Da Noi soli vivi, Carlo Vicentini, Ugo Mursia Editore, Milano, 1997
La lettura di questa settimana non poteva non essere tratta dal libro
del dottor Carlo Vicentini, deceduto il 17 febbraio scorso.
A lui il nostro pensiero, sempre.
La sera incolonnarono tutti gli italiani. Speravamo in una distribuzione di qualcosa da mangiare, invece si preparava un'altra marcia nella notte.
Ci fecero percorrere all'inverso la famosa strada che con tanta precauzione avevamo cercato di evitare nella nostra breve ritirata. Ai bordi si vedevano gruppi di automezzi rovesciati – sventrati dalle granate o ischeletriti dal fuoco – e tutt'intorno cadaveri coperti di neve.
Un sonno prepotente, mai soddisfatto da quando ci avevano messo in allarme il 14 [gennaio] sera, continuava a perseguitarmi e quella notte mi accorsi che si poteva camminare dormendo. Sottobraccio a uno dei miei, andavo avanti cercando inutilmente di non chiudere gli occhi, e ogni tanto mi svegliavo, conscio di avere dormito, camminando come un automa. Le gambe di muovevano da sole e senza sforzo sulla neve battuta della strada. Quanto durava? un minuto? dieci? Nemmeno gli spari della scorta mi disturbavano.
"Tenente", mi scossero gli alpini che mi davano il braccio "guardate là, ci sono le nostre autocarrette."
Rovesciate nella neve della banchina, ce n'erano due, ben riconoscibili dal contrassegno del nostro battaglione dipinto sul loro muso: un cerchio bianco con dentro, stilizzato, il profilo della nostra montagna. Intorno c'erano altre carcasse, ma come fare ad accertarsi se anche quelle appartenevano al nostro reparto e se i poveretti che giacevano lì intorno, semisepolti, erano alpini miei? Uscire dalla colonna voleva dire farsi ammazzare.
Le autocarrette erano partite da Rossoš', insieme ai camion, sei ore prima che noi abbandonassimo la città ma, evidentemente, anche loro non avevano fatto in tempo a superare gli sbarramenti predisposti dai carri armati che s'erano spinti nelle nostre retrovie. Nessuno sarebbe tornato in Italia a raccontare le nostre vicende degli ultimi giorni.
Gli alpini, per quanto possa sembrare assurdo, ne godevano un po'.
"Speravano di squagliarsela, gli imboscati!"
Secondo loro gli imboscati erano gli scritturali, i magazzinieri, i mensieri del Comando e gli attendenti. Per gli alpini il concetto di imboscato era molto relativo. A Jagodnyj, quelli che stavano in trincea chiamavano imboscati gli infermieri del posto di medicazione che si trovava duecento metri più indietro e non parliamo dei cucinieri e degli addetti al Comando, giù in paese, a mezzo chilometro, anche se ogni giorno si abbattevano su di loro bombe di mortaio e gragnuole di katiuša.
Con i camion erano partiti anche due ufficiali che probabilmente non avevano ragione di allontanarsi così in fretta.
I commenti degli alpini su di loro erano sarcastici e a questi non sfuggì nemmeno D'Adda, il colonnello comandante del battaglione che, partito per l'Italia a ottobre, in licenza per la nascita di un figlio, non era più rientrato al reparto.
"Forse sarà lui che lo allatta.", ridacchiavano.
"Quello era un dritto e lo ha dimostrato anche questa volta.", concluse il sergente furiere che lo conosceva bene.
Invece, tre camion erano passati con una ventina di alpini e cinque ufficiali tra i quali il tenente Corte di Montonaro, gravemente ferito, che doveva morire pochi giorni dopo.
Altri quindici alpini e tre ufficiali che erano degenti all'ospedale di Rossoš' perché feriti o congelati, erano stati sgomberati in tempo.
Infine, pochi altri riuscirono a evitare l'accerchiamento, aggregandosi alla Tridentina.
Sessanta uomini e sette ufficiali è quanto si è salvato di un battaglione di cinquecento uomini e trenta ufficiali.
Sui camion c'erano anche i bagagli dei componenti il Comando, per cui la mia cassetta ritornò in Italia da sola, con una parte del diario, alcuni rullini di fotografie e il mio cappello alpino che all'inizio dell'inverno avevo sostituito con un berretto di pelliccia alla russa.
Durante la marcia incontrammo, a varie riprese, automezzi e carri armati che andavano verso il fronte e ogni volta la colonna dei prigionieri si scompigliava riversandosi nelle scarpate perché i conducenti, per impaurirci o forse perché seriamente intenzionati a uccidere quei maledetti nemici che trovavano senza fatica sulla loro strada, venivano contromano a tutta velocità, irrompendo tra le file.
Il primo attacco improvviso e insospettato costò la vita a parecchi dei prigionieri che ebbero la sfortuna di marciare in testa alla colonna.