Da Storie di alpini e di muli, Giuseppe Bruno, L'Arciere, Cuneo, 1983

 

Storie di alpini e di muli copertinaFrequentare famiglia e casa Boris fu per me come passare, per ciò che concerneva i rapporti intellettuali con i russi, dall’asilo infantile all’università: significò rompere un diaframma che divideva, allora, due mondi diversissimi, anche se in entrambi i nostri Paesi vigevano regimi autoritari; scoprire verità e stati d’animo, tra l’italiano e i russi, a volte duramente in contrasto... altre volte invece esattamente combacianti.

Sin dalle prime frasi scambiate scoprii in quella casa tre amici nelle persone di Sura, Irina e Boris, [e] due nemiche in Sina e Sonia.

Sura era una chiacchierina spensierata, ovattata e difesa da tutto il brutto del mondo esterno dall’affetto con cui la circondavano nonno, mamma e zie.

Adorava la musica e rivelò una gioia incontenibile quando una sera mi trascinai dietro Filippi con la fisarmonica e dedicammo a lei un certo numero di canzoni italiane.

Ebbi l’occasione di dare uno sguardo ai suoi libri scolastici. Sura nel 1941 frequentava in una scuola di Rossosch la quarta elementare ma alla fine dell’anno, per gli eventi bellici, aveva dovuto interrompere lo studio che continuava però a Ternovka, con l’aiuto del nonno e della zia Tania.

Rimasi impressionato dalle nozioni militari che comparivano su un suo testo di terza elementare, intitolato Vita sociale e difesa della Patria. Sura aveva già studiato e non solo sommariamente il funzionamento dei fucili, delle mitragliatrici, dei siluri, delle bombe a mano.

Già sapeva come si doveva rizzare un reticolato, come si costruiva un ricovero anti-aereo di emergenza, che cosa si doveva raccogliere nei boschi per cibarsi e sopravvivere.

E, nel testo, pagine e pagine di disegni dettagliati dei pezzi componenti le varie armi, spaccati di vari tipi di bombe a mano con tanto di descrizione del detonatore, miccia, percussore e carica di scoppio.

Infine un piccolo trattatello sulla medicazione di ferite da guerra e sulla difesa personale contro gli aggressivi chimici.

Un giorno, che chiesi a Sura cosa desiderava di più della cioccolata che ogni tanto le regalavo, mi sentii rispondere candidamente: "Smontare la tua pistola." [...]

 

Sina e Sonia erano bolsceviche dichiarate. Atee convinte, se ne infischiavano delle icone, vivevano e attendevano nella luce eterna di Lenin e in quella vivente di Stalin.

Non fecero mistero delle loro idee: si fidavano di quello strano italiano che era comprensivo e gentile, uno di quegli italiani mosno che facevano breccia nei vecchi e nei rassegnati... ma non in loro, gioventù nuova della grande Russia.

Parlavano dure e, a volte, quasi cantando di rabbia.

Mi sbatterono in faccia, una sera, veramente un canto, un grandissimo canto Jesti zavtra voinà (Domani ci sarà la guerra), un inno terribilmente bello.

Aveva però due o tre battute simili a Giovinezza, giovinezza.

Ma non precisai in merito, il discorso sarebbe stato troppo lungo.

Negli scontri che avevamo, io partivo sempre da una posizione di inferiorità rispetto a quella di Sina e Sonia, e per un motivo semplice: appartenevo a un popolo che aveva dichiarato guerra alla Russia. E cosa aveva fatto di male la Russia alla lontanissima Italia? Questo me lo rinfacciavano tutti i giorni, e mi era impossibile controbattere.

 

Riuscii comunque ad ammansirle parzialmente, dimostrando che qualcosa conoscevo su avvenimenti della loro Patria relativamente vicini.

Quattro nozioni di storia raffazzonata alla bell’e meglio su riviste italiane.

Povere cose che, però, fecero colpo: furono impressionate, ad esempio, dal fatto che sapessi che il vero nome di Lenin era Vladimir Ilič Ulianov e che Lenin era un nome di battaglia [...] e Sina sorrise compiaciuta nell’apprendere che conoscevo, attraverso i miei studi scientifici, il valore delle opere di Mendeleev e di Pavlov che tanti, tanti giovani italiani avevano letto Tolstoj, quel grande vecchio che assomigliava un po’ a nonno Boris [...].

Risalivo posizioni su posizioni e quando fui sicuro che, nei nostri dibattiti, stavamo ormai sullo stesso pianerottolo, chiesi cosa sapevano loro dell’Italia.

Sapevano poco.

Buttarono fuori due soli nomi, Leonardo da Vinci e Dante. Non molto.

L’ultima aggressione mi venne da Sonia allorché mi disse che io non avevo la minima idea di chi fosse Stalin. Risposi che mi era simpatico perché portava il mio nome, Giuseppe, e pazientemente ascoltai il suo panegirico.

 

Furono poi patetiche nella loro ammirazione, mista a ingenua invidia, di una foto nella quale papà Bruno, mamma Bruno e Bruno figlio apparivano con tre biciclette al fianco e ci volle del tempo perché si decidessero a chiedermi se quelle biciclette erano proprio tutte nostre. Sì, erano tutte di nostra proprietà e fui cattivo a precisare che nell’immagine mancava la mia bicicletta da corsa, nonché una bella moto a due posti.

Sura non era mai salita su un ciclo; volle sapere cos’era quel coso rotondo che scorgeva sotto il manubrio della mia bicicletta; era il fanale e le spiegai che “faceva luce con una rotella”.

Dovetti tracciare su un pezzo di carta un disegnino esplicativo del fenomeno.

La bimba ritagliò il disegno e lo cucì sulla pagina di un suo libro.

Ricordo Sura il giorno in cui lasciai per sempre Ternovka: cantava una canzoncina che a un certo punto diceva: “Il mio cuore è triste come un ramo secco sotto la pioggia.”

 

 

Il titolo della canzone cantata da Sina e Sonia che Giuseppe Bruno menziona nel brano dovrebbe essere Jesli zavtra voinà (ЕСЛИ ЗАВТРА ВОЙНА)... Basta cliccare qui per ascoltare una delle versioni disponibili su youtube.

 

 


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