Vainà kaputt – Guerra e prigionia in Russia (1942-1945),
Gino Beraudi, Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto, 1996
Poi, poco prima del Natale, tocchiamo con mano la verità. I sospetti, i timori si trasformano in certezza. Alla nostra destra, fino alla confluenza del Kalitva, è schierato il Battaglione Saluzzo. Dubito dopo, la Divisione Cosseria. Essa viene investita da preponderanti forze nemiche con estrema violenza. Le artiglierie russe sono numerosissime.
Le fanterie – noi le vediamo bene salire all'attacco su per il costone e le tormentiamo con i nostri cannoni – si buttano avanti a ranghi serrati, uno scaglione dopo l'altro, senza esaurimento. In tre o quattro giorni di disperata resistenza la Cosseria è polverizzata.
I Russi sono entrati in Novo Kalitva, il villaggio che dista da noi soltanto sei chilometri. Al nostro tenente Percivalle, con la sua Compagnia, è dato l'ordine di snidarli.
Ed egli va, assolve il suo compito, spazza il paese.
Ma, quando fa per rientrare nelle nostre linee, si avvede che nuovi reparti nemici sono entrati nel villaggio alle sue spalle.
Si apre il varco a furia di bombe a mano e baionetta, ma riceve una raffica di parabellum nel ventre.
Eppure tutto funziona ancora così bene, che quattro ore più tardi egli è già stato operato e qualche giorno dopo se ne va in un ospedale arretrato e poi, suprema felicità, in Italia.
Ma ormai è chiaro che la battaglia che sta svolgendosi alla nostra destra non è un episodio locale; che essa non rappresenta che il punto estremo dell'immensa battaglia di Stalingrado.
Se non ci fossero mille sintomi a rivelarcelo, ce lo dimostrerebbe la constatazione che, dietro di noi, non esiste nessun reparto di rincalzo, nessun nucleo di intervento. Ognuno deve sbrigarsela da sé.
Rapidamente la Divisione Julia viene tolta dalla nostra sinistra e gettata sul terreno sul quale la Cosseria si è immolata. E là, la Julia – l'eterna sacrificata – compirà il miracolo [...].
Intanto, a sostituire nel nostro schieramento un simile meraviglioso reparto, giunge una divisione territoriale, la Vicenza, priva di artiglierie e inviata in Russia per servizio di presidio. Vediamo giungere in linea una sua Compagnia, una Compagnia di gitanti domenicali [...].
Spossati dalla fatica, han lasciato gli zaini qualche chilometro indietro. Andranno le nostre slitte a recuperarli.
Ma intanto questi strani soldati, ospitati nei nostri bunker di seconda linea e confortati dalla solida vicinanza degli alpini, si stanno trasformando in buoni combattenti.
Passiamo così un Natale tranquillo e gioioso. Il bello della guerra è che ognuno è tenuto ad occuparsi soltanto del proprio tratto di fronte.
E da noi le cose vanno bene. È vero che von Köln, il capitano tedesco che, alle nostre dipendenze, comanda un reparto del Genio, non nasconde le sue preoccupazioni.
Egli è informatissimo e vorrebbe mettere al corrente anche noi, ma si demoralizza di fronte al nostro disinteresse.
Si tratta di un prussiano che pare tolto da una delle caricature del tempo della grande guerra: la testa tonda e biondissima, il viso porcino rosso e paffuto, e una giacchetta a fior di sedere fanno subito prevedere il secco batter di talloni e l'inchino ad angolo retto col quale rende omaggio al maggiore Guaraldi.
Il quale non lo può soffrire e lo tratta con aggressiva avversione. Allora von Köln si rivolge a me. Io sono abituato a fare da intermediario diplomatico tra il mio comandante e il Comando di Reggimento. Non ho bisogno, invece, di usare diplomazia col Comando di Divisione. Il maggiore stima al massimo ed ama il generale Battisti che, in verità, abbiamo visto tra noi assai più spesso del nostro colonnello.
Dunque, von Köln (che Guaraldi chiama von Kul) è molto cortese e insinuante, con me. Un giorno arriva impugnando una bottiglia di cognac francese di gran marca, pregandomi di consegnarla al maggiore «quale piccolo pegno di grande amicizia» e, dopo molte parole espresse nel suo duro francese, mi apre l'animo suo: egli è preoccupato.
Egli teme che, se venisse l'ordine di ritirata, noi potremmo lasciare in coda il suo reparto. Riferisco al maggiore, che manda a chiamare il compìto capitano e lo rassicura con parole sanguinose: non tema, gli alpini sono abituati a difendersi da soli. Non si fiderebbe se avesse le spalle coperte da un reparto che non fosse composto di suoi soldati.
Il capitano sarà avvertito subito, se verrà l'ordine di ritirata, e potrà partire per primo.
Penso che von Köln sia offeso, ma soprattutto è meravigliato.
Egli sa bene cosa farebbe un comandante tedesco di settore che avesse alle due dipendenze anche reparti italiani, ungheresi o rumeni.
Lo sapremo presto anche noi, che dipendiamo dal Comando Supremo tedesco e che, quando verrà l'ordine di ritirarci, ci accorgeremo con stupore che i Tedeschi se ne sono andati da un bel po' e ci hanno lasciato soltanto quello che, sulla carta, si chiama Corpo d'Armata Corazzato, ma che è composto solo da una trentina di cannoni semoventi.