Da Varvàrovka alzo zero, di Ottobono Terzi, Longanesi & C., Milano, 1974
A un tratto, ferma sul lato destro della strada, appare una lunga teoria di carri armati tedeschi, uno dietro l’altro, come i grani di un rosario senza fine, neri con la grossa croce tedesca. È la Divisione Gross-Deutschland, la più potente divisione corazzata tedesca del momento, giunta direttamente dalla Francia per tamponare l’avanzata russa in Ucraina.
Siamo tutti felici di vedere finalmente, dopo tanti giorni, un reparto alleato efficiente e attrezzato a combattere e respingere le terribili ondate dei carri armati sovietici. Agitiamo le mani in segno di saluto e acceleriamo il passo, per quanto ce lo consentono le nostre precarie condizioni fisiche.
Ma il nostro entusiasmo si spegne di fronte ai monumentali e mostruosi panzer Tigre e alla vista dei visi sprezzanti dei Tedeschi, che stanno in alto sui loro potenti mezzi blindati.
C’è da vergognarsi a passare davanti a loro.
Essi vengono direttamente dalle retrovie e sono freschi, puliti, ben equipaggiati. Noi camminiamo chini dal dolore e provati dagli stenti, sporchi, laceri, sfiniti, con lo sguardo fisso e stravolto, come se fossimo impazziti.
I carristi tedeschi armeggiano intorno alle bocche da fuoco per renderle ancora più lucide e non ci degnano di uno sguardo.
È l’incontro di due eserciti che non si conoscono e si odiano, che non hanno nulla in comune pur essendo alleati. […]
Nessuno parla. Un silenzio di disprezzo ci circonda. Ecco i nostri alleati, che oggi ci ignorano, gli stessi che hanno abbandonato il Don alla chetichella, fin dai primi giorni di questo terribile gennaio. Li ritroviamo qui, dopo quasi un mese, come se nulla fosse successo nel frattempo.
I Tedeschi, che pur avrebbero potuto difenderci, con l’aviazione e con i paracadutisti e sostentarci con i viveri, ci hanno abbandonato al nostro destino tragico, rendendo inevitabile il nostro massacro. Conoscono essi i nostri sacrifici di ogni giorno, [...] di tanti e tanti combattimenti senza nome? E se li conoscono perché li hanno dimenticati? Di moltissime battaglie, combattute anche all’arma bianca, non si saprà mai nulla, perché nessuno tornerà più da esse per poterne parlare. […]
Siamo tutti affamati e i miei compagni mi pregano di chiedere ai Tedeschi del pane, almeno per i congelati più gravi. Mi faccio forza e mi avvicino a un carrista vestito di nero che, appollaiato su un panzer, sta affettando con un lungo coltello una grossa pagnotta militare, per chiedergliene un pezzo. Questi, dopo avermi squadrato dall’alto in basso, con molta flemma e con il massimo disprezzo, mi risponde: “Für einen Russen, ja; für einen Italiener, nein”, che in italiano suona: “Per un Russo sì; no per un Italiano.”
Se avessi ancora la rivoltella gli sparerei, ma non posso far altro che rispondergli "Sei un porco!", questa volta in buon tedesco, e ritornare furibondo dai compagni, con le lacrime agli occhi e le mani vuote.
Questi sono i nostri alleati di oggi.
[Ospedale di Riserva n. 8 di Har'kov, n.d.r.]
Saliamo a stento le scale, che ci sembrano interminabili. Ci danno una branda con materasso e coperta. Sdraiandomi mi sento sprofondare, come in un soffice letto di piume. Sono diventato una bestia che dorme per terra e non lo sapevo.
Solo un reduce dalla Russia sa che quanto dico è vero. La civiltà è, questa sera, incomprensibile, come un teorema insolubile. Abbiamo centellinato la terra russa per tanti giorni e ora non comprendiamo più l'Occidente.
Ci hanno cambiato anche l'animo.
Per uno strano fenomeno di osmosi la Russia e la guerra sono entrate in noi così violentemente che il nostro spirito ha ancora bisogno di nutrirsi di tanta disperazione.
La serena pace della sala ospedaliera mi dà un senso di oppressione, quasi di nausea che mi attanaglia la gola.
Ho voglia di uscire ancora all'aperto e camminare, camminare senza sosta, come un fantasma nella neve glaciale.
Perché questa pace opprimente? Perché queste luci velate? Non era meglio rimanere laggiù, sul Don, sentire lo schianto dei proiettili sulla lastra ghiacciata del fiume e l'urlo dell'onda sonora che ne seguiva? Era, sì, un urlo di bestia ferita a morte, agghiacciante e tragico, ma tutto era terribilmente vero.
Qui tutto sembra irreale e falso, nel silenzio, nelle deboli luci velate e nella pace così momentanea.
Non si arresta improvvisamente un motore spinto al massimo solo togliendo il contatto. Ogni ingranaggio, ogni parte meccanica conserva in sé la volontà di andare ancora, di muoversi, di agitarsi per una irresistibile forza d'inerzia. Un senso di vuoto spinge il mio essere verso il baratro, con la volontà di precipitare nel profondo.
Mai come questa sera i ricordi tornano vivi e chiari: tutto è un incubo disperato e senza fine. Potremo liberarci mai da questa follia?