troppo forte. Come può essere, se io non sento niente?
Entriamo nel cancello scardinato. La porta che dà sul giardino è aperta. Mi affaccio in cucina. Sconosciuti sfollati sbarrano gli occhi all'apparizione.
Monti ha salito le scale. Sento che dice (a chi?):
"Signora, ci sono buone notizie di Gino."
"È in viaggio?", risponde una voce tremante. Già, una voce nota, quella di Tinin.
"È qui."
"Già in Italia?"
"Qui."
E sento un urlo, un urlo solo di lei, dei bimbi. E corro per le scale e a metà sono inginocchiato in un groviglio di corpi che si allacciano, bagnato dalle loro lacrime e, finalmente, dalle mie convulse e stupite. Stupite che cinque anni siano cancellati di colpo, che io non sia mai partito, che tutto sia stato soltanto un sogno di incubo.